E se anche distribuissi tutte le mie sostanze (ai poveri)
e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi
l’agape (l’unità d’amore con Dio) niente mi giova.(Prima lettera ai Corinzi 13,3)
Quando si parla oggi di amore e di poveri si rischia sempre la confusione, il fraintendimento e l’ambiguità; anche quando a parlarne è un Papa. Non ne parlava anche il socialismo e il comunismo? Questo è uno dei fattori, ma non il solo, che complica il discorso. Non era così nel tempo dei grandi santi, dei padri della Chiesa e dei magnifici “santi della carità” che giustamente Papa Leone XIV ricorda nella sua “Esortazione Apostolica sull’amore verso i poveri”, il suo primo documento pubblico. Anch’io pensavo che il celebre Inno all’amore (o: alla “carità”) della prima lettera ai Corinzi di San Paolo utilizzasse il termine kharis, cioè “grazia” e invece impiega la denominazione agape, quindi andrebbe tradotto: se non avessi l’unità, l’amore divino pieno; la comunione con Dio; e non: “amore” o “carità”.
Lo stesso termine lo usa Cristo quando chiede a Pietro se “lo ama” alla fine del Vangelo di Giovanni e Pietro risponde sempre con fileo: “ti voglio bene”; un amore più debole e differente rispetto all’amore totale e di comunione proprio di Dio. Persino San Pietro quindi, la “roccia della fede”, non riesce mai ad amare Cristo come e quanto Cristo lo ama; figuriamoci noi! Questo grande insegnamento è chiaro: il vero amore viene solo da Dio e solo Dio può darlo. Non a caso la “carità” è per la dottrina cattolica una “virtù teologale” come la fede e la speranza; nessuno può costringere a tale virtù, né averne merito, né inventarsela se Dio non la concede (con il Battesimo, ad esempio).
E l’ “agape”? Lo scopo della vita e della via cristiana: l’identificazione con Cristo; l’imitazione di Cristo e la reciproca inabitazione: noi in Cristo e Cristo in noi. Altroché il rotolarsi nudi con la bella e allora giovane attrice francese in “Film Rosso” dove si strumentalizza il meraviglioso Inno paolino per confondere il sesso e la passione fisica con l’amore spirituale e divino. È San Paolo quindi e non qualche tradizionalista beghino recente che mette in guardia sul fatto che il centro del Cristianesimo è il vivere il dono divino dell’amore-grazia-comunione e che tale amore non è una semplice beneficienza o attivismo filantropico ma qualcosa di molto differente, altro e più profondo ed elevato.
“Dilexi te” va vista alla luce di questa teologia cattolica della carità-agape e in tale luce appare un documento chiaroscurale. Elenchiamone prima gli aspetti positivi, coerenti e amabili: l’iniziare con la citazione dell’Apocalisse di Giovanni (Ap.3,9; nonostante non c’entri con la povertà), l’abbondare in citazioni scritturali e dei Padri della Chiesa, il riprendere la giusta critica di Giovanni Paolo II (Laborem Excersens, Centesimus Annus, Sollecitudo Rei socialis) contro gli eccessi del capitalismo finanziario quale ideologia materialistica e di sfruttamento, il ricordare grandi fenomeni di santità antica come gli Ordini mendicanti e le gloriose congregazioni dei Trinitari e dei Mercedari che riscattavano dalla schiavitù i cristiani prigionieri in Africa dal Marocco all’Egitto (anche se non ha ricordato l’origine islamica di questa persecuzione di pirati e gruppi navali armati che per due secoli afflisse l’Europa mediterranea e l’Italia dal 1500 al 1700).
Così scrivendo Papa Leone XIV ci ricorda giustamente come l’attenzione operosa verso i poveri sia sempre stata un carisma costante e vitale della Chiesa cattolica in tutte le sue forme storiche, ecclesiali e istituzionali: diaconi, religiosi, monaci, diocesi, preti, confraternite, associazioni, santi, Papi. Detto questo purtroppo sembrano residuare in questo importante testo dei passi, delle influenze e degli approcci che invece poco c’entrano con una corretta visione teologica della carità, dell’elemosina e dell’assistenza ai bisognosi e che risentono invece di un pensiero ideologico, progressista-laicista, mondano e solo sociologico che può generare confusione, ambiguità e incertezza anche nell’interpretazione dei Vangeli e del ruolo dei cristiani nella società.
Proviamo a riassumere possibili sottolineature di questi passi meno chiari e meno convincenti. All’inizio del documento viene ricordato il gesto della donna che sparge un prezioso unguento sopra il capo di Cristo ma viene ricordato come fosse solo un gesto consolatorio e di elemosina dimenticando il suo valore simbolico e spirituale: Cristo è l’ “Unto” e il gesto di “ungere l’Unto” pur ancora vivo assume un valore profetico preannunziando la sua prossima morte sacrificale. Quell’ “unguento” non è quindi una “consolazione” per un Gesù “povero” ma un segno rivelativo dei carismi mistici di Cristo. Proprio l’obiezione di Giuda Iscariota contro questo spreco (e lo è, economicamente) indica che tale gesto non c’entra nulla con la povertà e non va messo in contraddizione con la necessaria attenzione verso i poveri.
C’è Qualcuno più importante anche dei poveri: Cristo stesso e il Suo olocausto redentivo sulla Croce e mediante la Croce. Tutto il resto viene dopo, è una conseguenza non una radice. Va spiegato infatti perché il Cristianesimo si è sempre occupato dei poveri e lo ha fatto per due ragioni che Papa Leone XIV sfiora e accenna ma non approfondisce: a) Cristo con la Sua Incarnazione “si fa povero” cioè scende dall’alto dei Cieli nella condizione faticosa e limitata dell’umanità; per cui il povero ricorda il sacrificio di Cristo e le sue sofferenze; in questo senso anche il più grande miliardario è sempre un misero e squallido accattone come siamo tutti di fronte ad un Dio Creatore e Infinito; b) la povertà mette a rischio la condizione dell’anima del povero potendo spingerlo alla disperazione, alla violenza, alla bestemmia, all’odio. Se la tua principale preoccupazione è sopravvivere non hai certo la serenità e la libertà per poterti occupare della tua anima e della salvezza e della religione, no?
Questa praticità antica e costante del Cattolicesimo viene lasciata sullo sfondo in “Dilexi te”, purtroppo; come se la preoccupazione principale del Cristianesimo dovesse essere il miglioramento del mondo e non la sorte eterna delle anime. È sempre lo stesso errore: non ricordarsi che “il mondo” vangelicamente sono le potenze che hanno crocefisso Cristo e che la nostra fede “vince il mondo” come Cristo “ha vinto il mondo” (non ha cercato un compromesso con il mondo) come ci ricorda il Vangelo di Giovanni. Il Vangelo infatti non è un trattato di politica o di economia e nessun santo, neppure quelli più d’azione e di carità, ha mai pensato di poter risolvere i problemi del mondo o di vincere la povertà.
Pensare altrimenti significa cadere nell’errore degli Zeloti che volevano un Messia politico, rivoluzionario, ribelle, anti-romano; cioè tutto quello che Cristo non è mai stato e non ha mai voluto essere. I santi aiutavano i poveri per portarli a Cristo, per convertirli; perché amassero il Signore vedendo l’amore dei suoi servi e non lo bestemmiassero per le loro difficoltà. Questo tema teologico fondamentale viene purtroppo lasciato in sordina, sullo sfondo mentre la principale preoccupazione cristiana sembrerebbe essere quella di sconfiggere lo scandalo della povertà, tema più dei Governi e della politica che di una religione, anche cristiana. Nessun santo neppure i più grandi hanno mai “cambiato strutturalmente” la società ma tutti, anche i più piccoli hanno cambiato i cuori e le menti (per gratiam Christi).
Nel paragrafo “Il grido dei poveri” il documento interpreta alla lettera, sociologicamente, la condizione degli ebrei in Egitto per la quale Dio manda Mosè ma la tradizione cattolica ha sempre interpretato tale misera condizione incentrando il discorso sul rapporto “schiavitù/idolatria” e non sul tema della povertà economica. L’ “Egitto” è simbolo dell’idolatria e gli idoli generano schiavitù. Anche se fossero stati bene economicamente gli ebrei in Egitto sarebbero comunque stati liberati da Dio tramite Mosè in quanto Dio voleva farne un popolo e popolo non erano avendo in molti dimenticato la fede di Abramo e aderito ai costumi pagani egizi. Il tema della “miseria in Egitto” c’entra poco quindi con quello della povertà economica e va letto in relazione al tema spirituale dell’Esodo.
Altro simile riduzionismo lo troviamo nella lettura della vicenda di Betlemme quale segno della povertà della famiglia di Nazareth perché “non c’era posto per loro in albergo” (Lc. 2,7). Anche qui la lettura può essere più complessa e più profonda ma anche differente dal punto di vista pratico: probabilmente non hanno trovato posto in albergo non perché Giuseppe non avesse denaro per pagarlo ma per il grande numero di persone che erano accorse nel piccolo villaggio di Betlemme per il censimento. Il tema quindi socialmente sarebbe l’esclusione e non la povertà e in ogni caso il fatto andrebbe letto nella logica provvidenziale per la quale il Figlio di Dio doveva nascere in una mangiatoia per indicare che Lui è il cibo per le anime. “Betlemme” significa infatti: casa del pane; come ci ricorda San Bernardo di Chiaravalle nella sua “Lode sulla nuova Milizia”.
La Santissima Famiglia non va vista come una famiglia come le altre, vittima di circostanze avverse, ma come massima espressione del volere di Dio e del Piano di Dio. Il fatto che poi Cristo si presenterebbe al mondo come “Messia povero e dei poveri” appare una prospettiva un po’superficiale e riduzionista perché il Messia per sua natura è universale e divino dono per tutta l’umanità. Lo stesso Vangelo infatti corregge chiaramente il rischio (sempre presente) di “zelotismo” in quanto nel Vangelo di Matteo specifica in profondità una delle beatitudini: “felici i poveri in spirito” (Mt.5,3).
Passo purtroppo non citato in “Dilexi te” che si sofferma solo su Luca 4,18; non chiarendo che la povertà non è un bene in sé stessa ma solo in quanto ci apre meglio al Cristo, a Dio e che la “povertà beata-felice” è quella spirituale, dell’anima, non sociologica. Se la povertà fosse un bene spirituale in sé stesso allora i Santi non avrebbero fatto di tutto per allievarla e superarla: dovremmo tutti essere miseri, no? Il tema centrale del Vangelo è il cuore, non le tasche, non le condizioni economiche-sociologiche.
Sulle condizioni sociali della Santissima Famiglia di Nazareth personalmente la penso come Vittorio Messori: essere un artigiano come fu San Giuseppe, allora, significava appartenere alla classe media, non essere povero o proletario. Prova ne è che la Vergine dona a Gesù una preziosa “tunica senza cuciture” per l’inizio della sua missione. I poveri erano i mendicanti, i braccianti agricoli, i pescatori e i minatori; non gli artigiani. Probabilmente non era una famiglia ricca ma neppure misera. In ogni caso questo dato è di assai poca rilevanza per la fede; peccato che un Papa si abbassi a queste inezie (che nessuno può provare, poi).
Anche la parabola del ricco Epulone che il documento cita non trova come suo centro il tema della povertà in sé stessa ma sempre il tema del cuore. Il ricco non si danna perché ricco né il povero perché povero. Il ricco si danna perché non si cura della sua anima e si chiude in sé stesso ignorando il misero e Lazzaro si salva perché ha sopportato con santa pazienza la sua condizione. Il cuore è il campo di battaglia, non i soldi.
Il Papa poi cita la focosa e bellissima lettera dell’apostolo Giacomo (quasi da tutti ignorata) ma anche qui l’approccio è un po’scentrato: il tema che fa arrabbiare l’ardente apostolo e gli motiva violente (e giuste) invettive non è lo “scandalo della povertà” ma la grave ingiustizia data dalla prepotenza di chi non paga i suoi lavoratori (uno dei peccati più gravi per la Chiesa). Il tema quindi è l’ingiustizia, non la povertà. In tutta la Sacra Scrittura infatti il “povero” si rivela immagine spirituale dell’umile, del semplice, dell’innocente mentre “il ricco” appare metafora del prepotente e del superbo. La prospettiva prevalente quindi è sempre quella spirituale e mai quella sociologica.
Il tema fondamentale del “cuore” (quasi ignorato in Dilexi te) viene ricordato nel medesimo passo di Giovanni che il Papa cita: “se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore….”. La colpa è chiudere il proprio cuore. Per questo la Chiesa ha sempre annunziato Cristo: perché il cuore si converta e si apra. Se il cuore non cambia non serve nulla aiutare i poveri. Questo ci insega il Vangelo. L’antico Israele già conosceva come congiungere le due prospettive, quella spirituale con quella sociale: il bellissimo rito-costume dei Giubilei (strano che il Papa non li abbia citati) con i quali si condonavano i debiti, si faceva riposare la terra e li liberavano i prigionieri.
Anche nei Vangeli il termine “poveri” (οἱ πτωχοί) può leggersi più profondamente come: “bisognosi”, “mendicanti”, assumendo un senso ampio quale rinvio alla condizione umana e mortale nel suo complesso e nella sua essenza, rispetto all’Onnipotenza e infinità di Dio. Il “bell’annunzio” di Cristo nella sinagoga di Nazareth non è: eliminerò la povertà, soddisferò tutti i poveri; ma: “è giunto in mezzo a voi il Regno di Dio”, cioè il compimento nella Sua Persona delle profezie messianiche di Isaia, non una ricetta filantropica o umanitaria. Se “Dio ama chi dona con gioia” (2Cor.9,7) nessuno, neppure Dio, può “costringere all’amore” altrimenti avrebbero ragione le dittature (tutte) le quali si connotano appunto per la costrizione a certe prassi secondo valori imposti ritenuti superiori al singolo individuo. Come si può “donare con gioia” se il nostro cuore non accoglie prima la grazia divina?
Dire poi che la “carità” (intesa sociologicamente?) “non è un percorso ma il criterio del vero culto” rischia di apparire uno slogan, una frase ad effetto, un aforisma ideologizzante ed esagerato. Più che “criterio” si potrebbe dire: la carità quale frutto e conseguenza della fede e di una fede operosa. Ridurre invece un dono teologale ad una mera prassi, ad un mero stile morale appare uno sguardo riduttivo, superficiale, fuorviante. Il concetto di “culto” poi riguarda il rapporto verticale dell’anima con Dio con le relazioni etiche o sociali.
Il documento poi reinterpreta la vocazione monastica alla luce della povertà quale valore dicendo che i monaci lasciano tutto per “incontrare il Cristo povero”; mentre tradizionalmente l’abito monacale e il voto di povertà indicano semplicemente il “rifiuto del mondo” per poter più liberamente e più pienamente seguire Cristo e aderire alla totalità di Cristo e a Cristo totalmente. Il monaco è “ricco di Cristo” e di un “Cristo totale”, più che di un “Cristo povero”.
La Croce di Cristo è il culmine dell’Incarnazione e dell’annientamento mistico del Figlio, non un’immagine sociologica-economica. Tutti i cristiani sono chiamati a portare la propria croce e ad unirla a quella di Cristo; non a diventare poveri per una povertà fine a sé stessa: sarebbe folle e vano! Che il chiostro sia un luogo “dove si impara a servire meglio il mondo” appare tesi anomala e strana. La vita monacale, il chiostro, insegnano a servire Cristo, non il mondo che ha crocefisso Cristo!
Il tema della “liberazione degli oppressi” appare facile slogan che mai può essere inteso cristianamente in senso letterale-materiale-politico altrimenti avrebbe avuto ragione la “teologia della liberazione” (giustamente condannata da Giovani Paolo II e Benedetto XVI) con i suoi preti armati di mitragliatore o gli anabattisti che impiccavano i proprietari terrieri. La liberazione degli oppressi che ci ha portato Cristo è la liberazione dal peccato originale e dei peccati tramite i divini Sacramenti che ci ha donato e che ci dona ogni giorno. La Chiesa lo ha sempre insegnato! Rischiare confusioni su questo tema è pericoloso e poco utile!
Pensare ad una Chiesa “pellegrina che vive tra i poveri non per proselitismo ma per identità” appare altra frase anomala, ambigua e fuorviante. In primo luogo la Chiesa per divina missione non fa “proselitismo” (vecchia accusa laicista o islamista anti-cattolica) ma apostolato e deve farlo per comando di Dio e deve farlo verso tutti, poveri o ricchi. In secondo luogo la Chiesa ama i poveri perché essi portando una grande croce possono essere più vicini a Cristo, possono manifestarsi come segno di Cristo e ci ricordano che tutti siamo miseri di fronte all’unico divino Padre. Non per altro. Non esistono “identità” ecclesiali connotate economicamente.
Il paragrafo 73 scivola purtroppo anch’esso nel bergoglismo quale retorica e moda con il categorizzare e santificare il “migrante” quale fosse un’entità ontologica o una verità di fede. Tipico del pensiero ideologico è il ragionare per facili “categorie di massa”; mentre al contrario i Vangeli si rivolgono all’anima, alla persona umana. Il “migrante” diventa così una sorta di icona magica e pop a cui tutto si perdona e a cui tutto è permesso. Nulla che c’entri con il Cristianesimo e il Cattolicesimo.
Dal punto di vista anche pratico poi “il migrante” non esiste quale simbolo di un dinamismo cronico (utopico) perché esiste sono l’emigrato e l’immigrato (in base alla nazione che ci lascia e in cui si entra) e questo esiste per pochi anni perché poi o si ritorna indietro o ci si incultura in un altro contesto, definitivamente. Qui invece si parla di “migrante” come fosse una condizione dell’anima e una condizione privilegiata. Si dice “migrante” ma va inteso meglio come: sradicato, spaesato. In quanto bisognosi vanno certo aiutati ma il tema è più politico-sociale che religioso anche perché dentro la vasta fenomenologia dell’immigrato può esserci di tutto (come dentro ogni fenomenologia di massa): il disperato, il violento, il terrorista, lo sfruttatore, il pagano, il fuggitivo.
Leggere Papa Leone XIV che scrive: “in ogni migrante respinto è Cristo stesso che bussa alle porte della comunità” produce sconcerto e amarezza per vari motivi: si parifica Dio a dei semplici uomini, si confonde un passo spirituale dell’Apocalisse (Cristo che bussa alla porta del cuore) con situazioni materiali e accidentali, si santifica a priori una categoria sociale indifferenziata!
Altra prospettiva invertita e confusa sembra emergere in un altro passo del documento riferito ai poveri: “non si tratta di “portar loro” Dio ma di incontrarlo presso di loro”; come se i poveri non avessero bisogno di conversione e come se la missione di apostolato non fosse un dovere universale di tutti i fedeli e di tutta la Chiesa. Non abbiamo la garanzia che Dio sia presente in mezzo ai poveri solo perché poveri. Questa garanzia c’è, cattolicamente, solo nei divini Sacramenti. Lo scindere in modo conflittuale prospettive differenti (ma complementari, nello Spirito) non sembra mai una tecnica o una mossa efficace!
Papa Leone riprende ancora Bergoglio nell’invertire il baricentro dell’ermeneutica cattolica tradizionale: dobbiamo “lasciarci evangelizzare dai poveri”! Frase certamente “ad effetto” ma del tutto senza senso, irrazionale e destabilizzante in quanto svuota la Sposa di Cristo (la Chiesa-Corpo mistico di Cristo) del suo ruolo sacrale e salvifico a favore di un’idolatrizzazione di una parte della società umana. Se applicata alla lettera: ci aspettiamo che al prossimo Angelus a San Pietro non si affacci il Papa per darci gli insegnamenti che aspettiamo e di cui abbiamo bisogno ma un qualsiasi senza tetto, magari bestemmiando o gridando!
Diverso il senso che certe condizioni ci possono ispirare compassione, sentimenti cristiani e stimolare la conversione. Anche il cuore arido del sottoscritto quando prese coscienza delle condizioni dei fedeli in carrozzina che vide in treno tornando da Lourdes sentì un calore nuovo, un qualcosa che si muoveva dentro ma era grazie allo Spirito Santo (che su tutti soffia, anche sui più miseri di cuore) non all’infermità di per sé stessa! La Chiesa non ha mai avuto un approccio solo emotivo o sentimentale alla miseria, alla malattia e alla povertà economica ma ha sempre letto tutto il reale “in Cristo, per Cristo e con Cristo”.
Non bella anche la ripresa del bergoglismo del povero quale “carne di Cristo”. Qui si sostituisce il divino sacramento dell’Eucarestia (che è l’unica e reale carne di Cristo) con la sentimentalizzazione poetica di semplici uomini, peccatori come tutti. Tutta la Chiesa, cioè tutti i battezzati in Cristo, sono corpo di Cristo, sue membra di cui Cristo è il Capo. Ma questo per via sacramentale-mistica, non economica.
Anomali (rispetto al resto del testo) emergono infine i riferimenti a non meglio identificati “movimenti popolari” (esisteranno in Sud America, ma non in Italia) cioè partiti politici che il Papa benedirebbe. Non viene detto nulla di preciso su questo punto (a rischio di qualunquismo). Ma quale forza politica nel mondo non fa riferimento al popolo? Quale Costituzione non lo esalta? Evidentemente fino ad ora è servito a poco per migliorare le condizioni dei più bisognosi! Il Papa dovrebbe essere un padre spirituale quindi non è bello vederlo scendere in dettagli e in particolarismi sempre pericolosi, ambigui e confusi.
Anche perché due note del testo ci chiariscono che questi misteriosi “movimenti popolari” (magari ci fossero davvero!) si intendono quelli che parteciparono ai due incontri mondiali bergogliani del 2014 e del 2016, tra i quali c’erano anche associazioni rivoluzionarie, anarchiche e insurrezionali (tra i pochi italiani presenti: il Centro Leoncavallo e i No-Tav. Che c’entrano con il Cristianesimo?). Appare utopismo pensare che possano esserci forze capaci di “coinvolgere tutti” e anche fosse questo olismo non è un valore di per sé: anche il nazismo coinvolse tutta la società ma questo non fu un bene!
Ecco infine tornare poi la retorica della “proprietà privata che deve avere una destinazione sociale”. Questo tormentone sembra ormai surreale in società di massa dove la proprietà pubblica viene spietatamente privatizzata. La proprietà privata si fonda, cristianamente, sui Dieci divini Comandamenti. Che debba avere dei limiti, come ogni situazione umana, sembra ovvio a tutti (chi mai lo contesta) ma confonderla con la proprietà pubblica (che quella si deve avere una funzione sociale) appare ideologico, riduttivo, fazioso e utopistico.
Oggi infine parlare in modo astratto e qualunquista di proprietà e di distinzione fra privato e pubblico (nella tirannia elitaria di massa dell’omologazione) appare un modo vecchio e non più utile di approcciare il reale. Quale proprietà privata deve avere anche una funzione sociale? Quella delle grandi multinazionali o i piccoli risparmi di chi fatica ad arrivare a fine mese? Occorre fare queste distinzioni essenziali altrimenti rischiamo di prenderci in giro. Mazzini (e la Chiesa, un tempo) ci ricordava che la piccola proprietà è garanzia di libertà e dignità mentre il collettivismo è sinonimo di sfruttamento e immiserimento. La parabola vangelica dei talenti ci ricorda che lo spirito imprenditoriale è apprezzato da Dio, non disprezzato.
A proposito di parabole non possiamo che dire che purtroppo “Dilexi te” cade ancora una volta (come già fece il bergoglismo) in una lettura deformante del celebre passo vangelico del “buon samaritano”: categorizzare il bravo e la vittima. Ma che c’entra la povertà? La parabola del samaritano è tutta sulla misericordia e probabilmente i violenti briganti erano più poveri della loro vittima e del viandante compassionevole. Questa parabola viene strumentalizzate per celebrare un’“ideologia dell’accoglienza” che non c’entra nulla con il senso profondo del suo insegnamento evangelico: l’imitazione di Cristo.
È infatti Cristo il protagonista della parabola: è Cristo l’uomo che scende verso Gerico, la vittima, è Cristo il viandante compassionevole che si fa “prossimo”, cioè si avvicina al mezzo morto; ed è Cristo anche l’oste che ospita la vittima. La prospettiva della parabola è dinamica e attiva, non di accoglienza passiva e pregiudiziale. Il “prossimo” non è l’uomo moribondo ma il viandante che si avvicina a lui perché ne ha compassione. Il “prossimo” siamo chiamati ad essere noi nel nostro (se possibile) avvicinarsi con tenerezza a chi è vicino a noi e ha bisogno del nostro aiuto (anche spirituale).
Questa bella parabola invece viene banalizzata, abbruttita e invertita come se dovessimo stare fermi e accettare qualsiasi istanza, qualsiasi invadenza e come se il “prossimo” invece del vicino fossero i lontani, o una categoria politica o sociale. La parabola invece parla della compassione di una singola anima per un singolo sconosciuto in cui s’imbatte per caso (provvidenziale). Non altro. Non va trasformata-deformata in uno schema di massa. Il “prossimo” non esiste a priori: è un movimento del cuore a cui noi siamo chiamati, caso per caso. Speriamo di accorgercene, quando ci capiterà questa piccola o grande chiamata!















