Il recente scontro tra Israele, gli Stati Uniti e le Nazioni Unite ruota attorno alla figura di Francesca Albanese1, giurista italiana e relatrice speciale dell’ONU dal 2022 per i diritti umani nei territori palestinesi occupati.
Nel rapporto pubblicato il 5 luglio 2025, Albanese accusa Israele di condurre una campagna genocida contro il popolo palestinese, sostenuta da una rete globale di aziende e istituzioni finanziarie. Tra le imprese citate figurano nomi noti come Google, Amazon, Microsoft, Lockheed Martin, Caterpillar, Barclays, BNP Paribas.
Il documento, intitolato Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, è stato presentato ufficialmente il 3 luglio 2025 durante una conferenza stampa dell’ONU a Ginevra, ma la sua redazione risale alla fine del 2024, come indicato nel codice del documento ONU A/79/384 (dove “79” si riferisce alla 79ª sessione dell’Assemblea Generale, iniziata nel 2024).
Il rapporto ha suscitato un vero e proprio vespaio a livello mondiale, creando forti tensioni tra gli Stati Uniti e gran parte della comunità internazionale — fatta eccezione per Israele.
Da quanto si evince dai media e, soprattutto, dai commenti che ne sono seguiti, emergono seri dubbi sul fatto che molti non abbiano effettivamente letto il contenuto integrale del rapporto e del relativo allegato. Per questo motivo, lo scrivente ha ritenuto doveroso leggere con attenzione l’intero testo, disponibile nella versione ufficiale delle Nazioni Unite (in inglese)2, ma anche in traduzioni non ufficiali, come quella in italiano3. Il rapporto è corredato da centinaia di riferimenti bibliografici, che ne rafforzano la solidità argomentativa e documentale.
Il documento denuncia l’evoluzione dell’occupazione israeliana da colonizzazione razziale a forma estrema di oppressione: il genocidio. Viene evidenziata la trasformazione del dominio economico in un programma sistematico di pulizia etnica, sostenuto — e spesso lucrato — da decine di imprese globali4.
Basandosi su fonti delle Nazioni Unite, database ufficiali (come quello dell’OHCHR), e contributi di esperti civili e giuridici, il rapporto ricostruisce con rigore le responsabilità aziendali, facendo riferimento ai Principi guida ONU su imprese e diritti umani. Richiama inoltre precedenti storici significativi, come i processi post-Olocausto e i meccanismi della Commissione per la Verità e la Riconciliazione sudafricana 5.
Una sintesi del “Rapporto Albanese”
Economia dell’occupazione e deriva genocidaria
Il rapporto delle Nazioni Unite denuncia un sistema economico-criminale fondato da Israele e sostenuto da un’ampia rete di imprese, fondi, istituzioni e Stati. Basato su oltre 200 segnalazioni e più di 300 note e riferimenti giuridici, il documento è stato presentato oltre la scadenza prevista, per includere dati aggiornati e urgenti relativi agli eventi successivi all’ottobre 20236.
Il rapporto illustra come aziende occidentali e israeliane abbiano facilitato la distruzione delle comunità palestinesi e la loro sostituzione con insediamenti. L’economia dell’occupazione si è evoluta in economia del genocidio, dove la violenza è resa sistematica e redditizia.
Da ingegnere e da cittadino, ho sempre creduto che l’economia dovesse servire l’uomo. Ma qui assistiamo a un rovesciamento morale inquietante: il rapporto descrive una “economia del genocidio” in cui imprese private, fondi d’investimento, banche e università traggono profitto dallo sterminio di un popolo. Tra i nomi citati: BlackRock, AXA, HP, Caterpillar, Airbnb, Google, Microsoft. Questo modello riprende la logica coloniale classica – sfruttamento e repressione – portandola all’estremo, con tecnologie avanzate e un marketing ipocrita.
La militarizzazione
Elbit Systems, IAI, Lockheed Martin e Leonardo figurano tra i principali fornitori di armamenti, droni e tecnologia militare utilizzati nelle operazioni a Gaza. Il rapporto denuncia l’uso di questi strumenti per rendere il territorio palestinese “inhabitable”, ossia invivibile, impedendo il ritorno dei civili.
Il business dell’eliminazione: trasferimento forzato e settore militare
Colpisce profondamente l’analisi del “trasferimento forzato”, presentato come elemento strutturale della strategia israeliana. Non si tratta di mere conseguenze collaterali della guerra, ma di un progetto consapevole: oltre 1,9 milioni di persone – circa l’85% della popolazione di Gaza – sono state costrette ad abbandonare le proprie case, spesso bombardate dopo la fuga.
Le bombe hanno colpito scuole, ospedali, università, moschee, chiese, archivi culturali. L’obiettivo non è solo uccidere, ma cancellare l’identità collettiva palestinese.
Questo processo è sostenuto da un settore militare-industriale che trasforma il genocidio in una vetrina commerciale: le nuove armi e i software di riconoscimento facciale sono testati su Gaza e poi venduti nel mondo come tecnologie “combat-proven” (testate in combattimento).
Dopo la distruzione, la colonizzazione
Ancora più cinico è quanto accade dopo i bombardamenti: le colonie illegali si espandono, le terre devastate vengono dichiarate “abbandonate” e vi si costruiscono nuovi insediamenti esclusivamente per ebrei israeliani, negando ogni possibilità di ritorno ai legittimi proprietari palestinesi.
In Cisgiordania, nel solo 2023, si è registrato un aumento del 45% delle attività coloniali: è la pulizia etnica realizzata con strumenti burocratici, edilizi ed economici.
Sorveglianza, commercio, energia, tecnologia
Il rapporto analizza il ruolo di Microsoft, Google, Amazon e IBM, che hanno fornito infrastrutture cloud (Project Nimbus) e sistemi di sorveglianza AI per il controllo di massa.
Aziende di macchinari pesanti come Caterpillar, HD Hyundai e Volvo sono indicate per la demolizione di case e infrastrutture palestinesi. Fornitori energetici globali — Chevron, BP, Glencore — sono coinvolti nel mantenere l’assedio energetico, generando sofferenze diffuse7.
Il controllo sulle risorse naturali: un’arma per la distruzione pianificata
Tra i passaggi più sconvolgenti vi è l’analisi del controllo israeliano su acqua, energia e terreni fertili. A partire dall’ottobre 2023, Israele ha intensificato il controllo su Gaza e Cisgiordania, trasformando l’accesso alle risorse vitali — acqua, elettricità, carburante e cibo — in strumenti di oppressione sistematica, considerati da più fonti internazionali come mezzi di genocidio.
-Acqua. Israele obbliga i palestinesi ad acquistare acqua a costi elevati da fornitori israeliani, con forniture instabili. A Gaza, dove l’acqua locale è quasi completamente inquinata, la compagnia Mekorot ha ridotto drasticamente l’erogazione. Nel dicembre 2023, la disponibilità idrica è scesa a 0,5 litri al giorno per persona, ben al di sotto della soglia minima di sopravvivenza fissata dall’OMS.
Elettricità e carburante. Il sistema energetico israeliano, sostenuto da Drummond, Glencore, Chevron, BP, alimenta sia l’economia civile che l’apparato militare. Dopo ottobre 2023, i tagli all’energia a Gaza hanno compromesso pompe idriche, ospedali, impianti di desalinizzazione, causando epidemie, carestie e collasso dei servizi essenziali.
Agroalimentare. L’agricoltura israeliana si espande su terre confiscate, spesso tramite kibbutzim e insediamenti. Aziende come Tnuva (lattiero-casearia) e Netafim (irrigazione) rafforzano il dominio coloniale, promuovendo un sistema che garantisce sicurezza alimentare agli israeliani e insicurezza e carestia ai palestinesi. Il tutto sotto una patina di “sostenibilità”.
Finanza, agribusiness, turismo
BlackRock, Vanguard, Allianz PIMCO, BNP Paribas, Barclays e fondi sovrani (Norvegia, Québec) hanno finanziato il debito dello Stato israeliano e di aziende legate all’occupazione.
Tnuva e Netafim figurano per l’espropriazione agricola; Airbnb, Booking.com e catene globali di supermercati traggono profitto dalle colonie, riducendo i palestinesi a consumatori subalterni.
Restrizioni draconiane – al commercio e agli investimenti, alla piantagione di alberi, alla pesca e all’acqua per le colonie – hanno debilitato l’agricoltura e l’industria, e trasformato i Territori palestinesi occupati in un mercato prigioniero; le aziende hanno tratto profitto sfruttando la manodopera e le risorse palestinesi, degradando e deviando le risorse naturali, costruendo e alimentando le colonie e commercializzando beni e servizi derivati in Israele, nei Territori occupati e a livello globale.
Le piattaforme turistiche Booking.com e Airbnb continuano a promuovere alloggi nelle colonie illegali, legittimando l’occupazione e escludendo i palestinesi. Nonostante siano iscritte nel database ONU delle imprese coinvolte, continuano ad espandere la loro presenza. Airbnb, dopo un breve ritiro, ha ripreso le attività, giustificandole con presunte iniziative umanitarie.
Università, ricerca e legittimazione ideologica
Università israeliane e occidentali — MIT, TUM, Università di Edimburgo, tra le altre — collaborano con IMOD, Elbit, IBM, trasformando la ricerca accademica in supporto diretto alla repressione. Queste collaborazioni sono finanziate da fondi europei (Horizon Europe) e dotazioni universitarie investite in aziende tecnologiche coinvolte in crimini.
Conclusioni e raccomandazioni del Rapporto
Il rapporto sostiene che il genocidio continua perché è economicamente vantaggioso.
Invoca:
l’adozione di sanzioni mirate,
un embargo totale sulle armi,
la cessazione immediata dei legami economici con aziende e istituzioni coinvolte,
l’obbligo di responsabilità legale per gli esecutivi aziendali,
e riparazioni sul modello post-apartheid8 .
Chiede a società civili, Stati e cittadini di attivarsi con boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni legali (fonte: Al Jazeera).
In sintesi:
il rapporto articola un sistema unitario: colonizzazione → sfruttamento → genocidio;
evidenzia responsabilità aziendali, finanziarie e istituzionali globali;
si fonda su una documentazione vastissima, aggiornata alla fine di giugno 2025;
propone un quadro d’azione politico e giuridico vincolante e urgente.
Principali critiche mosse al “Rapporto Albanese”
Sugli Accordi di Oslo
Quando si parla di inadempienze tra Israele e Palestina, si citano prioritariamente gli Accordi di Oslo, perché rappresentano il punto di svolta più strutturato e formalizzato del processo di pace israelo-palestinese moderno.
Nel rapporto Albanese viene criticato il seguente passaggio:
“Gli Accordi di Oslo del 1993 hanno rafforzato questo sfruttamento, istituzionalizzando di fatto il monopolio di Israele sul 61% della Cisgiordania (Area C), ricca di risorse. Israele guadagna da questo sfruttamento, mentre all’economia palestinese costa almeno il 35% del suo PIL.”
Questa affermazione, per quanto dura, corrisponde ai fatti. Gli Accordi di Oslo del 1995 avrebbero dovuto avviare un processo graduale verso la creazione di uno Stato palestinese. Tuttavia, hanno anche formalizzato la suddivisione della Cisgiordania in tre aree (A, B e C), ciascuna con diversi livelli di controllo da parte israeliana e palestinese.
Area A: circa il 18% della Cisgiordania, sotto pieno controllo palestinese (sia civile che di sicurezza). In teoria, le forze israeliane non dovrebbero entrare, ma in pratica vi operano spesso per motivi di “sicurezza”.
Area B: circa il 22%, con amministrazione civile affidata all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e controllo condiviso della sicurezza, dove però Israele mantiene l’autorità finale su tutte le questioni di sicurezza.
Area C: circa il 60%, sotto completo controllo israeliano, sia civile che militare. In questa zona si concentrano la maggior parte delle colonie israeliane, strade strategiche, barriere di sicurezza, aree agricole e ricche di risorse naturali. Vi vivono circa 300.000 palestinesi, spesso privi di servizi pubblici essenziali e con forti restrizioni nella concessione di permessi edilizi.
Secondo gli Accordi, quest’area avrebbe dovuto gradualmente passare sotto il controllo palestinese. Ma ciò non è mai avvenuto. L’Area C è oggi considerata strategica da Israele e rappresenta il fulcro del conflitto territoriale. Per i palestinesi è invece cruciale per garantire la continuità territoriale di un futuro Stato. Le limitazioni imposte — tra cui demolizioni di abitazioni, divieti di costruzione, mancanza di infrastrutture — sono denunciate da ONU e ONG internazionali come gravi ostacoli allo sviluppo.
La suddivisione A-B-C, concepita come misura transitoria per soli cinque anni, è rimasta immutata da oltre 25 anni. Si è cristallizzata in una struttura permanente di disuguaglianza e frammentazione territoriale, oggi riconosciuta come uno dei principali ostacoli pratici alla nascita di uno Stato palestinese.
Il silenzio sul 7 ottobre: una scelta di giustizia
Nel rapporto del 5 luglio 2025, Francesca Albanese compie una scelta tanto audace quanto necessaria: non menziona il 7 ottobre, l’evento che ha dominato la narrazione mediatica e politica del conflitto israelo-palestinese. Questa omissione non è una dimenticanza, bensì un atto di rigore giuridico e morale.
Inserire il 7 ottobre nel contesto del rapporto avrebbe rischiato di presentare il genocidio come una “reazione”, attenuandone la gravità con una logica di causa-effetto. Albanese, invece, isola il crimine, lo analizza nella sua autonomia e lo denuncia come espressione di una politica strutturale, non come risposta a un evento specifico. In questo modo, il rapporto si sottrae alla retorica della simmetria e afferma con fermezza che nessun atto di violenza può giustificare lo sterminio di un popolo.
È una scelta che restituisce dignità alla giustizia e rompe il ciclo della complicità narrativa.
Albanese ha comunque dichiarato pubblicamente:
Nessun crimine giustifica mai un altro crimine. Non esiste alcuna giustificazione per i terribili attacchi del 7 ottobre.
E ha aggiunto, citando il Segretario Generale dell’ONU:
56 anni di soffocante occupazione sono proprio il contesto che alimenta l’odio e la violenza che mettono in pericolo sia israeliani che palestinesi. Questo contesto è oscurato dalla definizione del 7 ottobre come motivata principalmente dall’antisemitismo9.
Critica al linguaggio del rapporto
Alcuni detrattori contestano al rapporto un linguaggio eccessivamente ideologico, militante e poco conforme al tono tecnico-giuridico previsto dal mandato ONU. Si criticano in particolare espressioni come “apartheid”, “economia del genocidio”, “razzismo sistemico” e “Stati globali di minoranza”.
Tuttavia, queste formulazioni riflettono la cruda realtà documentata da decenni di analisi internazionali, comprese precedenti relazioni dell’ONU, pareri di ONG indipendenti e testimonianze dirette. Non sono dunque espressioni ideologiche, ma descrittori coerenti con una documentazione ampia e solida.
Albanese ha scritto sui territori occupati senza accedervi
Francesca Albanese è Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1º maggio 2022, con un mandato triennale. Tale incarico prevede l’investigazione delle violazioni, visite sul campo e la redazione di rapporti periodici.
Tuttavia, Israele ha sistematicamente impedito l’accesso ai territori occupati, negandole il visto d’ingresso. Dal 12 febbraio 2024, ha formalizzato un vero e proprio divieto.
Secondo Albanese, tale decisione è collegata ai commenti da lei espressi sul contesto in cui sono avvenuti gli attacchi del 7 ottobre, in risposta alla definizione data dal presidente francese degli eventi come “il più grande massacro antisemita del nostro secolo”.
Questa censura non rappresenta un’eccezione: già nel 2008, con la detenzione e deportazione dell’allora relatore speciale Richard Falk, Israele ha interrotto ogni collaborazione con i relatori ONU per i diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 196710.
In mancanza di accesso diretto, Albanese ha condotto le proprie indagini tramite missioni indirette: a dicembre 2022 ha raccolto testimonianze in Giordania e attraverso strumenti digitali, come interviste online e fonti documentali.
Va precisato che, secondo le regole delle Nazioni Unite, i relatori speciali non necessitano di accesso fisico ai territori per redigere un rapporto. Altri relatori in contesti di guerra o regimi chiusi (come Myanmar, Siria, Corea del Nord) hanno operato in condizioni simili, raccogliendo prove da ONG, documenti ufficiali, testimonianze, immagini satellitari e altri mezzi alternativi11.
Il rapporto redatto da Albanese è stato ufficialmente accettato e discusso dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, pur nella consapevolezza che le raccomandazioni dei relatori non sono vincolanti per gli Stati membri. Essi possono adottarle, ignorarle o respingerle.
Israele ha contestato politicamente il rapporto, sostenendo che, non essendo basato su una visita diretta, sarebbe “parziale” o fondato su fonti selettive. Si tratta, però, di un argomento politico, non giuridico. In sintesi, il rapporto ha piena validità e legittimità all’interno del sistema delle Nazioni Unite. Può essere discusso, criticato o rigettato sul piano politico, ma non può essere invalidato formalmente.
Azioni e proposte fortemente criticabili
Le sanzioni imposte a Francesca Albanese
Il 10 luglio 2025 gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati, accusandola di aver collaborato con la Corte Penale Internazionale nel tentativo di perseguire cittadini statunitensi e israeliani per presunti crimini di guerra a Gaza.
L’azione ha suscitato una dura condanna da parte dell’ONU. Alti funzionari delle Nazioni Unite, tra cui l’Alto Commissario per i diritti umani Volker Türk e il Presidente del Consiglio per i diritti umani Jürg Lauber, hanno chiesto con fermezza la revoca immediata delle sanzioni, definendole un precedente pericoloso che mina l’indipendenza degli esperti e l’integrità del sistema internazionale per la tutela dei diritti umani.
Come ha ricordato Türk, colpire con sanzioni un esperto ONU per l’esercizio del suo mandato rappresenta una grave violazione del principio di autonomia e imparzialità che regola il lavoro degli incaricati speciali.
Tali misure si configurano come un atto intimidatorio volto a dissuadere qualsiasi indagine indipendente su gravi violazioni del diritto internazionale, specialmente quando queste coinvolgono potenze occidentali o loro alleati 12.
La proposta del Nobel per la pace a Donald Trump
In un contesto già segnato da stragi e devastazioni, la proposta avanzata dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu di conferire il Premio Nobel per la Pace a Donald Trump ha suscitato reazioni sconcertate, se non indignate, in numerosi ambienti politici e dell’opinione pubblica internazionale.
Se anche qualcuno volesse derubricare la dichiarazione a una semplice battuta, essa risulterebbe comunque di pessimo gusto, specialmente considerando il ruolo attivo di entrambi i leader nel sostenere operazioni che hanno causato migliaia di vittime civili palestinesi. In ogni caso, l’effetto prodotto è stato tutt’altro che ironico o distensivo: la proposta è apparsa strumentale e provocatoria, volta verosimilmente a rafforzare il legame personale con l’unico grande alleato su cui Netanyahu può ancora contare, proprio mentre si trova sotto accusa internazionale per crimini di guerra e genocidio.
Invece di generare consenso, l’iniziativa ha finito per esasperare le critiche nei confronti di entrambi, rivelandosi un vero e proprio boomerang mediatico e politico.
Una simile proposta, in un contesto segnato da immani sofferenze umane e da una crescente domanda globale di giustizia, appare non solo fuori luogo, ma gravemente offensiva per la memoria delle vittime.
Considerazioni finali
L’ONU conferma all’unanimità l’incarico ad Albanese
Nonostante le sanzioni statunitensi, le pressioni politiche e le vergognose campagne diffamatorie contro la Relatrice Speciale, il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU ha rinnovato all’unanimità il mandato a Francesca Albanese fino al 2027.
Il rinnovo, avvenuto il 10 luglio 2025 — appena un giorno dopo la pubblicazione del Rapporto — con il sostegno formale di 47 Stati membri, è un atto di coraggio e di dignità istituzionale. È la prova che, di fronte al tentativo di soffocare la verità, le Nazioni Unite sanno ancora affermare l’indipendenza delle proprie indagini e la legittimità di chi denuncia crimini di tale portata.
Questo voto compatto ha però messo a nudo la frattura geopolitica: da un lato, la quasi totalità del Sud Globale che sostiene la ricerca della verità; dall’altro, il blocco euro-atlantico che, nel migliore dei casi, ha scelto il silenzio complice.
Il ventre molle dell’Europa
Le audizioni parlamentari europee e le dichiarazioni ufficiali dei leader dell’Unione hanno confermato una realtà amara: l’Europa dei diritti umani è oggi paralizzata dalla paura di disturbare Washington e Tel Aviv. Poche voci, isolate e coraggiose, hanno osato parlare apertamente di genocidio e di responsabilità israeliane. Il resto è rimasto intrappolato in un linguaggio diluito, in formule di facciata, in un equilibrismo ipocrita che ha coperto, di fatto, una posizione di passività colpevole.
Gli interessi economici, militari e geopolitici con Israele hanno prevalso su qualsiasi impulso di giustizia. E così, l’Europa — che ancora si vanta di essere la culla della democrazia e della memoria della Shoah — sta scrivendo una pagina che i posteri ricorderanno come un tradimento della propria stessa storia.
La complicità mediatica
Nei grandi media occidentali, il Rapporto Albanese è stato ignorato, distorto o ridotto a un pretesto per gossip politico.
Invece di aprire le prime pagine con prove documentate di crimini internazionali, si è preferito dare spazio a reazioni indignate dei governi amici di Israele, a insinuazioni sulla presunta “parzialità” della Relatrice, a distrazioni calcolate.
In un mondo iperconnesso, il silenzio non è mai neutrale: è un atto di complicità. Solo una minoranza di testate indipendenti e giornalisti liberi ha osato sfidare la censura di fatto, riportando integralmente e senza filtri ciò che il Rapporto dice. È grazie a loro se oggi, almeno in parte, la verità riesce a respirare.
Il silenzio sul 7 ottobre nel Rapporto: una scelta di giustizia
Non menzionare gli eventi del 7 ottobre 2023 non è stata una dimenticanza, ma una decisione metodologica fondata sul diritto internazionale: Il mandato di Francesca Albanese riguarda i Territori Palestinesi Occupati, e la sua indagine si concentra su gravi violazioni internazionali commesse da Israele in questi territori. Attribuire al Rapporto la colpa di “non menzionare il 7 ottobre” equivale a stravolgere la sua natura, e a chiedere a un documento giuridico di comportarsi come una dichiarazione politica.
Albanese ha sempre condannato la violenza contro i civili, ma ha ribadito una verità che la propaganda tenta di cancellare: non esiste simmetria morale tra esercito occupante e popolazione oppressa, tra colonizzatore e colonizzato.
Un messaggio agli indecisi
Questo articolo non è solo denuncia: è un avvertimento. Chi oggi si rifugia nella neutralità o nella disinformazione autoindotta deve sapere che la storia non farà sconti. Come il mondo non ha dimenticato la Shoah, così non potrà dimenticare questo genocidio trasmesso in diretta. Con una differenza terribile: questa volta l’umanità intera lo ha visto accadere in tempo reale, e la maggior parte ha scelto di restare a guardare.
Questa tragedia lascerà un’ombra morale anche su gran parte del popolo ebraico nel mondo, non per colpa di chi oggi condanna il massacro — e sono tanti — ma per il sospetto indelebile che il silenzio o l’inerzia di molti abbiano reso possibile l’orrore. Non esistono più zone grigie: o si è dalla parte della vita e della giustizia, o si è complici della morte e dell’ingiustizia.
La Palestina non è soltanto una terra martoriata: è lo specchio crudele dell’umanità, che oggi rischia di riconoscersi col volto di chi ha smesso di essere umano.
Chi oggi tace davanti alla Palestina, domani non potrà parlare di giustizia senza arrossire di vergogna: il silenzio, di fronte al genocidio, è la firma in calce alla condanna a morte di un popolo. E se il mondo non fermerà questo genocidio, non sarà solo la Palestina a morire: morirà l’idea stessa di un’umanità giusta e civile.
Note
1 Laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Pisa, master in Diritti Umani alla SOAS (School of Oriental and African Studies), Università di Londra, dottorato in diritto internazionale dei rifugiati presso l’Università di Amsterdam. Ha lavorato per oltre dieci anni con le Nazioni Unite, in particolare con l’Alto Commissariato per i Diritti Umani e l’UNRWA (l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi) ed è stata consulente senior per la ONG ARDD (Arab Renaissance for Democracy and Development) e cofondatrice della Rete Globale sulla Questione Palestinese.
2 Il report di Francesca Albanese per le Nazioni Unite: From economy of occupation to economy of genocide.
3 Il report di Francesca Albanese tradotto in italiano.
4 La notizia del report delle Nazioni Unite su Mondoweiss: News&opinion about Palestine, Israel & the United States.
5 La notizia riportata su UNWatch: Legal Analysis of Francesca Albanese’s June 2025 Report to Human Rights Council.
6 La notizia ripotata sul Human rights center - Antonio Papisca.
7 Per ulteriori notizie sul commercio, l'articolo pubblicato su NovaraMedia, concentra l'attenzione su questo particolare.
8 Le riparazioni nel modello post-apartheid del Sudafrica si riferiscono a un insieme di politiche e pratiche volte a sanare le profonde ferite causate dal regime di apartheid, attraverso giustizia riparativa, redistribuzione economica e riconciliazione sociale.
9 Affermazione riportata su La voce di New York del 15 febbraio 2024 nell'articolo: Antisemitismo e attacco del 7 ottobre: Francesca Albanese spiega la sua posizione.
10 Fonte Nazioni Unite: Gaza: La censura di Israele nei confronti di Francesca Albanese non deve distrarre da possibili crimini di guerra.
11 Per approfondire di seguito l'intervista a Francesca Albanese, di settembre 2023, su Juristnews: Interview: UN Rapporteur Francesca Albanese on the Imperative of Ending Israel’s Occupation of Palestinian Territories.
12 Per approfondire l'articolo de Il Post del 10 luglio 2025: Le sanzioni degli Stati Uniti contro la relatrice dell’ONU Francesca Albanese. Inoltre l'articolo sul sito delle Nazioni Unite sulla vicenda pubblicato l'11 luglio 2025: L’ONU chiede la revoca delle sanzioni statunitensi contro la Relatrice Speciale Francesca Albanese.