In un tempo che ci allena a reagire, semplificare e dimenticare in fretta, leggere è un gesto lento e profondo. Un esercizio controcorrente che restituisce valore all’ascolto, alla complessità e al pensiero critico.
Leggere, per me, non è mai stato un passatempo ma una necessità. Un gesto naturale, come cercare aria dopo una giornata chiusa in ufficio. Leggo per ritrovarmi, per attraversare domande che non sempre hanno una risposta; non è evasione, è una totale immersione.
Con Saramago ho scoperto la forza del racconto che intreccia reale e fantasia; con Calvino ho capito che la leggerezza non è superficialità, ma una forma di intelligenza. Benni mi ha insegnato a sorridere persino dell’angoscia. Pavese, Morante, Ginzburg, Manganelli: ognuno di loro ha acceso qualcosa che non si è più spento perché, quando leggo, qualcosa dentro di me si sposta, è come se i miei pensieri si riorganizzassero; osservo meglio e ascolto più a fondo.
Eppure, per molti, leggere è diventato un gesto marginale, qualcosa da fare se avanza tempo, e forse è proprio questo il problema: leggere richiede un tipo di attenzione che stiamo perdendo: lenta, concentrata, viva.
In un epoca dove tutto corre anche l’informazione arriva immediata; quindi, non ci manca l’accesso alla notizia, ma ci manca la voglia di capirla. Il mondo oramai ci addestra a reagire, a semplificare, a dimenticare in fretta; leggere invece ci chiede di restare, di sostare nel dubbio, di confrontarci con ciò che non ci somiglia. È uno sforzo, sì, ma è anche un gesto politico, una resistenza silenziosa.
Fragilità del pensiero e urgenza collettiva
In una società che legge poco, la fragilità del pensiero si vede ovunque: nel linguaggio pubblico, nei social, nella superficialità con cui si formano opinioni granitiche. La capacità di approfondire si è assottigliata; il dubbio, anziché essere considerato segno di intelligenza, viene spesso letto come debolezza. Si preferisce la velocità alla complessità, lo slogan all’argomentazione, la certezza alla domanda.
Eppure, la lettura ci insegna qualcosa che abbiamo dimenticato: la complessità. Ci abitua a restare dentro le sfumature, a frequentare le contraddizioni, ad accettare che non tutto possa essere risolto in una frase breve o in una posizione netta. Chi legge molto tende a giudicare meno in fretta, perché ha imparato a entrare nei mondi degli altri senza volerli ridurre al proprio schema.
Per questo continuo a credere che la povertà di lettura sia, prima ancora, una povertà di pensiero. Non riguarda solo la cultura individuale, ma il modo in cui una collettività si abitua, o disabitua, alla profondità, alla pluralità, alla lentezza del ragionare insieme.
Due modi di leggere, due modi di stare nel mondo
Secondo me, oggi si possono riconoscere almeno due grandi modi di vivere la lettura. Non sono gli unici, certo, ma sembrano tornare spesso, quasi come due tendenze opposte. E, in fondo, raccontano anche qualcosa su come ci rapportiamo al mondo, agli altri e a noi stessi.
C’è chi legge per costruirsi un’identità, per farne una bandiera culturale, il prototipo di persona che usa i libri come strumenti di validazione, li cita e li esibisce. La lettura diventa un linguaggio da mostrare, non da interiorizzare; è una lettura performativa, narcisistica, spesso brillante, ma che rimane in superficie. Quasi mai è un vero dialogo e tantomeno un’apertura.
Poi ci sono lettori diversi, quelli più silenziosi e difficili da intercettare. Persone che leggono non per dichiararlo, ma perché hanno bisogno di parole che li attraversino; non fanno della lettura un gesto eclatante, ma quotidiano, non leggono per affermarsi, ma per comprendere.
Penso, ad esempio, a Giacomo. È un mio collega; non lo conosco bene, ci siamo parlati poco, ma ogni volta che l’ho visto interagire, ho avvertito in lui qualcosa di diverso: una presenza che non cerca di stare al centro. Quando si parla di libri, Giacomo ascolta. Non interviene per citare, non corregge per mettersi in mostra; risponde solo quando serve, con una calma, una misura, una chiarezza che non cerca effetto. E in questo, forse, c’è già tutto: la lettura come spazio vissuto, come pratica che forma senza clamore.
C’è, in persone come lui, un modo diverso di stare nella complessità. Una naturalezza nello stare anche nelle zone ambigue, incerte, nei silenzi che gli altri riempiono subito. È un’attitudine che ha poco a che fare con il carattere, e molto con lo sguardo. E mi chiedo se non sia proprio questo uno degli effetti più preziosi della lettura profonda: allenarsi a restare in un pensiero senza bisogno di dominarlo, a stare in relazione senza annullarsi, a convivere con ciò che non si comprende del tutto.
Mi viene in mente una scena della Bella e la Bestia: quando lui apre le porte della biblioteca e si fa da parte, lasciando che sia lei, Belle, a scoprirla. Un gesto muto, che invita senza guidare, che non impone. Ecco: se dovessi immaginare una comunità che legge davvero, immaginerei persone così. Persone che sanno stare un passo indietro, ma che aprono mondi. Persone come Giacomo — e come Belle — che non urlano la loro profondità, ma la vivono.
Leggere oggi: una scelta consapevole
Io leggo perché ho bisogno di spostare il baricentro; perché certe storie mi scavano dentro, mi fanno domande che da sola non saprei formulare. Leggo per costruire un pensiero più ampio, più articolato, meno impulsivo. So che mi serve, so che è parte di un equilibrio personale, ma anche collettivo. Vorrei che si leggesse di più, e meglio. Che si tornasse a considerare i libri come spazi vivi, non come oggetti decorativi che nelle scuole si insegnasse a leggere per desiderio, non per obbligo. Che le librerie fossero attraversate, non solo sfiorate. Che le parole pesassero di nuovo.
Il mondo ci spinge a reagire in fretta, ma leggere è l’opposto: è rallentare, riflettere, scegliere. In un tempo che ci sradica continuamente, leggere è un modo per restare, per ascoltare, per essere, anche in silenzio, dentro qualcosa. E forse è da lì, dai libri, dalle storie, dalle parole, che potremmo cominciare a costruire di nuovo.