Nel 1816, un gruppo di scrittori in fieri si riunisce a Villa Diodati, in Svizzera. Quel che accadde fra le mura della dimora era destinato a porre le basi della moderna letteratura.

Le giornate concitate di quell’anno “senza estate” rivivono, oggi, grazie alla maestria di Silena Santoni, la quale con La mia creatura ripercorre i momenti cruciali della biografia di Mary Shelley, durante la creazione del suo romanzo più amato.

Non dev’essere stato semplice tornare sulle tracce degli Shelley, durante il loro “anno senza estate”. Cosa l’ha spinta a rievocarne le gesta?

Due giovani, Percy Shelley, poeta, Mary Godwin, aspirante scrittrice. Li accomuna la passione. Malgrado lei abbia solo sedici anni, lui una moglie, un figlio e un altro in arrivo, scappano insieme, sfidando la morale comune e la disapprovazione delle loro famiglie. Gli spostamenti continui saranno la cifra della loro vita insieme, da una casa all’altra, da un Paese all’altro. Ma raramente sono soli; con loro, presenza assidua e ingombrante fin dalla prima fuga d’amore, Claire, sorellastra di Mary e presto amante di Percy. È per lei che nel giugno del 1816 si trasferiscono sul Lago di Ginevra. Claire a Londra ha conosciuto Lord Byron, il famoso poeta, ha avuto con lui una fugace relazione ed è rimasta incinta. Vuole convincerlo a sposarla e chiede l’aiuto della sorella e del cognato. È l’anno senza estate, quando, in seguito ad un’eruzione vulcanica nel Pacifico le ceneri portate dal vento oscurarono per mesi il sole.

Nelle lunghe sere di pioggia Byron ospita spesso gli Shelley nella sua Villa Diodati affacciata sul lago. Tra i giovani nasce l’amicizia, tutti sono appassionati della letteratura gotica in auge in quegli anni, si raccontano storie di fantasmi, si leggono romanzi ambientati nelle cripte e nei cimiteri. Fino a quando il padrone di casa lancia una sfida: chi di loro per primo sarà capace di scrivere un racconto dell’orrore? Sarà questa la molla che spingerà Mary a concepire, a soli diciannove anni, Frankenstein. In quella vacanza Claire non trova un marito, ché Byron la respinge con disprezzo, ma nasce un capolavoro assoluto. La mia creatura ripercorre tra realtà e molta fantasia quei giorni a Villa Diodati e gli eventi che portarono Mary Shelley alla creazione del suo romanzo, inteso come momento culminante del suo pensiero e della sua vita.

Colpisce la lucidità nell’analizzare i personaggi. Quali sono state le sfide nel creare la voce distintiva di Mary?

La storia però non finisce qui. Byron, Shelley e altri scrittori e poeti continuano a frequentarsi. S’incontrano lungo le tappe del Grand Tour, a Venezia, a Pisa, in Liguria. Un cenacolo di giovani intellettuali, privilegiati per censo, istruzione ed estrazione sociale, drogati di oppio e laudano ma ancor più di egocentrismo, insofferenti delle regole e delle convenzioni sociali, prime fra tutte il matrimonio e la fedeltà coniugale. Mary, in quanto prima compagna poi moglie di Shelley, ne fa parte. È giovanissima, follemente innamorata, Percy è bello, famoso, scrive versi sublimi, le donne cadono ai suoi piedi e lei continua a stupirsi di essere stata la prescelta. È in questa ottica che accoglie i principi libertari del marito, che poi si traducono in continui tradimenti. Ma davvero quelle scelte di vita rispondono ai suoi desideri? Nel corso della narrazione ho immaginato per lei qualcosa di diverso, forse più vicino alla sensibilità femminile contemporanea.

Ognuno a modo suo coltivava incubi, visioni, isterie. Significativo questo passaggio, presago degli avvenimenti in divenire. Quale chiave narrativa ha scelto nel descrivere un’atmosfera definita “asfittica” nel romanzo stesso?

Nell’agosto del 1822 gli Shelley sono a San Terenzo, vicino Lerici. Con loro una coppia di amici. Mary abortisce e rischia la vita, Percy vaga per la casa preda di orribili allucinazioni. Poco dopo morirà affogato davanti al litorale viareggino. La mia creatura parte dalla fine, da quell’ultima tappa del soggiorno in Italia in cui più nulla sarà come prima. Il paesaggio, bellissimo, sembra già contenere in sé il dramma che si sta per consumare. Le isole dei santi e dei morti compaiono e scompaiono all’orizzonte. Nell’aria immobile del pomeriggio, sotto un sole che incombe più come una minaccia che come una promessa, la brigata dei villeggianti gaudenti che, completamente nudi, fanno il bagno nelle acque trasparenti porta già in sé l’accorato presagio che tutto è destinato a finire.

Il volume è in bilico tra la biografia di Mary e quella della “sua creatura”. La scrittura dà corpo e voce al tormento della protagonista. Quali momenti, nella biografia di Mary, le sono parsi salienti ed “utilizzabili” per descriverne i demoni interiori così lucidamente?

Nel mio romanzo seguo Mary Shelley dalla nascita fino ai ventiquattro anni, età in cui rimane vedova. In questo breve lasso di tempo vive esperienze che difficilmente una persona comune affronta nell’arco di tutta una vita. Figlia di intellettuali, moglie di un grande poeta, sa che il suo destino è quello di diventare una scrittrice. Questo è quello che si aspetta da lei suo marito, che nel frattempo, in poco più di sette anni, la mette incinta per cinque volte. La sua esistenza è costellata di lutti; appena nata, resta orfana di madre, vede morire, ad uno ad uno i figli che mette al mondo. È divorata dai sensi di colpa e di inadeguatezza. I tanti “mostri” che la tormentano trovano alla fine una forma nella creatura a cui il dottor Frankenstein dà vita assemblando parti di cadaveri. Ed è dando loro un volto e una voce che Mary riuscirà finalmente ad affrontarli e a sconfiggerli.

Lei ha abituato i lettori a scritti molto diversi fra loro. Posso chiederle a quali progetti futuri sta lavorando?

La mia creatura è il mio quarto romanzo; quelli che l’hanno preceduto erano completamente diversi per trama, epoca, ambientazione. Non mi diverte ripercorrere strade già battute, ogni volta cerco qualcosa di nuovo. Per questo i miei libri hanno un lungo periodo di incubazione. Al momento non saprei definire con precisione progetti futuri, anche se mi piacerebbe raccontare una saga familiare con personaggi del tutto inventati ma inseriti in un contesto storico, possibilmente poco noto.