Dare voce agli invisibili è, per alcuni scrittori, una scelta narrativa. Per altri, una necessità. È il caso dell’autrice intervistata, che attraverso la scrittura racconta storie di fragilità, riscatto e umanità spesso trascurata. Il suo punto di partenza è lo sguardo: osservare, accorgersi, nominare. È così che nasce il personaggio di Francesco, un uomo senza fissa dimora conosciuto durante un servizio di volontariato. Un incontro reale, segnato dal fallimento e dalla speranza, che ha lasciato un segno profondo, trasformandosi in spunto narrativo.
Nel romanzo, la costruzione dei personaggi si fonda su un'attenta osservazione del reale: gesti minimi, silenzi, storie vissute. Ogni protagonista è il risultato di una ricerca accurata, sia umana che documentale. L’autrice collabora con esperti e associazioni per restituire autenticità e rispetto ai temi trattati, dall’albinismo alla tossicodipendenza.
Ambientato in un paese immaginario della costa abruzzese, il romanzo affonda le radici nei luoghi della memoria e nella natura mutevole, specchio emotivo della narrazione. Ma il vero centro resta sempre l’umano: chi resta ai margini, chi chiede attenzione, chi esiste solo quando qualcuno sceglie di raccontarlo.
Attraverso le parole del suo ultimo romanzo Scialacca, l’autrice ci invita a fare proprio questo: alzare lo sguardo.
Hai recentemente affermato di scrivere per “accorgerti” dei personaggi. Posso chiederti, quindi, come ti sei accorta di Francesco?
Francesco viveva in strada, quando prestavo servizio ai senza fissa dimora di Pescara. Era tossicodipendente, voleva entrare in comunità. Non potevo non accorgermi di lui, perché il lunedì sera mi aspettava. E chi ti aspetta, direbbe Antoine de Saint-Exupéry, ti addomestica. Crea legami. Non puoi più passargli accanto senza fermarti.
Spesso basta uno sguardo, intercettarlo è già una vittoria. Poi viene il resto: conoscere il vissuto, le scelte dell’altro. Provare a non giudicarle.
Quel Francesco non ce l’ha fatta, ma ha lasciato una traccia. Accorgermi che volevo raccontare di lui, per dargli una seconda possibilità, è stato il passo successivo. Con la narrazione possiamo osare, tracciare un cammino di speranza pur sapendo quanto sia difficile una redenzione completa. Ma tutto, per me, parte da lì: dallo sguardo. Per scrivere. E per vivere.
Nel tuo romanzo sorprende la vividezza nel descrivere i dettagli minimi. Come hai lavorato nel tratteggiare i caratteri distintivi dei protagonisti?
Osservo molto. E ascolto.
Mi soffermo sulle crepe, sui silenzi, sulle parole taciute più che su quelle riferite. Ho studiato a fondo gli aspetti tecnici – con l’aiuto di esperti del settore pirotecnico, ad esempio – e mi sono confrontata con Albinit, l’associazione che promuove l’inclusione delle persone con albinismo.
Credo nella necessità di essere autentici e rispettosi nella rappresentazione umana. È la mia piccola lotta contro gli stereotipi: passa attraverso i dettagli, le sfumature, le posture. Sono quei gesti minimi a renderci unici.
Aria nasce dall’incontro con molte persone albine, dai loro racconti e dal modo in cui affrontano i limiti con consapevolezza. Francesco, invece, da quell’idea di riscatto che si vive in strada. Gillo è la forza che sfida la morte, che domina una paura ormai diventata procedurale nella preparazione dei fuochi d’artificio. Ma è anche l’incapacità di permettersi di essere fragile, e dunque bisognoso di cure e attenzione come gli altri, se non di più.
Come ti sei mossa, invece, dal punto di vista delle ricerche relative ai luoghi di ambientazione?
I luoghi sono quelli della mia terra. Il romanzo è ambientato in un paese immaginario della costa vastese, nel sud dell’Abruzzo. Lì il paesaggio dunale cambia di continuo, e quella mutevolezza serviva alla mia storia.
È una zona selvaggia, ancora in parte incontaminata, e incarna l’idea di un ritorno alla natura sregolata, alla libertà dei sentimenti. Nei luoghi isolati, lontani dai centri abitati, si provano i fuochi d’artificio: sono lo spazio concesso alla meraviglia, all’imprevisto.
Cosa speri il lettore carpisca a proposito della tua narrazione degli “invisibili”?
Vorrei che alzasse lo sguardo. Gli invisibili ci sono, anche quando non li guardiamo. Non sono numeri, ma presenze. E non mi riferisco solo a chi vive in strada, perché si può essere invisibili anche tra le mura domestiche. Ognuno ha una storia, a volte basta nominarla perché esista.
Ad Adamo ed Eva, in fin dei conti, fu chiesto di dare un nome alle cose. Perché nominarle, dicono i teologi, è riconoscerne l’esistenza. Dare un nome agli invisibili è già un primo passo.
Posso chiederti se stai già lavorando a progetti futuri?
Sì, da più di un anno ho in mente una nuova storia.
Quando un pensiero resiste nel tempo, torna, si fa spazio, allora capisco che è una missione. Se non c’è questa convinzione profonda che di certo è mossa anche da una coscienza etica, non c’è perseveranza. E la scrittura ne ha bisogno.
Sono nella fase preparatoria: raccolgo materiali, appunti, studio. So dove voglio arrivare. Soprattutto, è un tema che mi brucia dentro. Ed è sempre da quel fuoco che comincio.














