“Ed ecco d’improvviso, Cagliari: una città nuda che scorge ripida, ripida e dorata, ammucchiata spoglia dalla pianura verso il cielo, al vertice della vuota insenatura informe. È strana e un po’ incantata, non ha nulla di italiano. La città si ammucchia verso l’alto è nobile e quasi in miniatura, e mi fa pensare a Gerusalemme: senza alberi, senza riparo, sorge così un po’ nuda e fiera, remota come se fosse rimasta indietro nella storia, come la città di un messale monastico miniato”.

Poche righe bastano a David Herbert Lawrence (1885-1930) 1 per cogliere l’essenza di una città mediterranea, che rivedo dopo molti anni, durante un viaggio che parte proprio da qui verso la costiera Sulcitana, la più meridionale dell’isola, protetta dalla Foresta del Sulcis e dai Boschi di Gutturu Mannu.

Prima ancora di programmare la giornata interamente dedicata alla città mi imbatto fortuitamente in un piccolo banco di libri usati e il primo libro che mi viene in mano, consigliato dalla loquace venditrice, è il prezioso diario di viaggio Mare e Sardegna di Lawrence che mi accompagnerà in una permanenza pari a quella che lui e Frieda von Richthofen, sua futura moglie, ebbero nell’inverno del 1921.

Il paesaggio di Cagliari è avvolgente poiché dal mare che si sperde verso l’indefinito attraverso un lento dilungarsi delle ampie lagune di Molentargius e di Gilla, di stagni, saline e valli da pesca , svetta possente in erti pareti di roccia chiara, speroni su cui spuntano antichi palazzi, torri di avvistamento e bastioni. Per raggiungere il cuore antico della città è necessaria una fatica fisica, che induce a pensare lo schema difensivo studiato dagli antichi abitanti per le incursioni da popolazioni che dal Mediterraneo l’hanno vista a lungo un obiettivo di conquista.

Giungo vicina alla Torre di San Pancrazio sul Colle di San Michele, ove si erge l’omonimo Castello, immerso in un vasto giardino. Entro nella Cittadella dei Musei, bel complesso di recente realizzazione, sull’ex Regio arsenale piemontese, che si integra con l’antico contesto dell’urbe. Il polo espositivo si sviluppa in un concentrato promontorio roccioso che guarda la pianura circostante. L’intento è quello di osservare le antiche statuette risalenti al 4000-3000 a.C, riconducibili alla cultura nuragica di Ozieri, raffiguranti la dea madre. Il luogo spinge alla conoscenza di 7000 anni di storia dal neolitico all’epoca bizantina, la summa dei popoli e delle culture che si sono avvicendate in Sardegna, ai culti più antichi e fermamente legati alla natura, qui come in tutto il bacino del Mediterraneo. Le statuette in pietra ritrovate in diversi siti della Sardegna sono figure femminili con forme opulente, grandi fianchi e seni prominenti, emblema di fertilità con chiaro richiamo materno alla dea. Le divinità erano riferimento importante in tutte le culture preistoriche fino alla venuta delle civiltà posteriori politeistiche in cui compaiono le divinità maschili.

Sono le progenitrici delle dee diffuse in tutta l’area mediterranea dall’Egitto alla Mesopotamia, alla Siria, alla Sicilia, Iside, Astarte… Lawrence viene ancora in aiuto: “diversa dal nostro dorato Apollo dell’Oriente ionico doveva essere l’Eryx Astarte, la donna Astarot, Erycina ridens che col suo oscuro sorriso preistorico guardava i terrificanti tramonti oltre le Egadi. È una dea misteriosa, per me, questa Venere ericina, e estraneo e ignoto è l’occidente, e pauroso anche sia esso Africa o America”2.

Questo suo accenno rimanda ad un altro riferimento storico importante dell’isola, un antico tempio che so essere proprio affacciato sul mare aperto, lungo la costiera sulcitana, nella città più antica dell’isola, Nora, da nurra ovvero grande pietra, fondata dai popoli preistorici dell’isola, frutto probabilmente dell’integrazione tra autoctoni e invasori del mare, i mitici Shardana a cui nessuno poteva resistere, perché ribelli e senza padroni e della cui presenza si hanno testimonianze sin dall’età neolitica tra il 6000 e il 2000 a. C.

Sono alla ricerca del tempio di Thanit, la dea cartaginese omologa della Venere romana, che la tradizione ricorda come la madre di Norax, fondatore della città. Non poco rimane di questa città punica adagiata sotto il promontorio chiamato Capo Pula a cui è collegata con una lingua di terra la Punta del Coltellazzo, sormontata dall’omonima Torre. È una vera e propria città fondata dai popoli originari e poi dai fenici tra il IX e VIII secolo, poi cartaginese e infine romana quando divenne municipium nel I secolo. Strade lastricate, il Teatrum romano, abitazioni a splendidi mosaici perfettamente conservati, traccia di abitazioni eleganti ancora connotate da atri con possenti colonne in pietra, e poi le terme, il mercato, gli acquedotti ancora perfettamente visibili tra le vestigia di una città, che si affermò come la più fiorente della Sardegna.

Il paesaggio è il grande protagonista quando ci si aggira tra i resti di civiltà che scelsero questo sito, perché posto al centro di tre baie perfettamente protette dal mare aperto, quindi il più adatto per l’attracco delle navi e per il commercio di materiali e prodotti agricoli.

La vegetazione mediterranea diventa elemento connotante l’intera costa che parte da Nora fino a Capo Spartivento, la punta estrema dell’isola dove terminerà il mio viaggio. Pini marittimi, ginepri secolari, terebinti e filliree costituiscono un corridoio ecologico che connette le colline retrostanti fino alle alture delle foreste interne, alla frastagliata costiera rocciosa e sabbiosa in un sistema dunale di interesse naturalistico notevole. Scopro con entusiasmo che tutta questa area è stata in più stralci interessata da progetti di recupero e conservazione a partire dal 2007 poiché individuata come Sistema di Interesse Comunitario. Al contrario di molte zone della parte orientale più a nord di Cagliari, a partire dalla nota Costa Smeralda interessata da interventi edilizi che hanno modificato il carattere originario in maniera irreversibile, la parte sulcitana, escludendo l’imponente raffineria di Sarroch proprio a Sud di Cagliari, mantiene tutti gli elementi fondanti del paesaggio.

Mi soffermo in alcuni litorali sabbiosi per seguire l’intervento di mantenimento e ricostituzione naturalistica e paesaggistica del sistema dunale3 . Si è affascinati da uno dei più scenografici e spettacolari ambiti naturalistici mediterranei, dove acqua cristallina fatta risaltare da fondali di sabbia bianchissima o dorata, cattura lo sguardo per chilometri suggellata da isolotti rocciosi e promontori a picco sul mare, contraddistinti da torri antiche di avvistamento immerse nella più impervia foresta mediterranea.

Chia e la sua Torre, le rovine dell’antica Bithia, citta fenicia dell’VIII secolo, l’isolotto di Cardolinu unito con una lingua sabbiosa, e più a sud Setti Ballas, con lʼincredibile stagno di Su Giudeu frequentato da fenicotteri rosa, tutt’uno con un immenso litorale profondissimo che fa immaginare distese desertiche africane, e poi la dorata Cala Cipolla raggiungibile tra sterrati e percorsi a piedi tra dune e rarissimi esemplari di Juniperus phoenicea 4. Mi perdo in questo paesaggio che alterna sparuti campi coltivati a grano, aree umide a fitti boschetti di canna palustre da cui spuntano eleganti fenicotteri, frutteti di fichi e peschi generosi, per giungere alle zone retrodunali dove le sabbie ormai solidificate creano delle piccole collinette che mi appaiono come un giardino a bordure miste basse, dai colori grigi delle artemisie, alternati a colori bruciati dei cisti sfioriti e ancora al verde lucente del mirto che forma compatti cuscini fioriti di bianco di un profumo dolce e pungente. Non mancano le distese di elicrisi con quel profumo tipicamente isolano del curry che appena li sfiori lasciano il profumo degli oli essenziali così volatili soprattutto nelle giornate grigie e plumbee.

C’è un vento di maestrale leggero e accenna a piovere, quindi la spiaggia è pressoché deserta, un’ottima occasione per soffermarsi a scoprire come questi arenili siano stati restituiti ad un sistema di uso più attento e rispettoso. Il progetto europeo ha dato nuove regole nelle concessioni balneari molto rare e con piccoli stabilimenti ben realizzati in materiali naturali, solo legno, rattan, bambù, paglia, fronde di palme e canne per gli ombrelloni, a colori tenui: bianco, sabbia, legno chiaro, grigio. La plastica è finalmente bandita da questi lidi, come la musica nei piccoli chioschi perché disturberebbe la fauna, come imposta la raccolta differenziata in contenitori ben mimetizzati. Le dune sono intercluse al passaggio con limiti realizzati in leggeri pali di legno collegati da corde naturali. Un signore ignaro va a fotografarle superando il limite ma una villeggiante lo riprende in modo autoritario come avesse violato un divieto ormai assodato!

Il lavoro di ricerca effettuato da geologi e botanici per analizzare l’effetto della presenza dell’uomo sull’evoluzione del contesto ambientale dunale e di quella naturale, indipendente dalla pressione antropica, ha lasciato segni visibili attraverso la realizzazione di sistemi di ingegneria naturalistica a protezione dei versanti più fragili. Alcuni di questi con stuoie di iuta e corda, altri con piccole canne di bambù a formare triangolazioni di superfici vegetate e non solo, per individuare il movimento della duna e il procedere della vegetazione come le graminacee ed il fragile immacolato giglio di mare, Pancratium maritimum, che forma interi cespugli a fiori bianchi su sfondi di foglie grigie.

Questi manufatti così leggeri e delicati mi appaiono come opere en plein air, opere di land art che sottostanno alla mutevolezza del paesaggio stesso che vanno a sostenere, come un aiuto delicato che non disturba l’osservatore perché interviene seguendo linee e peculiarità del contesto stesso, nelle forme e nei colori come nei materiali.

Il mio viaggio termina nella punta più ventosa e solitaria, dove un antico faro è ormai un relais esclusivo per clienti facoltosi. Lo raggiungo a piedi perché è una ripida via sterrata dove regna ancora il silenzio e solo pochi mezzi possono accedervi se non con permessi adeguati. Da lì, Capo Spartivento, posso immaginare gli approdi dei tanti invasori del mare dai fenici ai cartaginesi , i romani che fecero carneficine del popolo sardo durante la seconda guerra punica contro Amsicora nel 215 a.C., quel capoclan che Tito Livio definì “largamente primo per autorità e ricchezze”. Per proseguire la storia dovrei inoltrarmi e doppiare la punta fino alla costa occidentale, arrivare ad Iglesias assediata nel 1323 dagli Aragonesi, che conquisteranno poi tutta la Sardegna con l’acquisizione del Regno di Arborea.

Mi fermo qui proprio dove mi aveva condotto Lawrence quando arrivò dalla Sicilia e avvistò l’isola: “la terraferma si avvicina: già si distingue la forma della punta del promontorio e della penisola, e un punto bianco che pare una chiesa. Nel suo complesso, ora che si avvicina , l’isola appare un po’ abbandonata e informe, ma attraente”.

Note
(1) Scrittore, poeta e saggista inglese, peregrinò a lungo in Europa e soprattutto nel bacino del Mediterraneo attratto dalla luce e dal paesaggio che diventò elemento essenziale e centrale dei suoi scritti. Dopo quel viaggio cominciò a spostarsi in Oriente sempre con la moglie, che sarà con lui in Sardegna per dieci giorni in un avventuroso percorso di esplorazione dei luoghi, del costume e dell’anima di un popolo che apprezzava con euforia, ma percepito in bilico tra arcaicità e modernità. È alla ricerca dell’autentico che intravede minacciato dall’appiattimento culturale incombente sempre temuto e avversato.
(2) Lawrence D.H., Mare e Sardegna, Ed. Unione Sarda, 2003, pag. 62.
(3) Progetto LIFE + Nature & Biodiversity Conservazione e ripristino di Habitat dunali (2009-2013).
(4) Questa specie vive nelle zone costiere della macchia mediterranea, nelle spiagge, nelle colline aride e nelle rupi calcaree tra 0 e 800 m slm; questi esemplari che trovo sono monumenti viventi alti due o tre metri.