Mi ero già occupato di Napoleone nel mio articolo su Balzac a Vienna1, ora lo faccio di nuovo, in relazione ad un luogo del nostro Paese che ebbe un ruolo importante nella sua vita: Villa Manin, a Passariano (Udine).
Ma prima di descriverlo, qualche premessa generale sul rapporto fra Napoleone e l‘Italia.
Napoleone è indubbiamente italiano. I Buonaparte, appartenenti, pare, nel Medioevo alla piccola nobiltà di Treviso, si erano poi spostati a Bologna, indi in Toscana e infine in Corsica quand’era sotto dominio genovese. E anche la madre di Napoleone, Letizia Ramorino, aveva ascendenze lombarde. Dell’italiano-tipo Napoleone aveva molti tratti: pragmatico, cinico e opportunista, ma anche geniale, dotato di spirito artistico e con un ottimo senso dell’umorismo. E si riteneva degno erede dei condottieri romani e dei capitani di ventura del Rinascimento.
Ma che cosa piaceva a Napoleone dell'Italia, al di là delle sue ricchezze artistiche e della bellezza dei luoghi? Probabilmente nulla: nemmeno il suo nome che da Napolione Buonaparte francesizzò in Napoléon Bonaparte. Non certo gli italiani, anche se doveva dirsi tale per nascita: li definiva ladri, ignavi, profittatori, un popolo «molle, superstizioso, pantalone e vile». D’altronde non amava neanche i francesi, che opprimevano la sua Corsica e l’avevano bullizzato per il suo accento quand’era allievo dell’accademia militare di Brienne. Come giustamente notò François René de Chateaubriand Napoleone fu “uno straniero venuto a fare della Francia lo strumento della sua ambizione”.
In generale, se si esclude un attaccamento campanilistico alla sua isola e al suo clan familiare, Napoleone non si sentì mai veramente legato a nulla e a nessuno, troppo preso dalla sua ossessione di ricostruire dapprima l’impero carolingio, più tardi quello romano e infine un impero che la sua fantasia e la sua sconfinata ambizione sognavano universale, sull’esempio di Alessandro Magno.
Nel marzo 1796, entrando in armi nel nostro Paese, il generale Napoleone Bonaparte si presenta portatore dei principi di una rivoluzione a cui non crede, però utilissimi per apparire il redentore dei popoli oppressi. Varca i confini in un turbine di promesse, trionfa, arriva a Milano, valica il confine della Serenissima nonostante la neutralità dichiarata da Venezia e arriva a Bergamo, a Brescia, a Verona.
Bonaparte, accolto con entusiasmo dalla minoranza dei giacobini filo-francesi locali (i “progressisti” dell’epoca, una borghesia liberaleggiante ansiosa di superare l'immobilismo aristocratico), trova un popolo assente od ostile. In particolare cresce l'ostilità dei contadini, sia per le razzie dei soldati, che per l'atteggiamento dissacratore che ferisce la fede tradizionale della gente di campagna.
Il prezzo da pagare all’invasore fu inoltre una spaventosa spoliazione di opere d'arte, requisizioni violente, autentici furti di un patrimonio artistico che sottrassero all’Italia molti capolavori. Il Louvre risplende delle opere d'arte requisite in Italia: Tintoretto, Paolo Veronese, Guido Reni, Raffaello... Persino i cavalli bronzei di San Marco. Il Generale ha una particolare passione per le opere d'arte, al punto da pretendere che la loro requisizione venga inserita nei trattati che sanciscono armistizi e pacificazioni.
E non si contarono le fucilazioni e le carcerazioni di chi si ribellava alla libertà imposta dai francesi a cannonate. Insomma, quel geniale stratega, che in nome della Rivoluzione e della nascente Repubblica avrebbe dovuto liberare la penisola dal dominio straniero, si rivelò in realtà un crudele e spietato conquistatore, un vero «flagello» per l'Italia.
Ma veniamo ora al luogo che ho menzionato all’inizio dell’articolo.
Villa Manin di Passariano
Al termine della prima campagna d'Italia, questo magnifico edificio fu sede del quartier generale di Napoleone, il quale proprio in uno dei suoi saloni volle fosse sancita quella pace di Campoformio che segnò la fine della Repubblica di Venezia.
Villa Manin si trova a Passariano di Codroipo, in provincia di Udine, nel basso Friuli, terra fertile e poco popolata al confine col Veneto, dalle grandi estensioni agricole inframezzate a boschetti e canali e con le Dolomiti azzurre sullo sfondo, che nei giorni tersi sembrano potersi toccare con mano.
Villa Manin, edificata nel 1650, era la dimora in cui il centoventesimo e ultimo doge di Venezia, Ludovico Manin, era solito trascorrere i mesi estivi, la goldoniana villeggiatura. Fa quindi parte delle ville venete, raffinate dimore che uniscono diverse funzioni: quella di produzione agricola, di residenza di villeggiatura dell’aristocrazia veneziana, di luogo ameno dove coltivare i rinascimentali otii umanistico-letterari.
Eletta, come si è detto, da Napoleone Bonaparte a suo quartier generale al termine della campagna d’Italia, fu poi danneggiata durante la Prima Guerra Mondiale e abbandonata, fino a che un restauro negli anni Cinquanta non le restituì almeno parte dell'antico splendore. Oggi appartiene alla Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, ed è sede di importanti esposizioni d’arte (ne ricordo una, splendida, dedicata una decina di anni fa ai grandi artisti friulani Mirko e Afro Basaldella).
L'edificio principale, a tre piani, coronato da attico decorato di statue, è fiancheggiato da due lunghe barchesse perpendicolari pure ornate da statue, che racchiudono un ampio prato limitato sul davanti da due peschiere; di fronte è un'ampia esedra porticata a ferro di cavallo, diretto proseguimento delle barchesse, che chiude un vasto spiazzo erboso e costituisce un tutto armonico con la villa. Si possono anche visitare il vasto parco, la cappella e l'annessa sagrestia, la scuderia, che raccoglie carrozze e vetture d’epoca e un’armeria. All’interno, il salone delle feste, la sala Manin (con cimeli del casato) e la camera di Napoleone.
Sono stato molte volte a Villa Manin, che sorge a una manciata di chilometri da Bibione, dove passo le vacanze estive da trent’anni. Ricordo che in una delle mie prime visite dissi a mia figlia, che all’epoca aveva quattro anni: “Guarda Carletta, in questo letto Napoleone ha dormito per tre mesi” e lei, sgranando gli occhioni, “senza mai svegliarsi?” (conoscendo lo spiccato senso ironico di mia figlia non sono sicuro che la sua fosse una domanda innocente…).
Ma tralascio gli aneddoti personali e passo ad occuparmi dell’avvenimento più importante nella storia della villa, la negoziazione e la firma del trattato di Campoformio.
Il trattato di Campoformio
Venezia aveva scelto la via della neutralità disarmata, ma l’Austria desiderava da secoli impossessarsi della città e dei suoi dominii, al fine di estendere il suo controllo sul Mare Adriatico. Napoleone voleva concludere una pace con gli Asburgo e tornare in Francia come vincitore, per sua ambizione personale; aveva pieni poteri e quindi disponeva dell’autorità che gli permise di cedere Venezia all’Austria, senza che il Direttorio di Parigi potesse rigettare un simile accordo. La Francia, dal canto suo, in quel frangente storico, aveva un interesse relativo per Venezia e riteneva più vantaggioso ottenere il Belgio e i territori tedeschi sulla riva sinistra del Reno.
Fu così che si giunse all’accordo con il quale Napoleone Bonaparte, violando il principio del rispetto dei popoli cedeva il Veneto, che non gli apparteneva, all’Austria ottenendo in cambio la Lombardia e sancendo la fine della gloriosa (anche se decrepita) Serenissima.
Non fu cosa facile arrivare alla pace di Campoformio, tanto che le firme al trattato furono apposte da Bonaparte e dal plenipotenziario dell'imperatore d'Austria, il conte di Cobenzl, all'una, nella notte del 18 ottobre del 1797. L'evento fu annunciato con una lunga teoria di colpi di cannone che spaventarono la pacifica popolazione dell’Udinese.
Le trattative si erano svolte nella villa Manin che Bonaparte aveva eletto a sua residenza e dalla quale non volle muoversi, innamoratosi degli alti pioppi nudi che circondavano la residenza e del roco grido dei corvi (fra l’altro, la moglie Giuseppina Beauharnais l'aveva raggiunto da Parigi, e si dilettava fra balli e cacce).
La pace prese però il nome di quel villaggio del Friuli, Campoformio (oggi Campoformido), dove erano alloggiati i plenipotenziari austriaci, i quali pretesero che il trattato si chiamasse così. Campoformio inoltre si trovava esattamente a metà strada fra Passariano, dov'era acquartierato il comandante dell'Armata d'Italia, e Udine dove aveva sede il comando austriaco.
La delusione fra i giacobini italiani per il trattato fu cocente, si parlò di mercimonio e d'ideali traditi, di un esercito della rivoluzione che aveva prodotto risultati del tutto simili a quelli delle guerre dinastiche del passato. L'accordo con l'Austria a spese di Venezia sembrò a molti un ritorno in forze della politica di potenza a tutto danno della guerra rivoluzionaria e parve un durissimo colpo inferto alle speranze dei patrioti italiani. Si ricordino al riguardo le amare parole di Ugo Foscolo circa il tradimento della patria.
Per finire, un altro episodio legato a Villa Manin. Canova, che Napoleone volle come uno dei suoi maggiori ritrattisti ufficiali, si dice abbia avuto nei confronti del genio corso un moto di stizza, seguito da una battuta che merita di passare alla storia. Non è certo che l'episodio sia realmente accaduto a Passariano come è stato tramandato, e se sia stato davvero Canova a esserne il protagonista.
La conversazione a Villa Manin riguardava l'Italia, i suoi combattenti, i suoi civili, le sue abitudini, il suo carattere. Presenti Berthier, capo di stato maggiore; Gioacchino Murat, non ancora cognato del futuro imperatore dei francesi; e i valorosi generali Masséna, Augereau e Laharpe. Presenti anche numerosi gentiluomini dei territori appena conquistati e Canova. Napoleone si lascia scappare un apprezzamento tutt'altro che gentile nei loro confronti: «Gli italiani sono tutti ladri».
Si vuole che Antonio Canova abbia replicato: «Generale, tutti no, ma buona parte sì…».
Conclusione
Ribadisco quel che ho detto all’inizio di quell'autentico genio della guerra e del cinismo che fu Napoleone, il conquistatore che si fa passare per liberatore, illude gli italiani di scioglierli dalle antiche catene però compie ruberie e saccheggi e rimane indifferente di fronte ai primi fremiti di indipendentismo, preludio del Risorgimento.
Però, per non deludere gli ammiratori di Napoleone che sicuramente non mancano fra i miei lettori, devo riconoscere che anche in Italia, come in tutti i paesi dove impone il suo dominio, Napoleone istituisce i fondamenti dello Stato e della società moderni. Oltre allo svecchiamento - da lui determinato – della società attraverso i codici (primi tra tutti il codice civile e quello del commercio), non si può negare che la stagione napoleonica abbia molto favorito la formazione dell'idea nazionale nella penisola.
Sperando di non aver tediato il lettore coi miei excursus storici, mi riprometto, in un prossimo articolo, di parlare di un altro luogo italiano legato a Napoleone: Portoferraio, all’isola d’Elba.
Note
1 Vedi l’articolo su Meer edizione italiana del 28 agosto 2024: Balzac a Vienna. Sulle tracce di Napoleone nella battaglia di Aspern-Essling.