Era l’estate del 2004 quando, per mio diletto, intervistai la poetessa Alda Merini nella sua casa di Milano. Fu un incontro indimenticabile. Decisi di incontrarla perché il primo premio di poesia che lei vinse fu il “Premio Cittadella“, mia cittadina natale, con una giuria di intellettuali e poeti del calibro di Andrea Zanzotto, Mario Luzi, Giorgio Caproni, Giovanni Raboni e il cittadellese Bino Rebellato, promotore della rassegna. Così una mattina di sole mi misi alla guida della mia Twingo argento, soprannominata globulino, e previo accordo per il tramite del suo amico illustratore ed editore Alberto Casiraghi, la raggiunsi sul Naviglio Grande.
Ne uscì questo lavoro che trascrivo integralmente.
L’anagramma del suo nome e cognome, con il solo scarto della consonante “n” è: ama deliri.
Alda Merini, la più celebre poetessa italiana contemporanea, ha conosciuto profondamente queste due entità e abissi: l’amore e la follia. L’esaltazione dei sensi e il turbamento della psiche. Ad essi si è arresa semplicemente vivendoli, perché – come recita un suo aforisma – “Nessuno rinuncia al proprio destino anche se è fatto di sole pietre”.
La sua è poesia di visioni infiammate, poesia che scuote. Alda Merini aveva 23 anni quando fu internata in manicomio Paolo Pini di Milano. Dieci anni trascorsi in un luogo così, di confusione e demenza, non lasciano indenni. Eppure lei ne è uscita miracolosamente risolta, lavata, lucida. Di tanta insania si porta dietro, forse, come la chiocciola che è tutt’uno con la conchiglia che ne accoglie il corpo, il limpido disordine dell’appartamento in cui vive: uno anfratto di arredi e oggetti ammucchiati. La sua sul Naviglio Grande a Milano è una residenza stretta di assonanze e di rime: sul trumeau c’è il ritaglio (di giornale) e il ritratto (di lei nuda). Sopra il tavolo ci sono la sigaretta e l’Aspirinetta, condividono gli stessi centimetri il televisore il ventilatore; e le pareti grafite di numeri e nomi sono pagine murali di una rubrica telefonica sempre aperta.
Quegli spazi appena sufficienti a un passaggio sono però attraversati dalla Poesia: avverti la corrente d’aria dell’ispirazione nel breve corridoio che collega l’ingresso a due minuscole stanze. Lei è lì, regina nel suo regno bizzarro, in un alone di fumo acre di Diana a cui toglie il filtro con un gesto secco di unghie, fino a farne una semina di intonsi cilindretti gialli. Si sono occupati di lei David Maria Turoldo, Salvatore Quasimodo, Pier Paolo Pasolini, Maria Corti, Giovanni Raboni. Di lei gli amici stretti dicono che sia “terra sismica”, “una grande montagna sull’orlo di un precipizio” “Mozart e Salieri insieme”.
Posso confermare che è così: incontrarla è stata un’esperienza unica.
Mi accoglie giustificando lo scompiglio:
«Ho una gamba malata e poche forze per sistemare. Si accomodi».
Le sollevo dei piedi un foulard caduto.
«Di cosa parliamo?» - mi chiede.
«Vengo da Cittadella - le dico - so che nel 1985 ha vinto il premio di poesia con la raccolta e “La terra Santa”.
Fra i tanti premi ricevuti da Alda Merini c’è il Librex Guggenheim Montale nel 1993, il Premio Viareggio nel 1996, il Premio Procida Elsa Morante nel 1997, il premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 1999. Inoltre, Alda Merini, nel 2001 è stata candidata dal Pen Club Italiano al Premio Nobel per la Poesia. «I premi di poesia - afferma - sono il dulcis in fundo per i poeti, ma oggi stanno diventando un dolce un po’ amaro, perché si sono uniti gli spot pubblicitari e gli spettatori vogliono vedere de visu il poeta, per analizzarlo fisicamente. Ma in fondo la poesia non ha niente a che vedere col volto del poeta, che può essere uno storpio e avere un’anima grande. A volte il poeta si vergogna anche un po’: può essere inferiore o superiore.
Quando ero giovane ero una bellissima donna e scrivevo delle bellissime poesie. Due bellezze discordanti, perché collocate su due piani diversi: la donna gaudente e la donna pensante. Non tutti i critici riescono a capire questo connubio. Nella società di oggi è quasi impossibile essere belli e intelligenti: qualche difetto lo si deve avere. Così scatta l’invidia, che è il peggior vizio capitale che possa albergare nel cuore di una persona. Invidia equivale a odio: è un sentimento che appartiene al maligno, all’ignoranza. La poesia è invece un mostro sacro. Considero l’Eros la base dell’arte. Mi innamoro ancora anche se è credenza comune che i vecchi non possano amare».
Quindi per lei l’amore è una grande fonte di ispirazione?
«Più che altro l’innamoramento, la favola, il sogno. Ma non dell’uomo in senso fisico, piuttosto l’amore cosmico, la meraviglia della natura, lo stupore riguardo al bello, l’entusiasmo per le cose semplici. La carne conta poco».
Altra fonte d’ispirazione è il dolore?
No. Non scrivo quando sono addolorata. Il poeta è un cuore contento. C’è il culto del dolore come senso alla creatività, come effetto catartico, ma non è così.
Per lei non è stato così?
In manicomio non ho mai scritto per lungo tempo. Il manicomio è stato più che altro luogo di attesa.
E il diario di quell’esperienza?
Il libro è venuto dopo, più tardi.
Come sono passati gli anni del manicomio?
Bene. Forse più svelti di quelli trascorsi fuori.
La libertà è più importante dell’amore?
Molto di più. La solitudine e la libertà sono il principio dell’estasi.
Soli e liberi, anche di oziare?
Per i poeti l’ozio equivale all’attesa che cada la manna dell’ispirazione; è mettersi in giacenza e aspettare la grazia. Non è facile per gli altri comprendere questa lungodegenza della poesia: un’incubazione che può durare anche vent’anni. La poesia è come i nove mesi per il compiersi di un figlio: alla fine esce un capolavoro, la vita. Bisogna avere pazienza e aspettare che la grazia si manifesti: in questo senso la poesia è misticismo.
Però il poeta è incardinato in una quotidianità frenetica. Come fa ad estraniarsi?
Purtroppo il poeta ha dovuto allinearsi. Per questo è morto, stanco.
C’è qualcosa che lei considera superiore alla poesia?
Oh sì, - sentenzia indicando con lo sguardo il pianoforte. La musica.















