Questa è una bellissima città, e degna che un si muova mille miglia per vederla
(Torquato Tasso)
La bellissima Mantova è stata oggetto di molti studi che la riconnettono, pur indirettamente, con l’immaginario graalico e questo per il suo conservare delle preziose reliquie del sangue di Cristo che la tradizione vuole che il soldato romano Longino abbia portato nella città di Virgilio. Siccome nella maggior parte dei romanzi arturiani dove compare per la prima volta il Graal quale oggetto dotato di carismi mistici-soprannaturali tale tesoro si manifesta ritualmente sempre in associazione con la santa Lancia di Longino, quella che trafisse il cuore di Cristo sulla croce secondo il Vangelo di Giovanni, ecco che la cavalleresca città appare facilmente essere stata assimilata nell’immaginario all’epos suggestivo della più misteriosa reliquia cristiana, che era un vassoio, ricordiamolo, e non un calice (altra e distinta reliquia cristica, come quello di Antiochia o di Valencia).
In particolare uno studio appare interessante e stimolante: Il sangue e la coppa. Itinerari graaliani nella Mantova matildica e gonzaghesca del 1993, a cura degli studiosi Giannino Giovannoni e Giovanni Pasetti. Uno dei pochi libri che si pone le domande giuste; ad esempio: perché il duca di Mantova Gianfrancesco Gonzaga commissionasse a Pisanello per Palazzo Ducale degli affreschi dedicati al cavaliere arturiano Boor, uno dei “cavalieri del Graal” secondo alcuni romanzi medioevali anonimi come La cerca del Santo Graal. Il saggio si interroga poi su alcune “imprese” araldiche gonzaghese come l’alano bianco, (che sembra richiamare Alain, uno dei custodi del Graal secondo la Queste e Giuseppe d’Arimatea), il cesto-museruola (kratis-gradale), il monte Olimpo (il monte templare-graalico del Parziwal) e altri.
Ulteriore elemento interessante sottolineato dai due studiosi è la citazione di “Maante”, che sarebbe: Mantova quale città intrecciata alle vicende del Graal del romanzo medioevale anonimo: la “Storia del santo Graal” e anche il fatto che nonostante l’importante reliquia dei “Sacri Vasi” non sono attestati fenomeni particolari di pellegrinaggio antico, come se la città avesse voluto tenere tutto riservato e per se stessa. Aggiungo: anche il nome del quartiere dove furono ritrovate le reliquie portate da Longino: “Cappadocia” potrebbe essere un fedele rinvio al tema della traslazione della santa Lancia da Gerusalemme all’Italia, passando attraverso l’Armenia, dove un monastero (Geghard) è dedicato a questa reliquia. La “Cappadocia” è il nome romano della provincia orientale dell’Impero che includeva l’attuale Armenia.
A partire da questi saggi contenuti nel volume citato ho provato ad approfondire gli intrecci dinastici e il contesto simbolico mantovano e in effetti l’immaginario appare ricco e intensamente graalico. In primo luogo la morfologia di Mantova, “promontorio” chiuso da tre lati da un Mincio divenuto qui lago, ricorda quella di Costantinopoli, città di probabile origine custodiale del Graal, dopo Gerusalemme. Oltre a ciò l’emblema dell’orso per Canossa quale luogo-castello, il culto di San Lorenzo nell’omonima rotonda matildiana richiama il san Lorenzo presente nei mosaici di Galla Placidia e si tratta di santo associato dalla “Leggenda Aurea” alla custodia di importanti reliquie cristiche.
La mia recente ipotesi che il Graal fosse traslato a Venezia poco dopo l’anno mille appare patafisicamente ragionevole e probabile quanto l’idea che la santa Lancia prima custodita dagli esarchi ravennati andasse poi in custodia ai Canossa di Mantova, fedeli agli Ottoni. Dopotutto anche nel Perceval di Chretien de Troyes la ricerca del Graal da parte del protagonista ad un certo punto si separa e distingue dalla ricerca della Lancia, affidata a Galvano.
La legittimità graalica di Mantova e dei Canossa è facilmente ricostruibile, anche in considerazione del legame tra questa famiglia e i Lorena. Partiamo dall’antenato più autorevole di Matilde: il nonno Tetaldo, conte di Mantova e sostenitore degli imperatori Ottone I e Enrico II “il santo”. Alcune miniature lo raffigurano con in mano un giglio rosso e vestito con un mantello verde. Similmente la consorte franca Willa degli Hucpoldingi, stirpe fedele alla Lotaringia, mostra in una miniatura nella destra un fiore trilobato vermiglio e un mantello porpora. Se poi consideriamo il figlio erede principale Bonifacio, padre di Matilde, anch’egli viene dipinto in una miniatura con in mano una palma. Si tratta una segnaletica che indica la stirpe di legittimità graalica di entrambi i genitori di Bonifacio Atto-Canossa come già indicava una miniatura di Aldalberto Atto di Canossa e di Ildegarda dei Supponidi.
Oltre a ciò nel 1048 si ritrovano le reliquie portate da San Longino presso il monastero di S. Andrea da tempo obliate e questo fatto di grande rilievo spirituale conferisce ulteriore legittimità ai Canossa (Bonifacio e Beatrice Bar-Lorena) e a Mantova quali nuovi custodi della Santa Lancia di Cristo, la più importante reliquia cristica insieme al Graal e alla vera Croce. Precedente ritrovamento miracoloso era avvenuto nell’804 nell'orto di Santa Maddalena a Mantova, vicino alle ossa di Longino, luogo poi sede di S. Maria del Gradaro. Papa Leone III ne dichiarò l'autenticità e ne ricevette un frammento come dono da Carlo Magno. Questo fatto dimostra la grande attenzione degli imperatori germanici per le massime reliquie cristiane. È possibile che nel suo testamento Carlo Magno ridonasse la Lancia all’arcivescovo di Ravenna, Lancia che potrebbe essere tornata a Mantova con Matilde o dopo con gli Ottoni. Non è infatti concepibile che i franchi e i longobardi accettassero che entrambe le massime reliquie della Cristianità (Lancia e Graal) andassero entrambe a Venezia: una doveva rimanere in area franco-longobarda, in mani nobili e sicure.
I vasti possedimenti dei Canossa e il loro potere militare e politico legato al Sacro Romano Impero permettevano una buona difesa e un buon occultamento di tale tesoro spirituale ritenuto irradiante un’aura di invincibilità e di prosperità per chi ne fosse leale e fedele custode e servitore, come similmente (e ancora di più) si riteneva per il Graal di Cristo. Matilde poi era cugina di Goffredo di Buglione, il “cavaliere del Cigno”, l’eroe della prima crociata, cioè in poche parole: il “Lancillotto storico”.
Anche a Mantova e nel mantovano infatti abbiamo molte tracce graaliche, tra le molte ricordiamo l’abbazia benedettina di Polirone (i Gonzaga derivano dai “Corradi” difensori di questo luogo sacro), alcune monete e piatti del XV secolo che mostrano cuori fiammeggianti (quando l’iconografia del cuore di Cristo non era ancora diffusa), calici con dentro alberi e in una medaglia per Francesco II Gonzaga del 1484 una donna con una lunga lancia che mostra nell’altra mano un contenitore che potrebbe darsi quale allusione graalica. A Polirone venne scritto un trattato sul sangue di Cristo da parte del benedettino Gezano da Tortona, oggi conservato nella Biblioteca Comunale di Mantova. La città di Virgilio insomma appare quale città massimamente ghibellina, imperiale e cavalleresca.
La stessa storia dell’araldica dei Gonzaga mostra nella crescita dell’armoriale la tenace fedeltà di questa stirpe ai suoi carismi imperiali: prima i tre misteriosi arieti dei Corradi (segno ripreso nella facciata di S. Andrea associato al grifone), poi la classica aquila e le fasce oro e nero tipiche del Sacro Romano Impero e degli Hohenstaufen. Successivamente lo stemma si arricchisce di un intenso simbolismo: il “leone di Boemia” concesso dall’Imperatore Sigismondo, che è bianco su campo rosso come nello stemma del Parsifal dei romanzi arturiani, la croce rossa su campo bianco, già templare, la croce di Gerusalemme, lo stemma dei Paleologi.
Con i Gonzaga Nevers infine l’armoriale della stirpe ducale di Mantova riassorbe in sè stessa ben sei stirpi franco-lotaringiche molto antiche che ho individuato tempo fa come possibili “famiglie del Graal” all’interno di un gruppo di sedici stirpi: Rethel, Borgogna, Bar, Artois, Monferrato (già Atti), Brabante, oltre ad altre antiche famiglie fedeli all’Impero come gli Albret (il cui scudo rosso è segno frequente nei romanzi graalici), i La Mark (possibile allusione alla Bretagna), i Cleves e gli Alençon. Se a questo aggiungiamo che gli arieti dei Corradi concordano con l’ariete quale stemma presente in Bretagna, il cerchio si chiude!
La stessa guerra di successione franco-spagnola per il Ducato di Mantova conferma un’importanza di alto livello di questo casato, non spiegabile solo in termini economico-politici ma bisognosa di una giustificazione spirituale-sacrale che un retaggio graalico potrebbe spiegare. L’humus simbolico mantovano appare quindi riccamente compatibile o risonante con l’immaginario graalico.
Aggiungo ancora altri elementi accennandoli: l’immagine del “Can-ossa” nel loro stemma potrebbe indicare la custodia del corpo di San Longino e il tema della “bestia bianca” compare nel ramo nono del Perlesvaus oltre che risuonare con il bracco simbolico del Titurel di Wolfram Von Eschenbach; l’impresa gonzaghesca della cerva bianca, della tortora e della salamandra indicano animali graalici come pure il leone bianco che è uno dei loro stemmi; tutti segni che compaiono nei romanzi medioevali e la figura di Boor cugino di Lancillotto e fratello di Lionello presenta come stemma l’ermellino di Bretagna, ha una visione di un pellicano (segno associato a Ludovico II Gonzaga), si veste di rosso sopra il bianco (stemma dei Monferrato) e partecipa all’investitura di Galaad.
Mantova quale città imperiale molto sensibile alle reliquie cristiche trova conferma di questa sua vocazione nel tramandarsi della notizia dell’arrivo nella città virgiliana di un frammento della “pietra d’unzione” dal santo Sepolcro di Gerusalemme, come dono per i Gonzaga da parte del padre francescano Padre Paolo Arrivabene da Canneto, custode di Terra Santa fra il 1481 e il 1484, come confermato da questi in una lettera indirizzata al marchese Federico Gonzaga, scritta prima di partire da Gerusalemme. Pietra che ispirò il Mantegna per il suo celebre e stupendo Cristo morto oggi alla Pinacoteca di Brera.
La linea canossiana per la Santa Lancia (ovunque sia stata custodita) non è incompatibile con il racconto di Liutprando di Cremona il quale sostiene che la Santa Lancia era custodita dal conte Sansone (alluso anche da Paolo Diacono) che si oppone a Berengario nel 921 rimanendo fedele agli Imperatori germanici e che fu donata da lui al re bosonide Rodolfo II di Borgogna che poi la trasmise a Enrico l’Uccellatore in cambio di un feudo in Svevia. Il racconto non è incompatibile con la nostra ipotesi in quanto era abituale che le reliquie più preziose fossero o smembrate o duplicate in copie fedeli e preziose. La struttura stessa delle antiche lance romane, come si evince dal reperto oggi nella “camera del tesoro” dell’Hofburg di Vienna, era articolata in due parti speculari congiunte alla base e potenzialmente separabili.
Tornando all’importante figura del conte Sansone essa viene ricordata dallo storico Aldo Settia nel suo saggio “Pavia carolingia e post-carolingia” (in Storia di Pavia, II, 1987) sotto due aspetti: quale conte palatino e quindi massimo funzionario regio della corte di Pavia il quale poi si fa monaco presso l’abbazia di Breme e come difensore del bosonide Ugo di Provenza re d’Italia contro i ribelli Everardo e Valperto, due giudici pavesi. Il primo episodio ci ricorda il topos del cavaliere che diventa monaco, che ritroviamo nelle vicende di Lancillotto e di San Galgano ma pure nei tratti ascetici, monacali e templari di Galvano, Boor e Perceval secondo i romanzi arturiani (La Quest, Lancelot, Perceval).
Il secondo contesto ci conferma indirettamente per il ruolo stesso di Sansone l’importanza della Santa Lancia per la corte di Pavia quale appannaggio imperiale e regale del re d’Italia, germanico o franco-longobardo che fosse. Che l’Italia del nord fosse poi pienamente integrata nella Lotaringia e nell’humus culturale cavalleresco da cui scaturisce l’epos del Graal trova ulteriori conferme testuali-linguistiche nelle citazioni dell’“oro di Pavia” nel Perlevaus e della Lombardia e di Pavia quale sinonimo di grandiosità nella descrizione di un castello dove giunge Galvano nel Perceval quanto nella citazione del Friuli e di Aquileia nel Parziwal quali luoghi delle avventure giovanili dell’asceta un tempo cavaliere Trevrizent.
Anche una possibile “pista graalica abruzzese” non è incompatibile con la linea longobardo-franco-imperiale che avrebbe potuto accordarsi con Ravenna, Mantova e Venezia per una possibile traslazione graalica. I due luoghi oggi abruzzesi più graalici infatti, Lanciano e Guardiagrele, erano città imperiali, autonome, prima longobarde poi franche e normanne; sedi di un’autonoma contea divenuto successivamente “ducato dei Marsi” una cui esponente, Doda, sposò il pronipote di Carlo Magno: Pipino “il giovane” figlio di Pipino di Vermandois (una delle famiglie merovinge più antiche e più graaliche) ed ebbero come figlio Berardo detto “il francisco”, nipote di Azzo dei Marsi, il quale operò alla corte di Ugo di Provenza re d’Italia e si stabilì nell’area marsicana, già staccata dal ducato di Spoleto. Dai Marsi derivano poi i principi di Sangro, nome simile al primo Artù storico: il re romano-barbarico Sangrio, autoproclamatosi imperatore romano dopo l’uccisione dell’imperatore Maiorano a cui era fedele.
Le stirpi sono vie e snodi spirituali per le quali occorre sensibilità, equilibrio, metodo e pazienza per tentare di riannodare i complessi e sottili fili dispersi e obliati. Bisogna superare le sovrastrutture mentali, i riduzionismi quanto i campanilismi per ragionare come nei tempi antichi; cioè in modo organico e anagogico.
L’arte spiega meglio delle parole la vicinanza delle stirpi mantovane al culto del Sangue di Cristo; nel volume di Carlo d’Arco Delle arti e degli artefici di Mantova (1857) alla tavola V si presenta il disegno di un mosaico che era presente nell’abbazia di San Benedetto a Polirone raffigurante il Cristo crocefisso contornato da una serie di personaggi. I dettagli di quest’opera sacra si rivelano preziosi: alla sinistra del Crocefisso ecco una donna incoronata, una regina, che raccoglie il sangue del Redentore che fiotta dal costato porgendo un calice ampio che ricorda una scodella. Alla base della croce due segni vangelici: il serpente della prudenza e la colomba della semplicità; più sotto un recipiente che sembra un grande unguentario o un vaso. Alla destra un misterioso giovane che reca un agnello e sotto: le tre Marie e l’angelo della resurrezione sopra la pietra sepolcrale. Una traccia eloquente e affascinante.















