I guru del presente lo hanno detto e ripetuto fino alla nausea: la reputazione è tutto.
Il motivo è tanto semplice quanto scontato, nessuno -quanto meno nel mondo del lavoro, degli affari e simili- vuole avere a che fare con chi non può essere considerato di valore. Come dire che se ci dovesse vendere una lavatrice come minimo sarà un modello superato, un invenduto che cerca di rifilare a noi poveri ignari. Al contrario, il titolare della massima reputazione ci consiglierà per il meglio, proponendoci sicuramente quanto di più adatto a noi, al limite rinunciando a concludere la cosa, se non fosse in grado di offrire il meglio. Banalmente: il solo ascoltare qualcuno o leggere qualcosa merita la nostra attenzione solo se l’ “emittente” a sua volta lo merita. Tutto questo -ovviamente- in un mondo ideale, di cui però non conosciamo l’ubicazione, nel nostro le cose, nella loro totalità, quindi anche queste, sono un poco -leggi: molto- più complesse e complicate. Forse, più che altro, intricate.
Tradotto in parole molto povere: chi ha la reputazione elevata può fare e dire tutto, chi non ce l’ha proprio alta è condannato al contrario. Il motivo è presto detto, chi ha un seguito forte e di valore non lo vuole di certo rovinare, è stato costruito in anni se non in decenni di duro lavoro. Non farà o dirà, infatti, nulla che non sia assolutamente degno del suo livello, pena il declassamento. Gli altri, invece, potrebbero provarci, con i risultati altalenanti del caso. Ci sarà chi confermerà il suo basso profilo, chi addirittura lo peggiorerà ma anche chi avrà modo di porsi in risalto, accrescendo il proprio valore percepito.
Verrebbe perciò da chiedersi chi siamo noi per contraddire una cosa del genere, un sistema di valori tanto perfetto, se però la curiosità prende il sopravvento, chi ha vissuto l’infanzia venendo additato come -appunto- curioso, come fosse un difetto, non gravissimo ma tale, ora che la cosa è stata sdoganata ed anzi sembra essere un buon segno, se non altro di vivacità intellettuale, come può non farsi alcune domande, non per contestare ma per approfondire la cosa? Se le odiate premesse possono ancora essere fatte, nello specifico caso andrebbe per primo indagata la reputazione di chi ne afferma l’assoluto valore, a discapito di tutto il resto, come se fosse più importante quello che la gente pensa di noi rispetto alla qualità del nostro operato ma anche di chi siamo davvero!
Questi personaggi che vivono di percezione ma che più di qualcuno, che peraltro molto gli somiglia, chiama fuffa-guru, hanno la reputazione del caso o si comportano classicamente come chi predica bene e razzola male? Decenni dopo questo modo di dire mantiene il suo far luce! Il comportamento dei nostri, infatti, non sembra proprio irreprensibile. Il credito che questi sembrano ottenere dal proprio pubblico di riferimento, così definito perché di solito si tratta di utenti della rete, sembra basarsi sui risultati ottenuti con mirabolanti promesse che si sarebbero avverate pressoché in tutti i casi in cui perfetti incompetenti dopo un brevissimo, ma più o meno costoso, corsetto online, da seguire ovviamente senza alcuno sforzo, hanno cambiato vita, fino a farli diventare vergognosamente ricchi, tanto che li vediamo sfrecciare in Lamborghini a Dubai… Ineccepibile!
Tornando al contenuto e volendo aggiungere un’analisi “letterale”, il termine “reputazione” deriva da “reputare” e consiste, infatti, nel fatto di concedere la stima, la valutazione o altro a qualcuno. Con questa parola perciò determiniamo il valore percepito: ci sarà chi avrà un’ottima reputazione e chi meno, ma dovremo comprendere pure che fare con i non valutati (sono degni quanto meno di un tentativo?) e soprattutto chi non riuscirà a scrollarsi di dosso i giudizi affrettati se non completamente sbagliati (basta un errore, magari solo presunto, ma anche una cattiva impressione, per rovinare irrimediabilmente il buon lavoro di una vita intera).
Le poche parole appena espresse sono, o auspicabilmente dovrebbero essere, sufficienti ad instillare il dubbio sulla differenza tra l’essere e l’apparire. Tema sicuramente non nuovo ma che torna pesantemente alla ribalta oggi in cui tutto o quasi sembra essere il frutto del nostro essere percepiti in rete o meglio sui nostri device. Non bastavano i siti, in cui tutte le aziende sono, chissà come, leader di settore, nemmeno i social network che ci hanno profilato per bene, qui tutti conducono vite splendide salvo che in un banale colloquio de visu facciano capire di essere frustrati e depressi, ora ci si mette pure l’intelligenza artificiale.
Nessuno ha nulla da dire sulle brave persone e sulle buone associazioni, società e quanto altro goda di reputazione indiscutibilmente ottima, il problema semmai lo abbiamo quando si verifica il contrario o quando vi sono diciamo “nuove”, per non dire di peggio, attività che non hanno uno storico e che, con l’ovvio aiuto dei più capaci del settore, si costruiscono proprio l’aspetto dei “migliori” e tendono a generare pure, come primo corollario, una buona reputazione. Serve specificare lo scopo di tale non-nobile attività? La risposta è vendere, non per la bontà del prodotto o servizio che offrono ma per il contorno che gli hanno costruito attorno. Siamo, non c’è dubbio, alle soglie della mistificazione.
Non ci abbassiamo ai giudizi che troviamo in rete sui concorrenti, quelli per cui se la recensione è buona l’ha fatta il diretto interessato, se pessima è frutto dell’operato del concorrente, con buona pace di noi fruitori, che vorremmo credere -beata ingenuità- a quello che leggiamo. Un sano dubbio non può non venirci, esattamente come quando vediamo persone troppo eleganti o con automobili sfacciatamente lussuose. Non sarà che si vuole nascondere l’esatto contrario? Che l’abito faccia il monaco non c’è più bisogno di dirlo da tempo, ora chiediamo a gran voce il diritto di dubitare su ogni cosa ci venga detta e soprattutto chiesta da chiunque, indossi un saio o meno. È solo un’immagine ma deve essere chiaro il senso dello staccare la reputazione dall’oggetto della propria valenza, se non fosse cacofonico per non indicare ripetitivo, potremmo suggerire proprio la separazione tra la reputazione in senso lato ed il valore da dare a questa. In altri termini avere una reputazione -alta o bassa che sia- da chi non ne ha proprio è ben diverso dall’averla attribuita -ancora una volta che sia di valore oppure di disvalore- da chi vale!
Il problema è proprio questo, come sempre. Chi stabilisce il valore, ad esempio, di un’opera d’arte? Facile rispondere i più quotati critici d’arte, però li abbiamo visti spesso in combutta, difficile credere disinteressata, proprio per aumentare il valore di opere discutibili, molte volte risultate fasulle. Non si va certo ad un tanto al chilo, così la reputazione.
Spesso avvengono pure trasferimenti di significato con risultati quasi sempre tangibili, ma a volte perfino risibili, in altri casi tragici. L’amicone che offre a tutti, la barzelletta sempre pronta ma anche regali a Natale e via dicendo aumentano il valore percepito ma non dovrebbe essere il contrario? Il fatto che l’idraulico sia espansivo -di bibite e parole- non ne aumenta le capacità tecniche e nemmeno la correttezza, sbaglio? Eppure il mondo va così, ecco quindi regalie e ruffianaggini, che definire omaggi sarebbe un errore, li pagheremo cari.
La reputazione che conoscevamo ha inoltre ricevuto un buon numero di batoste nel periodo più recente. In ordine sparso potremmo elencare l’affidabilità meccanica delle automobili tedesche, messa a dura prova dall’elettronica o, nello stesso campo, che dire di chi si fida solo di un marchio quando questo monta motori di un altro? Della storicità vogliamo parlare? Fino a poco tempo fa non ritenevamo nemmeno concepibile l’acquisto di automobili prodotte da aziende che non avessero un passato più o meno glorioso ma in ogni caso duraturo, perché ciò era garanzia di affidabilità, il massimo in termini di reputazione nello specifico caso. Oggi il più noto produttore di auto elettriche non viene certo contestato per il suo essere poco più che maggiorenne né sembra che verrà effettuata alcuna resistenza nei confronti di aziende dagli occhi a mandorla, di cui ignoriamo tutto, perfino la provenienza (la Cina è un continente), ma di cui siamo prossimi a riempirci di prodotti, perfino automobili prestigiose e pretenziose pensate, costruite e fornite da chi fino a ieri faceva altrettanto con i monopattini elettrici, che molti ritengono essere niente di più che semplici giocattoli per bambini mal cresciuti!
La storicità è venuta meno pure con il continuo cambiare casacca delle auto e motoconcessionarie. Che ne è stato di chi per un secolo ha venduto e fornito assistenza ad un solo marchio, di cui evidentemente conosceva a perfezione vita, morte e miracoli di tutti i modelli, compresi quelli non più in produzione, e che ora trasla da un logo all’altro come fosse il cambio della biancheria? Ma perfino le aziende, e anche i gruppi musicali, evidentemente non formati da artisti ma da imprenditori, sono soggetti a dispute di ogni tipo, al punto che c’è chi rileva un marchio storico e lo ripropone sul mercato, dando la propria interpretazione del prodotto, che potrebbe -ma anche no- essere in continuità con la storia dell’azienda in questione.
Sicuramente rivedere i loghi del passato su prodotti del presente scuote gli appassionati, meno se il prodotto davvero nulla ha a che fare con quanto produceva in origine la ditta. Anche in questo caso la storia viene ridotta ad un repertorio di immagini, buone per ogni occasione. Altro aspetto è naturalmente legato all’apparire, lo abbiamo già accennato. Siti seri e ben fatti trasferiscono sui propri titolari un’aura che non può non aumentarne la reputazione.
Non volendoci far mancare nulla non mancano neppure gli esperti di marketing che si propongono di aumentare l’autorevolezza di chiunque, e quindi la relativa reputazione, allo scopo assai poco culturale di far soldi. In teoria il vantaggio economico dovrebbe riguardare entrambi, spesso però chi paga non ottiene il risultato sperato. L’operazione passa, ad esempio, dalla scrittura di un libro, che faccia di noi, che evidentemente non lo siamo, i massimi esperti in materia. Ma se non sappiamo stendere nemmeno un riassuntino? Il problema non sussiste. Chi ha detto, infatti, che il testo debba essere scritto dall’autore? Come potrebbero campare i ghostwriter se tutti scrivessimo i nostri brani? Ma non ci dimentichiamo dell’intelligenza artificiale, ovviamente capace di predisporre qualsiasi testo in pochissimo tempo.
Le domande però sono a questo punto inevitabili ed ineluttabili. La prima è: che autorevolezza e/o reputazione può avere chi “firma” questi testi, considerato pure che chi abbia usato l’intelligenza artificiale per più di una semplice e banale ricerca si è sicuramente accorto della quantità di errori commessi, spesso anche molto gravi, tanto che gli addetti ai lavori le chiamano allucinazioni? Sia chiaro che non è un fatto culturale. Non bastasse, le tipografie sono diventate case editrici per sfruttare l’onda di sedicenti autori che hanno un insopprimibile bisogno di sapersi pubblicati ad ogni costo, come se il mondo si fermasse in assenza del loro fondamentale romanzo o saggio, per cui non vi è alternativa al versare importi cospicui per stampare queste opere di cui l’umanità non può fare a meno!
Si tratta, infatti, di un progetto economico, figlio di un vero e proprio business plan: conviene investire alcune decine di migliaia di euro, quindi non proprio monete, per farsi notare ed acquisire incarichi o commesse prestigiose, che restituiranno lo speso, divenuto investimento, con gli interessi. Nella migliore delle ipotesi potrebbe addirittura avere inizio un percorso per cui ai primi incassi potrebbero far seguito altri, quindi dando la stura ad un circolo virtuoso, e, di fatto, aver riposizionato sul mercato noi e gli altri clienti di questi “reputatori”.
Non c’è tempo, ma nemmeno spazio, per affrontare il tema della differenza di parere, e quindi della reputazione che ne consegue, a seconda delle diverse fazioni cui si appartiene o si ritiene di proprio riferimento. Basta, qui e ora, sottolineare come, spessissimo ed in tantissimi campi, il massimo per una parte corrisponda al minimo per l’altra, il che banalmente significa che la reputazione non è più solo una, costringendoci a togliere l’articolo determinativo e ponendoci il problema della scelta della valutazione cui dare valore. Personalmente non considero il conformismo ma ognuno faccia come crede!
Sicuramente il vedere il processo che porta alla reputazione non dall’inizio, come siamo abituati e sembrerebbe logico fare, ma dalla fine cambia, di molto, la valutazione della cosa. Innegabile che la reputazione, quanto meno a parere di chi scrive, ne esca ridimensionata, chi non lo fa rischia di restare indietro, scavalcato da pletore di monaci non praticanti.












