E se cadendo io fossi finito nel nulla? Come faccio a rialzarmi? Qui sembra non esserci appiglio, spazio, movimento, direzione, calcolo, minuto, quantità, peso, c’è solo quello che riesco a sentire, ed è lontano.
Un cigolio mi dice che la ruota della mia bici sta continuando a girare, è capovolta, a terra, è forse che lei da sola, senza di me, tenta la strada più libera dell’aria. È quel suono che mi induce a voler riaprire gli occhi, per capire.
Sono caduto e vorrei abbandonare questa disfatta: vivo da rider ma non posso più correre soltanto per inciampare lungo la via degli altri, subirne gli inconvenienti, piegare costantemente le mie premure e i miei pensieri a quella successione di istruzioni d’uso definite per ottenere il massimo del risultato, non posso cedere alla volontà di un algoritmo, essere continuamente dipendente dalle pretese di un mondo esigente di chissacché, solo per essere considerato conforme e impeccabile, cinque stelle non possono garantire pienezza alla mia vita, non voglio essere performante, voglio tenere unito il mio vero bagaglio, il cuore.
Proteggerlo, difenderlo, non fare che si perda mai. Mantenerlo sano.
È sufficiente che io mi rimetta in piedi, e adesso. Sento una voce da poco lontano: «Ehi Federico! Sei perfetto! Sei un Laocoonte perfetto!».
Riconosco la sua voce buona, Goffredo vuole disegnare questa mia scena, e mi riscopro ancora statuario tra serpenti di carta rivestiti di bianco per fingersi marmo, nell’inciampo si sono infilati tra i raggi della bici, aggrovigliano il manubrio e qualcuno è rimasto inerpicato tra la spalla e il mio collo.
Martino, il Laocoonte di strada, anche lui è tutto verniciato di bianco, per colpa mia ha perso la sua di scena, quando ho investito le sue serpi ha lasciato a terra i suoi figli di gesso, ma ne ha sorriso e ha subito aggiustato il tiro assumendo la posa di un Nettuno senza tridente, tanto di sotto c’è l’acqua che scorre sotto Ponte Vecchio.
Lui sì che è bravo. Si crea di nuovo. Si lascia plasmare sempre, da dentro e mai da chi sta fuori.
Quindi ora il Laocoonte che difende e protegge i suoi figli dai serpenti marini sono diventato io, un rider. E cosa faccio? Resto a terra. A fissare imbambolato la possibilità di rialzarmi. È roba da rider questa? No. Un rider corre, conosce la strada, segue le indicazioni, arriva.
E invece io ho capito che il mio problema non è il fatto di esser caduto, quello può anche capitare, ma di esser rimasto in trappola, avvinghiato da questi strani serpenti, questo è il problema, il problema non è la strada ma restare in trappola, non andare avanti.
Ho addosso tre bestie, non riesco a capire quanto possano essere lunghe, vedo che hanno quasi testa di drago, piatta, larga e squamosa, potrebbero sfamarsi di me e della mia bici. Potrebbero. Ma per il momento mi basta allontanarle dal mio sguardo.
«Goffredo! Hai finito il tuo disegno? Voglio rialzarmi!».
«Oh Federico ma tu puoi rialzarti, anzi devi, un disegno si compie mentre ti rialzi, non posso finirlo se resti fermo!».
Ha ragione, tutto si compie mentre proviamo a essere.
Faccio per rialzarmi, per essere di nuovo quello che correva, veloce, verso il mondo o la fame di qualcun altro. Sono di nuovo in piedi. Ho lasciato la bici rovesciata a terra, per non avere a che fare con i serpenti, se li tenesse ancora aggrovigliati ai suoi raggi.
Io devo ritornare libero.
Comincio a pensare che mi servirebbe di andare avanti con un altro mezzo, un aiuto per non restare fermo, forse ho scordato le mie gambe. Invece sono caduto nella trappola della velocità, nell’intoppo della distrazione. E sì, perché andare veloci è rischiare non soltanto di cadere, ma di distrarsi, la velocità può essere fuorviante, è uno sfilare dove tutto scorre rapido, strada e paesaggio, momento e minuto.
Ci sono troppe cose nel menù del mondo, si vuole tanto e lo si vuole subito. Non credo di poter far parte di questo subito, io vorrei vivere dentro alle cose, non sfiorarle veloce e distratto.
È possibile? Posso chiederlo a Goffredo.
Cerco di guardare come disegna lui, qual è il suo tratto, se va veloce o lento. Lui è un osservatore, un ritrattista di strada, ha bisogno di un certo momento per arrivare ad un momento certo.
E infatti è dentro al suo disegno che io divento un altro. Incorniciato dentro al suo foglio non c’è più il rider, ma sono come un acrobata che sta sulle punte, tra esercizi di forza e destrezza, sulla corda sottile della propria sensibilità, che adesso è una bicicletta capovolta.
Credevo di essere rider e invece comprendo che, per tanto tempo, sono stato acrobata.
Per questo, forse, oggi, mi manca il respiro. E sono all’arrembaggio.
Ora ricordo. Stavo guardando dentro allo specchio, fissato sul manubrio.
Non c’era la strada dietro di me ma il riflesso di un mare agitato e la presunzione, mia, di navigarlo tutto da solo.
C’ho trovato quello che non mi sarei mai aspettato.
Onde increspate, come succede quando si navigano certi pensieri, come in un assalto di corsari.
Una banda di prepotenti mi ha circondato con piccole scialuppe, non sono quelle di salvataggio. Vogliono imbarcare tutte le mie acrobazie, rubare le mie evoluzioni, come ho imparato a far andare veloci le ruote della mia bicicletta, a mantenerla in equilibrio, esibendo sospensione e bilanciamento, vogliono passare sopra ogni mio pensiero, creare scompiglio, dissestare la custodia del mio bagaglio più importante, portarne via il valore che ogni giorno mi sono impegnato a dare.
Non è roba tua, la prendiamo noi. Ne facciamo di un altro pensare. Mi assale la paura.
Anche se è ancora tutto come una minaccia, voglio impedire che accada. È questo il pensiero che prende il sopravvento. Salvarsi. Allora mi tuffo, un salto ben mirato per squarciare l’immersione. Le acque sono trasparenti anche in profondità, e comincio ad esplorare, cosa avviene là sotto, in fondo all’altro specchio, dove l’immagine è liquida.
Cerco di scoprire cosa fai, cosa dici, come rispondi, quale parola scegli, quale bugia pronunci, quale immagine dai di te stesso, a quale profilo d’uomo, oggi, ti conformi. Spionaggio di un abisso che avviene in superficie.
Vado in apnea, costretto a tornare a galla, da solo, tra i pensieri corsari, e le loro minacce, con la delusione di ciò che non riconosco.
Nel ritratto però, Goffredo mi ha disegnato una spiaggia, lì c’è un approdo.
Sullo sfondo, intravedo un giardino pieno di ulivi, sono alberi che narrano di un sempre, circondati dalla quiete che appartiene al pomeriggio, quando è pausa, attesa prima del tramonto, e ci si ferma un po’, finalmente, solo per ascoltare. È martedì.
Tutto, dentro e attorno a me, scorre e io non riesco a fermarlo. Tutto, tranne l’incanto di una natura ferma e consapevole, quella di un albero di ulivo, è il più grande. È qui davanti che tutto si ferma. La fragilità è accolta, la stanchezza di ogni acrobazia è svelata, ne divento esattamente consapevole, mentre mi chiedo perché io non riuscivo a comprenderlo e quella natura d’albero davanti a me si, lo sapeva.
Chi mi conosce più di ciò che vivo, chi è che mi conosce mentre vivo? Cos’è che salva? Chi mi salva?
Ci si salva da soli, è quello che viene da pensare, ma non credi che per te sia possibile. Almeno fino a quando a governarti sarà la delusione, quella di un’immagine liquida che ti ha ingoiato.
Davanti alla lealtà di quell’ulivo, a quella forza quasi soprannaturale, scopro che invece esiste come una specie di nostalgia, riposta dentro di te, una parola seminata che ha voce e significato, quello del “ritorno, del desiderio acuto di tornare”.
È rimasta lì sempre, anche mentre pedalavo veloce, era ferma, nel petto, dove batte assieme all’anima, sembra muta, ma chiede il ritorno, dall’abisso al respiro dell’aria.
Per salvarti da solo, da ogni arrembaggio.
È quel desiderio di tornare che salva, solo quello.
È da quel martedì, in quel giardino con gli ulivi attorno, che ho cominciato a coltivare la mia nostalgia. Per rimanere a galla. Riemergere in superficie. Libero dalle acrobazie dei pensieri meschini che continuo ad incrociare per le strade, mentre rimbalzano dai riflessi inaspettati di uno specchio d’uomo, che no, non mi piace se trascura la bontà della sua di nostalgia.
Sono Federico, un rider che è caduto nel bel mezzo di una corsa sempre veloce.
Travolto da pensieri di un Laocoonte di strada, stretto nella morsa di serpenti o nell’agguato dei corsari, affondato e annegato da un’immagine liquida che si diverte a confondere le acque.
Salvato dal disegno di Goffredo, dalla maestosità di un ulivo e da uno schizzo di nostalgia.















