Le parole custodiscono il significato che racchiudono, per questo salvano.
Basta trovarne una di parola, e sei salvo.
Ne ho ritrovate alcune, erano rimaste scritte a matita nel disordine dell’ultimo taccuino che ho comprato, erano sparpagliate nei foglietti cuciti là dentro, disseminate tra esuberanti appunti di quel viaggio che non ho mai fatto, una presuntuosa lista delle priorità di giornata, l’ansia per quella scadenza imminente e che mi è costata cara, il calendario di giorni contrassegnati da un allegro e segnaletico asterisco, il punteggio in serie delle mie risposte esatte, e poi l’estemporaneo di quei pensieri sparsi, quasi scarabocchiati in quello spazio sospeso anche lui, senza righe, e dal quale erano arrivati.
I pensieri volano, vengono da ogni dove e ti disperdono, le parole invece restano e inchiodano. Dove le hai scritte restano, così come sono state scritte. Dove le hai lette le ritrovi. In quel taccuino, ad un certo punto, ne ho scovate tre, come balzate dalle colonnine di un piccolo dizionario clandestino: mistero, fedeltà, e anima (che voleva diventare animale in una specie di gatterìa!). In altri angoli di foglio, alla maniera degli insiemi, c’erano anche delusione, dimentico, ombra e promessa.
Le parole sono contenuto, c’era e c’è un significato dentro ad ognuna di loro, intatto e autentico, quello che dà valore alla storia. La parola è narrazione. Devi leggerla in quello che le succede dentro, come si fa con l’anima. È così che, come in uno specchio, ti restituisce un bozzetto con l’immagine della sua piccola verità.
Anche se ogni volta è mistero
Il cielo di Roma oggi ha la luce di un Serafino, è quella di un particolare amore verso Dio. È così da quando Marco ci è andato ad abitare. È andato per stare più vicino al cuore dei suoi genitori, in un modo autentico.
Loro vivono sulla terra, sì a Roma, circondati da conversione, storia e cristianesimo, eppure la forma più alta dell’amore di Dio, per loro, viene da un figlio che abita il cielo.
Quel cielo sopra di loro e che adesso è anche dentro di loro.
Ogni giorno. Senza disperazione.
Tu guardi il padre e la madre.
Sono come nella compiutezza di un disegno, iconici.
Li hai appena conosciuti e li osservi mentre sorridono sereni davanti al sacrato di una piccola chiesa, hanno assaporato ancora una volta di quella luce che sovrasta le ombre della miseria umana. Ascoltano, accolgono.
Dentro la chiesa c’è una Madonnina che tra il bianco e l’azzurro ascende al cielo, e un Cristo che ti abbraccia da una croce, è incastonata nel tono bianco dell’intonaco, ma con la trasparenza del vetro, ti dice che si può passare oltre.
Abbraccio e ascensione, stanno lì dentro, sono statua e immagine, abitano la chiesa, abitano il cielo e abitano l’anima di quel padre e di quella madre, che insegnano la dignità del molto dolore e la mitezza di fede.
Stanno l’uno accanto all’altra, con il viso e una parola sempre misurata, soave, gentile e disponibile.
Si vede che cercano il buono. Sanno che è ancora in mezzo a loro. Si chiama Bene.
Non è vero che lo hanno perso. Lo cercano e lo trovano.
Anche se ogni volta è mistero.
Da quel piccolo vocabolario clandestino: mistèro, tutto ciò che non si può intendere.
Vi abita dentro ciò che è vero e senza disperazione.
E che poi avviene.
Fedeltà di un’orchidea
È passato del tempo. Martina è ancora dentro, è una sagoma longilinea che resta in piedi dietro il vetro di una grande finestra. Da quell’altezza vede anche il mare, un po’ lontano e a volte un po’ vicino, dipende dalla leggerezza che può avere l’aria, dipende da come lei indirizza lo sguardo, è come un’onda, raggiunge quel mare ma poi si ritira, le arriva dentro ma torna distante.
Fuori da quella finestra il paesaggio è cambiato, tante volte. C’è stato qualche giorno di sole poi il rumore forte del vento, il grigio di nuvole cariche fino a che l’aria è rimasta graffiata dal precipitare dritto e rumoroso della pioggia.
Giorno e notte, alba e tramonto, sole e luna. Freddo, sempre più freddo.
Giorni e stati d’animo, gli uni come gli altri.
È così che era arrivato quell’inverno: all’improvviso. Un cielo di piombo, un boato nell’aria, un gelido soffio, il mare increspato e la sabbia bagnata.
All’improvviso. Nel bel mezzo della sua estate.
Martina non se n’era resa conto, se n’era solo imbevuta, ingoiando e affogando ogni goccia di pioggia, ogni lacrima che l’acqua, attraversando il gelo dell’aria, faceva quasi neve.
Con il ghiaccio di una delusione in gola, adesso guarda l’orchidea che sta sul davanzale, ha i colori delicati della primavera, grappoli di verde che si stanno dischiudendo al tono romantico del rosa, delicato prima e poi sempre più vivace, fino a che diventerà di un brillante lilla.
Cosa ci fa la parola promessa in quel vaso torturato da una stagione minacciosa? Martina aveva sentito dire che quelle piante, per fiorire, non devono essere mai rimosse dal punto che è stato scelto per loro: tra quelli più in altezza e per godere di più luce possibile, la luce è indispensabile alla vita, alla vita sono necessarie chiarezza e comprensione, parole che indossano un abito tutto chiaro, in un vaso di terra, con bulbi e radici che traboccano alla ricerca di luce.
Martina aveva sempre avuto questa forma di premura per quell’orchidea. Non toglierle la luce. Lei sa cosa significa stare nell’ombra, piombarci all’improvviso. Perché un giorno proprio la parola ombra aveva coperto quella della sua di luce, le si metteva continuamente davanti, in mille maniere, mille pensieri travestiti da definizioni di oscurità e di paura: e se quell’ombra si avverasse? Per la volontà cattiva di qualcun altro e non per la sua che voleva essere sempre buona?
Anche l’ombra, però, dipende dalla luce.
Martina guarda ancora fuori dalla finestra, sul davanzale, dove c’è la sua orchidea che in pieno inverno ha in serbo una promessa di primavera, si chiama fedeltà. Nel suo pensiero si mettono in ordine delle parole:
Ogni volta che dimentico che (fuori) sarà primavera lei fiorisce.
E promette di farlo ancora.
Ma io dimentico.
E lei di nuovo, qui dentro, fiorisce.
Torna la luce, visione dell’invisibile. È una parola nuova, dal suono potente, che aggiunge alla promessa la parola fedeltà, in quella parola si vede ciò che umanamente non è possibile vedere. Cosa vede la fedeltà? Vede realizzata la parola luce. Oggi, come se fosse già domani, in pieno inverno, come se fosse già primavera.
Tra le ombre di una delusione ma davanti al davanzale e al fiorire di una promessa di luce, Martina non vede più il mare come lontano, e nemmeno troppo vicino. È come la parola luce, gli abita dentro, e senza naufragio.
Da quel piccolo vocabolario clandestino: fedeltà, una promessa già mantenuta.
Accende la parola luce.
Tra Stephen King e una gatterìa, se c’è ancora una differenza tra la parola anima e anima-le
Carasco è di quelli che arrivano all’improvviso, anche se sono lì da tanto tempo, e molto prima di te. Tu potresti chiederti da dove sia balzato fuori, cosa ci fa lì, perché si è seduto proprio vicino a te, perché ha scelto di stare ai piedi della tua brandina e proprio sotto il tuo ombrellone.
Arriva all’improvviso anche in quello che è il tempo ancora un po’ addormentato della prima colazione, sceglie di fare un giro attorno alle gambe del tuo tavolo, qualche volta sfiora le tue, tanto che subito ti ritrovi a trasalire in un sobbalzo e ti chiedi, ancora, perché è proprio ai tuoi piedi, in quella terrazza così grande che con i suoi tendaggi d’edera consente tanti angoli d’affaccio, e da dove lo sguardo può aprirsi al mare, al profilo non troppo lontano dell’isola che sta di fronte, fino a quello scivolare delle imbarcazioni quando segnano incroci di schiuma bianca nell’azzurro delle acque che si sono fatte più aperte.
Carasco ha gli occhi grigi, un gran appetito, e uno stile principesco.
Indossa l’eleganza lucida del nero e si muove con sicurezza ed agilità.
È evidente che conosce quel luogo meglio di chiunque altro, probabilmente è lì da sempre.
In Hotel lo aspettano ogni giorno, e quando arriva viene riverito come se fosse proprio quel Signor Carasco, ovvero il proprietario di una delle più suggestive e ricercate strutture alberghiere disegnate a picco tra le Eolie. Potrebbe anche esserlo, il Signor Carasco, e questo spiegherebbe molte strane cose, di quelle che accadono ancora e anche adesso che quell’uomo non c’è più.
Carasco intanto è padrone di girovagare nei giardini, negli atri, nel lounge bar, tra il mare che sta giù e la piscina sulla terrazza di su e con vista cielo.
Tutti gli affacci e le entrate sono roba sua, le conosce bene, è da lì che sceglie come intrattenere gli ospiti, al sole o alla penombra del salotto di vimini sotto al pergolato, può sfidare l’invadenza di un gabbiano, non gli piace che qualcuno gli rubi la scena.
Carasco è un gatto che non ha padroni, è il padrone, e come il Signor Carasco gode e domina la bellezza e l’autenticità di quei luoghi.
Per questo li controlla.
Nulla deve turbare quell’idea di posto da favola, edificato a strapiombo sul mare tra il viola e il blu, che ha mantenuto un accesso diretto e privilegiato a quello che era stato un antico attracco e che adesso sembra riservare un’accoglienza nuova offrendo al viaggiatore un approdo spensierato per far parte della bella solitudine di un’isola.
Qui tutto il personale lo crede anima, crede che Carasco sia l’anima del Signor Carasco che spassando nell’eleganza di un gatto nero, accende le luci della sera per poi rispegnerle, qualche volta, in cucina, scompiglia nel cesto quasi vuoto delle posate perché qualcuno possa andare a riassortirle, poi va a dare una spinta sulla porta aperta per rimandarla più sicura e chiusa, riesce a insinuarsi tra le tende di una camera per farle ondeggiare con la coda e schiuderle alla bellezza del paesaggio isolano, scivola infine lungo la tastiera di un pianoforte perché, giù al bar, qualcuno si rimetta a suonare.
Roba da gatti insomma e non da uomini.
Ma più di una volta ormai, capita che i pensieri degli uomini perdano valore, e scivolino come Carasco lungo una scanzonata tastiera, pigiando le note dell’animalesco tanto da riuscire a credere che un uomo possa sentirsi gatto, ma così gatto da poterlo diventare, così gatto da rinunciare all’elevatezza della propria anima per andare a rivivere nel corpo snello e furbo di un felino che la fa da padrone sul pensiero e l’affetto degli uomini.
A pensarla così è soprattutto Giorgio, il maître del ristorante, che racconta di questa sua bizzarra convinzione, di un’anima animalesca, come se la stesse leggendo da una delle pagine, sue preferite, quelle di Stephen King, mentre Carasco è ai suoi piedi: sta a leccarsi i baffi del ben servito di una colazione intercontinentale offerta tra i tavoli qua e là.
Sì, mentre il gatto si rigira tra le zampe quel delizioso cannolicchio alla ricotta con cuore di pistacchio, Giorgio afferma che Carasco è l’anima del Signor Carasco nel corpo di un gatto nero, avrebbe lasciato quella parte incorruttibile del suo essere uomo, quel soffio creatore, vitale ed eterno che definisce il respiro dell’esistenza umana anche dopo la morte, per andare a stare nella bestialità finita ed istintiva di un animale che miagola e va a caccia di libellule per gioco o per fame.
Povero Signor Carasco, dice tra sé la Giulia che di Messier Carasco si è sempre presa cura, poveri tutti i suoi novantanove anni, il suo cammino di vita lungo e dedito ad essere, fare, realizzare, valorizzare, luoghi, bene e servizio. Una vita lunga, come quella scala ricavata nella roccia del suo prestigioso hotel, per poter scendere ancora a picco sul mare, salita e discesa, ogni volta, con o senza il sale addosso, asciutti o bagnati, immersi e riemersi dalle acque blu di quel Mediterraneo che, come la vita, ti sbatte dentro oppure fuori, con le sue onde, che qualche volta arrivano come schiaffi in faccia.
Novantanove anni, il tempo di una vita lunga e dedicata alla realizzazione di un luogo che mantenga la meraviglia e la profondità di un’anima.
Mentre ascolto Giorgio scrivo la parola Carasco, il nome di un gatto nero, nominato ad anima di un essere umano, e poi guardo al di là della terrazza dell’edera, verso quel cielo che è trasparente e di un azzurro leggero come il sospiro di un’anima, come la brezza che si respira, fresca, quando hai disceso una lunga scalinata che ti ha portato fino al mare e fin sul bordo bagnato di un piccolo molo. È qui che scrivo, allora, anche la parola anima, ricalcando in grassetto. C’è un abisso, penso, con la parola anima-le, c’è tutto il mediterraneo che ho davanti.
Ed è qui, di fronte a me, alla fine del molo, che arriva Jonathan, il più bianco e integrato gabbiano nei paesaggi dell’Hotel Carasco. Bianco e fiero. Ogni volta che il gatto gli si avvicina Jonathan spicca il volo, non è paura, sta mostrando a Giorgio e a quel gatto com’è che il bianco va a prendere la consistenza dell’azzurro. Elevandosi.
Com’è che si diventa limpidi dal corruttibile di chi rimane a terra. Ma il volo di Jonathan è un’anima, e questo Carasco non lo sa.
Da quel piccolo vocabolario clandestino: ànima, principio vitale e parte incorruttibile dell’uomo. Dal soffio, dal suo respiro o dal suo vento. L’anima non gioca, respira.
Sottovoci
Delusióne, il vestito del non detto e che hai indossato, sul perché di un profumo che ti bruciavi addosso tutte le mattine. È quella che mi hai dato. Delusione del non dire, prigione del non poterti chiedere.
Dimentico, è l’architettura della trappola. Attenta al suo inciampo. E non dimenticare l’oriente dei tuoi passi.
Òmbra, la zona oscura dei pensieri. Dipende da te, ma tu dipendi dalla parola chiara della luce. Pronunciala sempre.
Proméssa, mantenere. Come “manu tenere”, tenere con la mano, in modo che duri a lungo. Leggi nella fedeltà. Quella luce, forte e calda del sole che si allargava a pienezza dentro al buio di palpebre serrate dal vigore di una preghiera.
Animale, contrapposto a spirituale, di quanto è di natura puramente corporea, sensoriale, irrazionale. “Istinto animale.” E l'istinto non è volontà.