Il sole sgomitava per entrare dalla fessura alta tra le tende. Abbagliava prepotente i gerani rosa appollaiati sul bordo del vaso di ceramica della nonna. Li prendeva a sberle, ma loro resistevano indomiti e coriacei nella loro delicatezza a quella sferzata di vita.
Eh già, a volte anche l’eccesso di vigore e abbondanza può essere deleterio: come il troppo amore. Quei gerani, però, avevano imparato a resistere a ben altro, irti e fieri.
A cosa? Ad esempio agli scossoni brutali provocati da un’orda vandalica di ragazzini imbizzarriti nei pomeriggi estivi: qui in Calabria, dopo le mattinate trascorse inzuppati nell’acqua, usavamo scorrazzare a piedi nudi sul pavimento rustico del salone, attorno al tavolo lungo di marmo, ancora in costume da bagno. La governante ci urlava addosso le peggio invettive, pregando madonne e buonanime per farci calmare, con contorno di esclamazioni colorite dalle tinte antiche, bizantine o tardo-latine. Nel frattempo ci rincorreva. Sempre attorno al tavolo, armata di ciabatta e grembiule da cucina. Ah!
Donna d’altri tempi, pragmatica e risoluta; che alle cinque di mattina in giugno era già sui campi a portare pane e frittata e vino ai mietitori. Coriacea come quei gerani. Nella nostra tenuta di campagna, negli anni Settanta, in estate si respirava sempre odore di cipolla soffritta e pomodorini freschi: il sugo scoppiettava nella pentola grande e si intonava benissimo alla carta da parati rosa antico a fiori verde chiaro.
Il camino in pietra contornato di marmo, insieme alle numerose corna di cervo appese alle pareti o poste in verticale come soprammobili, antichi guardiani del focolare domestico, conferivano alla sala da pranzo un aspetto solenne e rustico allo stesso tempo; degno delle migliori dimore dei lord scozzesi ospiti al castello di Balmoral. I dipinti di uccelli e cacciagione dalle tinte polverose che viravano dai toni del verde oliva a quelli del marroncino completavano l’opera. I signori della tenuta, impreziosita da un ampio porticato sotto cui abbandonavamo sempre le nostre biciclette e i nostri palloni di cuoio, erano i miei genitori.
Alti ed elegantissimi, entrambi dai capelli di un biondo rossiccio e occhi cerulei: erano così belli e così simili da sembrare fratelli. D’altronde, “Chi si somiglia, si piglia”, si dice. Il loro aspetto si addiceva perfettamente al loro alto lignaggio: marchesi proprietari terrieri che avevano realizzato nel bel mezzo dei loro agrumeti dorati una residenza di 30 stanze per poter ospitare anche i dipendenti all’occorrenza. Io, che nel 1970 avevo 12 anni, pur essendo già più alto dei miei coetanei, crescevo magro ed esile come un giunco; gli occhi chiari incorniciati dalle ciocche bionde di un liscio spettinato aggiungevano alla mia espressione trasognata e sempre sorridente un qualcosa di angelico. Almeno così mi dicevano in molti.
Che fastidio: avrei preferito sembrare un duro, uno di quelli che hanno sempre la risposta pronta, che non provano imbarazzo ad atteggiarsi da fighi a scuola con il loro chiodo in pelle e gli occhiali neri o a sferrare due pugni all’occorrenza al bullo di turno.
E invece ero timido. Molto. La timidezza amava avvilupparsi alle mie idee, ogni qualvolta mi trovavo a dover parlare in pubblico, soprattutto a scuola durante le interrogazioni – immaginate che gioia! – e mi arrotolava la lingua come il vecchio tappeto persiano che abbiamo in corridoio, impedendomi di snocciolare anche il più breve dei pensieri. Così, quando mi trovavo in presenza di persone nuove, specialmente se adulte, cercavo di esprimermi il meno possibile. Mi piaceva molto, però, ascoltare: tra i migliori aneddoti raccontati da mio padre c’erano quelli di viaggi in cui, mi aveva promesso, avrei cominciato a seguirlo a breve anche io.
A quel punto, lunghi viaggi di lavoro in giacca e cravatta o di svago, in costume e pantaloncini, cominciavano a fare capolino e bussare alla porta del mio inconscio, come un rinforzo positivo, proprio nei momenti più critici, in cui l’imbarazzo provocato dal dover favellare davanti a più di tre persone mi assaliva prepotente: allora, per farmi forza, pensavo che, se fossi riuscito a parlare un po’ di più del previsto, mi sarei guadagnato un bel posto in aereo o in treno accanto a papà per poter visitare infiniti posti fantastici; e, quelle volte in cui ci riuscivo, fantasticavo di essere un po’ come quel condottiero medievale rosso nel dipinto in sala da pranzo, fiero e solenne, pronto alla battaglia.
Lo aveva dipinto un pittore di Roma che aveva rappresentato mio padre in quelle vesti accese e furenti, impettito come il torrione di un castello federiciano; e, a pensarci bene, con il senno di poi mi sono reso conto anche del valore artistico di quel quadro, dalla chiara atmosfera cubista, in cui il cavaliere, re incoronato, e il suo destriero e la sua lancia erano diventati un tutt’uno: osservandolo da lontano, questo insieme poteva apparire proprio come un castello medievale, con tanto di mastio e merli.
I miei nobili natali (come si suol dire) però, non sono riusciti affatto a privarmi di scorribande con amici scalmanati durante l’infanzia e la prima adolescenza: il mare o la campagna erano una costante, per quanto concerne i luoghi dei nostri incontri, oltre alla grande casa sopra menzionata. Tra i miei compagni preferiti c’era Lucio, un ragazzone all’apparenza burbero, ma in realtà dal cuore tenero.
Con noi del gruppo era davvero sempre disponibile e pronto ad aiutarci e, soprattutto, a difenderci dai prepotenti di turno, visto che era più grande di me di qualche anno. Nel momento in cui si avvicinava al nostro territorio, oltrepassando il limen, il confine sacro, un coetaneo che gli stava poco simpatico o dall’aria superba o polemica, Lucio sapeva abbattersi sul malcapitato con le sue ali vendicative e funeste come una furia mitologica; una di quelle Erinni che nell’Orestea perseguitavano chiunque si fosse macchiato dell’onta di aver ucciso un consanguineo: premeditava e pianificava, aspettando il momento giusto, l’offensiva bellica (preannunciandola solo con sporadiche azioni di guerriglia e rappresaglia di poco conto). Al momento culminante, stabilito dal suo tempismo perfetto da cecchino americano, sferrava l’attacco. E il fungo atomico di Hiroshima diventava un misero sputo a confronto.
La sua vena polemica, comunque, sapeva a volte manifestarsi anche nei nostri confronti; per placarlo e smorzare i toni cercavamo di ironizzare o, nel peggiore dei casi, ce ne stavamo in silenzio aspettando che terminasse la sfuriata, che tanto in questo modo durava poco perché poi lui, vedendo che nessuno rispondeva o cominciava a tenergli testa nella discussione, ci mandava pragmaticamente a quel paese e se ne andava via. Dopo due o tre giorni tornava allegramente trotterellando al nostro capezzale, come il figliol prodigo dal padre. Solo una persona, tra noi, riusciva davvero a calmarlo all’istante, tanto da ottenere il privilegio di poter parlare con Lucio anche durante le sue assenze, che sapevano più di guerra fredda o quiete prima dell’armistizio, in attesa del ritorno. Era Sasà, un ragazzo così pacato e preciso, quasi meticoloso; non per sterile perfezionismo, piuttosto per il troppo amore.
La cura che riservava alle sue azioni, soprattutto quelle che riguardavano noi amici, era infinita e testimoniava la sua immensa generosità. Veniva ogni estate dalla Puglia per trascorrere un mese intero a casa della nonna calabrese; aveva due sorelle, con una delle quali trascorreva più tempo, quasi tutto dedicato alla nobile arte della cucina: la ragazza lo aveva iniziato a questa passione e lui, nonostante fosse ancora alle prime armi, mostrava un talento davvero innato e sorprendente; ancora ricordo il sapore di certi biscotti al limone che mangiai un giorno a casa sua. Aveva un’indole pragmatica ma allo stesso tempo artistica, perché amava trasformare in piccoli tesori tutto ciò che toccava, persino i sassi: quelli ovali di un grigio chiarissimo che componevano la spiaggia; ne aveva raccolti una marea per realizzare, dipingendoli e attaccandoli tra loro, decorazioni creative colorate e zoomorfe.
Aveva un “cor gentile”, per citare Guinizzelli, un po’ come quello dei poeti dello Stilnovo, che predicavano e manifestavano la nobiltà d’animo, praticavano l’amor cortese e raccontavano della fedeltà giurata ad un’unica donna, loro musa ispiratrice e angelo portatore di quella salvezza dello spirito a cui anelavano.
Lei riusciva a concederla al suo amato, elevandolo verso una dimensione ultraterrena, anche solo grazie ad uno sguardo e al cenno del capo: il saluto, appunto.
Non è un caso affatto se nell’etimologia di quest’ultimo termine vi sia infatti contenuto l’augurio della floridezza e del benessere. Non è un caso, per me, nemmeno che Salvatore portasse proprio questo nome: se per i Latini nel nome è il destino, “Nomen omen”, quale esempio più riuscito di questo? La gentilezza dell’anima, la generosità, la cura e l’attenzione nei piccoli gesti quotidiani, non sono forse manifesto puro d’amore e la prima forma di salvezza a cui possiamo ricorrere?
E Lucio, comunque, nemmeno scherzava: il nostro piccolo grande faro, seppur con i suoi modi rudi e un po’ strampalati, sapeva come proteggerci dalle intemperie e guidarci. La sua instancabile ironia, poi, a tratti sarcastica e noir e a tratti dozzinale, fungeva da perfetta ciliegina sulla torta. Con loro trascorrevo giorni davvero spensierati, fino a che, non dite che non ve lo sareste aspettato, non incontrai una ragazza. Aveva cominciato ad uscire con noi, accompagnata da una sua amica, dopo che le avevamo conosciute al mare, quando ci presero sghignazzando la palla che avevamo lanciato per sbaglio troppo lontano; l’avevano presa in ostaggio dicendoci che se avessimo voluto rivederla avremmo dovuto rispondere a tutte le loro domande. E quante domande.
Quel giorno capii cosa volesse dire papà ogni volta che si lamentava dell’infinita parlantina delle donne. Lei, poi, che aveva la passione per i libri e la letteratura, aveva questo dono potenziato per dieci. Ahimè. A dire il vero, però, non mi dispiaceva affatto ascoltarla parlare, e a volte anche cantare – aveva del talento- se questo significava poter condividere il mio tempo con lei.
Aveva vivaci e furbi occhi scuri, una folta chioma di capelli rossicci inanellati e sparsi, nella brezza del mare e un sorriso splendido, di quelli che non si dimenticano; a colpirmi, poi, fu la sua sicurezza, mista all’ironia scanzonata di chi sembra prendere ogni evento, anche quelli apparentemente più catastrofici per cui una ragazza di 12 anni normalmente impazzirebbe, come un ostacolo da superare, una sfida a cui scoppiare a ridere in faccia, un cavallo pazzo da imbrigliare; ciò mi fece capire che siamo noi a dover prendere in mano le redini delle circostanze, a saper dominare i nostri impulsi e le nostre emozioni e a dover dimostrare che tutto cambia a seconda del punto di vista da cui lo si osserva.
La diplomazia con cui poi placava le liti che d’improvviso esplodevano tra noi o all’interno del gruppo di amici, era impressionante e ciò mi generò un sano interesse per quello che faceva e per come lo faceva. Mi spaventò quasi realizzare che una ragazza della mia stessa età potesse insegnarmi così tante cose. Forse proprio per questo mi innamorai di lei.
Riprendendo il mio racconto da dove lo avevo cominciato, prima che questi voli pindarici di ricordi aggrovigliassero il bandolo della matassa, stavo notando che il sole sgomitava per entrare dalla fessura alta tra le tende. Era una mattina di luglio di tre anni fa; seduto al grande tavolo di marmo scuro osservavo quei gerani, immortali, e mi perdevo nella memoria, in quegli splendidi giorni di giovinezza. Dopo una mezz’ora trascorsa in questo modo, mentre sorseggiavo il mio caffè amaro, un suono mi destò dal torpore: un messaggio di un mio dipendente in difficoltà mi riportava alla mente che avevo ancora un sacco di lavoro da sbrigare per quel giorno; c’era da ottimizzare i tempi: l’indomani sarei partito per Londra.