Nel mio primo articolo dallo stesso titolo1 avevo “minacciato” di riprendere l’argomento per completarlo. Ecco che allora torno sul “luogo del delitto”, la regione compresa fra Venezia e Trieste, che conosco bene per avervi passato le ferie estive per più di trent’anni, per descriverne altre bellezze naturali, altri tesori artistici e scrittori.

Riprendo da dove mi ero fermato: da Hemingway; ma non da quello maturo, a caccia di anatre nelle paludi di Caorle e Lignano che avevo tratteggiato nella prima parte, bensì dallo Hemingway giovane volontario della Prima Guerra Mondiale sul Piave.

Com’è risaputo, lo scrittore americano nell’aprile del 1918 partì per arruolarsi nella Croce Rossa sul fronte italiano, e nel luglio fu gravemente ferito sul Piave, presso Fossalta. Frutto di questa esperienza fu il suo famoso romanzo Addio alle armi, del 1929, in cui descrisse con grande efficacia la ritirata di Caporetto.

Confesso di non aver letto il romanzo. Lo considero fra quelli che se non si leggono a vent’anni poi non si leggono più, e preferisco lo Hemingway maturo (quello del postumo Isole nella corrente, per esempio), ma lo uso come pretesto per parlare del Piave e della sua regione.

Il Piave è un fiume centrale nella storia ma anche nella letteratura del nostro Paese: ne parlano, fra gli altri, Comisso, Noventa, Buzzati, Zanzotto e Parise. Il fiume, affascinante, ma imprevedibile e pericoloso nelle sue più estreme manifestazioni, nasce a Sappada e dopo le corse montane tra le ghiaie, si incanala in un letto fangoso e disegna un corso sinuoso fatto di anse e insenature prima dell'abbraccio con il mare Adriatico, presso Jesolo. Se nella sua prima metà è di un verde trasparente e scorre fra boschi di acacie e pioppi, nella sua parte finale si fa più limaccioso e attraversa una fertile campagna e distretti industriali che negli ultimi decenni hanno reso il Veneto una delle regioni più dinamiche d'Italia.

Dopo la rotta di Caporetto del 24 ottobre 1917, gli italiani si ritirarono precipitosamente e il Piave divenne linea del fronte. Ai primi di novembre del 1917, le genti rivierasche furono evacuate e cominciò la trasformazione del territorio. A Fossalta, tutte le case divennero ricoveri e posti di soccorso, mentre trincee sinuose attraversarono gli orti, tessendo una ragnatela fin sotto l'argine che diverrà un baluardo fortificato. La prima linea correva lungo la riva del fiume e tra essa e l'argine erano stese siepi di filo spinato. Dietro gli argini stava il grosso delle truppe, protette dall'osservazione e dal tiro.

In questo luogo Hemingway giunse in bicicletta, e la lasciò nell'edificio più vicino all'argine. Dopodiché avanzò lungo la trincea fino a un posto di comando, e poi ancora giù ai margini del fiume fino alle postazioni avanzate di ascolto e osservazione. Non avrebbe dovuto avvicinarsi così tanto al fronte: è possibile che sia stato proprio lui a scatenare il fuoco di sbarramento dei nemici, poiché le vedette austriache dall'altra parte del fiume sentirono voci e movimenti sospetti, e aprirono il fuoco.

Il futuro scrittore fu ferito a entrambe le gambe dalle schegge di mortaio che gli esplosero accanto, eppure nonostante lo shock e il dolore riuscì a portare in salvo un soldato italiano colpito al petto. Zoppicando per via delle ferite Hemingway si caricò in spalla il soldato e si diresse verso l'ambulanza, che era a una certa distanza. Non aveva percorso neanche cinquanta metri che di nuovo fu colpito da una raffica di mitragliatrice, che gli dilaniò il ginocchio destro. Si trascinò, con il soldato sulle spalle, per altri cento metri prima di perdere conoscenza.

Nel 1979 sul posto fu eretta una stele in memoria di quell'evento: «Su questo argine - recita l'epigrafe - Ernest Hemingway volontario della Croce Rossa americana veniva ferito la notte dell'8 luglio 1918». Dall'altra parte del monumento sono invece riportate le parole dello scrittore: «Io sono un ragazzo del Basso Piave».

Quello che il monumento commemorativo però non riporta è il violento impatto emotivo che quell'esplosione ebbe sullo scrittore, un trauma che gli sarebbe rimasto per sempre. Di questo parlò anche in una lettera del novembre 1948 a Fernanda Pivano:

Non ho mai avuto alcuna paura della morte e non ho mai creduto che potesse succedere a me, fino a quando sono saltato in aria in un modo così veramente grave quella volta a Fossalta ... Credo che la forza dell'esplosione ...sia stata molto grave per i miei nervi e per la mia testa che hanno impiegato molto tempo per ristabilirsi. Per molto tempo non ho potuto dormire senza la luce accesa di notte.

In particolare, Hemingway rievoca la vivida immagine della «casa gialla» che aveva visto alla sua sinistra quando le esplosioni gli avevano fatto tremare la terra sotto i piedi. In realtà non era gialla, e non lo è nemmeno oggi (dato che è ancora lì), ha le imposte azzurre e i muri color coccio. Il giallo era il riflesso dei razzi di segnalazione che gli austriaci sparavano per illuminare gli obiettivi. Fino alla fine dei suoi giorni ad Hemingway nei suoi incubi notturni ritornò l'immagine della casa “gialla”, tra l'argine e il fiume, che fu testimone degli eventi.

Grado e il suo poeta

Per la seconda parte di questo pezzo mi sposto più a est, e verso argomenti meno “bellicosi”: Grado e il suo cantore, il poeta Biagio Marin.

La laguna di Grado, posta all'estrema latitudine settentrionale dell'Adriatico, ha un solo aggettivo per poterla descrivere: incantevole. Essa costituisce l'ecoambiente umido più a nord del Mediterraneo, ospitando varie specie animali e vegetali per la gioia dei naturalisti e di chi esercita il birdwatching. Non è dissimile da quelle di Caorle e Lignano che ho descritto nell’articolo precedente, e ne ha le stesse suggestioni: i mutevoli panorami delle sue isole, grandi e piccole, i giochi delle maree, le striature sulle acque alle diverse ore del giorno.

Quanto all’isola-città di Grado, situata a ridosso della laguna omonima e collegata al Friuli da una lingua di terra di undici chilometri, nella parte antica è un dedalo di calli e campielli al cui centro si trova la piazza dei Patriarchi, con la basilica di Santa Eufemia e il Battistero. All’interno di questo uno splendido mosaico pavimentale che ripete le ondulazioni del fondo marino, i disegni curvilinei che le onde imprimono alla spiaggia sabbiosa e allo specchio del mare. Curioso è anche il pulpito policromo di forme gotico-moresche del secolo XIV che forse riproduce il santo sepolcro di Gerusalemme. Per il resto, specie in prossimità delle famose spiagge, brutti hotel e costruzioni degli anni Sessanta, e qualche edificio in stile liberty, di quando Grado era una delle località balneari più note dell'Impero austro-ungarico (era chiamata "la spiaggia di Vienna").

Ma soprattutto, Grado è un paesaggio letterario grazie alla lirica di Biagio Marin, che ne ha fatto un mito poetico.

Biagio Marin vi nacque il 29 giugno 1891 quando Grado era ancora una piccola e povera comunità di pescatori di laguna e di mare dediti anche al piccolo scambio di merci con l’opposta costa adriatica, ma cominciava ad uscire dal suo isolamento secolare per aprirsi all'attività turistica.

Inizialmente la sua formazione scolastica fu quella di un cittadino asburgico, ma nel 1911 è a Firenze per l’educazione superiore accanto agli altri giuliani che fanno capo a La Voce ed a Scipio Slataper: Carlo e Giani Stuparich, Virgilio Giotti. Nel 1912 frequenta con le inquietudini dell’irredentista la Facoltà di Filosofia dell'Università di Vienna.

Come giustamente nota Claudio Magris nel suo Microcosmi (1997):

Grado stessa è un confine, una striscia che segna diverse frontiere. Fra terra e mare, tra mare aperto e laguna chiusa, ma soprattutto fra civiltà continentale e civiltà marinara. Quella striscia di terra di undici chilometri che la separa dalla terraferma segna il passaggio da un’ariosa venezianità marina a una Mitteleuropa continentale e problematica, grandioso e malinconico laboratorio del disagio della civiltà.

E infatti la poesia di Biagio Marin, nel suo dialetto antico veneto parlato per tanti secoli unicamente da una piccola comunità di pescatori, si porta dentro gli orizzonti ampi, l'esperienza del mare, la luce, la vita di Grado. Allo stesso tempo però riflette profondamente il tragico dissidio immanente alla vita e al suo trascorrere, al suo nascere e perire: sul piano filosofico, religioso e storico (particolarmente nel dramma dell'Italia orientale e adriatica, del quale il poeta è stato testimone e partecipe).

I Fiuri de tapo (così si chiama la sua prima raccolta), di un azzurro lavanda e dal gambo slanciato e gentile che spunta dal fango salmastro della laguna, sono un po’ il simbolo della sua poesia:

Fiuri de tapo senpre i stissi,
passa
i seculi e i ani,
vinti lisieri senpre vani, ma voltri sora l'aque sê nuvissi.
Vardé sognando, nuvole erabonde andâ e vigni co' le maree, e fiuri su le cree sogni che ariva d'oltre sponde.

[Fiori di palude sempre uguali, / passano secoli ed anni, / i venti leggeri e vani, / ma voi sulle acque siete giovinetti. // Guardate sognando, nuvole errabonde / andare e venire con le maree, / e fiorire sulle argille / sogni che arrivano da altre sponde.]

È diventato quasi un luogo comune della critica letteraria dire che Grado, il mare, la laguna, i cieli, le sue luci e notti sono in Marin metafora e simbolo, mezzo per esprimere un paesaggio d'anima, interiore, in un processo di riduzione, essenzialità ed astrazione. Che la sua operazione è di dilatare il microcosmo gradese a macrocosmo, a paesaggio assoluto e completamente poetizzato.

Tutto verissimo, ma io, che conosco bene i luoghi, continuo a voler riconoscere nella perfetta musicalità dei versi di Marin la laguna così com’è, nei colori nominati - l'azzurro, il bianco, il violetto - nella quiete, rallentamento e disteso abbandono delle atmosfere evocate:

Tera de polpa rossa co' l sielo de cobalto: nuoli d'oro più in alto ne la sera comossa.
Case su mar deserti che varda i bastiminti passâ soleni e linti co' nigri vogi verti.

[Terra di polpa rossa / con il cielo di cobalto: / nuvoli d'oro più in alto / nella sera commossa. // Case su mari deserti / che guardano i bastimenti / passare solenni e lenti / con neri occhi aperti].

Oppure:

E 'ndévemo cussí le vele al vento lassando drío de noltri una gran ssia, co l'ánema in t'i vogi e 'l cuor contento sensa pinsieri de manincunia.

[E andavamo cosí, le vele al vento / lasciando dietro di noi una gran scia, / con l'anima negli occhi e il cuor contento senza pensieri di malinconia]

Per concludere

Già una volta ho avuto l’ardire di concludere un mio pezzo con dei “versi” di mia fattura2. Ricado nell’errore di presunzione (e di faccia tosta, considerando che mi confronto con Biagio Marin), confidando nella benevolenza dei lettori:

Grado

Isole
fluttuanti zolle
evanescenti Citere

Zampetta un cormorano
l’acqua si increspa appena

L’azzurro del mare si confonde
con quello del cielo

Con quello che immagino fosse
negli occhi del poeta.

Note

1 Su Meer edizione italiana del Maggio 2025 Tra Veneto Orientale e Basso Friuli.
2 Vedi l’articolo su Meer edizione italiana del 24 ottobre 2024: La Costa Azzurra di Jean Cocteau.