Dall’Ungheria all’Italia, passando per la Spagna e la Francia: l’Unione Europea arretra sui diritti civili mentre le destre identitarie ridisegnano il volto del continente. Un progetto nato per unire si trasforma in terreno di esclusione.
Un progetto che si svuota
L’Europa dei diritti, della coesione sociale e dell’inclusione sembra oggi più un ricordo che una realtà. Nonostante le dichiarazioni solenni e i trattati che parlano di dignità umana, libertà, uguaglianza e rispetto delle minoranze, l’Unione Europea è attraversata da una frattura sempre più evidente: quella tra chi difende questi principi e chi li erode sistematicamente, spesso nel silenzio delle istituzioni centrali.
Negli ultimi anni si è delineato un fronte politico che, pur presentandosi come democratico, ha iniziato a riscrivere le regole della convivenza. A preoccupare non è solo l’euroscetticismo in senso stretto, ma una vera e propria guerra culturale, portata avanti da governi e partiti che, dietro il richiamo ai “valori tradizionali”, mirano a ridefinire l’identità europea in senso escludente, conservatore e, in molti casi, apertamente reazionario.
Le destre al potere che riscrivono i diritti
In Ungheria, Viktor Orbán ha costruito un vero e proprio laboratorio illiberale: ha limitato i diritti LGBTQ+ vietando ogni riferimento alla diversità sessuale nei materiali scolastici e nei media per i minori, ha smantellato l'autonomia del sistema universitario e colpito le ONG accusate di "minare la cultura nazionale". In Polonia, fino a poco tempo fa, non c'era imbarazzo nel parlare di "zone libere dall'ideologia LGBT", mentre i diritti delle donne venivano compressi, tra leggi sempre più restrittive sull'aborto e campagne diffamatorie contro chi difendeva laicità e parità di genere.
Ma non basta guardare solo a Est. In Italia, Giorgia Meloni ha saputo costruire un'identità politica incentrata sull'opposizione frontale a tutto ciò che è "politicamente corretto". I suoi discorsi contro la cosiddetta "cultura di genere", i continui attacchi ai progetti di scuola inclusiva, la progressiva esclusione delle famiglie omogenitoriali dalla vita istituzionale sono segnali concreti di un disegno più ampio: ridefinire lo spazio pubblico in modo normativo, chiuso, omologante. Tutto questo si accompagna a una retorica che appare rassicurante, di “buon senso”, di difesa delle radici, ma che in realtà restringe i margini della libertà individuale e collettiva.
In Spagna, il partito di estrema destra Vox ha fatto dell'attacco ai diritti civili la sua bandiera politica, arrivando persino a chiedere l'abolizione delle leggi contro la violenza di genere e a negare l'esistenza della discriminazione LGBTQ+. In Francia, personaggi come Éric Zemmour e Marine Le Pen, sebbene non al governo, influenzano il dibattito pubblico con idee che mirano a riscrivere la memoria storica, ridurre l'immigrazione a una minaccia etnica e fare del corpo delle donne e dell'identità sessuale un campo di battaglia politico.
Una guerra culturale mascherata da tradizione
Ciò che unisce queste forze non è tanto un progetto economico comune, quanto un'ossessione ideologica per l'identità, la nazione, il controllo. È una narrazione che dipinge il progresso sociale come un nemico interno, che trasforma la diversità in un pericolo e che alimenta un costante senso di assedio culturale. Non è un caso che religione, famiglia e ordine siano parole centrali in questo lessico del sospetto.
E in tutto questo, Bruxelles? L'Unione Europea appare spesso timida, lenta, se non del tutto assente. Le procedure di infrazione aperte contro alcuni Paesi membri restano più simboliche che efficaci, mentre nessuno sembra avere il coraggio politico di sanzionare davvero chi calpesta i valori fondanti dell'Unione. Si preferisce parlare di convergenza, compromessi, dialogo tra le differenze, ma la realtà è che ci sono governi che stanno smantellando pezzo per pezzo il significato stesso della cittadinanza europea.
Il trionfo dell’ambiguità
Il risultato è una progressiva normalizzazione dell’intolleranza, una legittimazione politica di posizioni che fino a qualche anno fa sarebbero state relegate all’estrema destra. Il dibattito pubblico è cambiato: oggi si discute se i diritti siano “eccessivi”, se esista davvero una discriminazione sistemica, se parlare di uguaglianza significhi “fare propaganda ideologica”. È il trionfo del relativismo dei valori, dove ogni voce che reclama inclusione viene accusata di estremismo.
Le conseguenze non sono teoriche. Nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei media, l’autocensura cresce. Chi lavora con i diritti lo fa spesso in un clima di paura, sotto attacco politico e mediatico. I giovani LGBTQ+ si sentono sempre meno sicuri. Le donne che difendono il loro spazio pubblico vengono messe a tacere o ridicolizzate. Stiamo assistendo a un lento svuotamento dello spazio democratico, reso ancora più inquietante dal fatto che tutto ciò avviene all’interno di istituzioni formalmente democratiche.
Un bivio politico e morale
L’Europa che oggi vediamo escludere, tacere, contraddirsi non è frutto del caso, né di una crisi improvvisa. È il risultato di scelte precise, di parole che hanno preso spazio e di altre che sono sparite. Ma a preoccuparmi non è solo chi agisce in quella direzione: è anche chi, intorno, ha smesso di interrogarsi.
Il rischio più grande è l’assuefazione a una forma vuota, a un’Unione che resta solo nella struttura, mentre perde la sua voce, la sua visione, il suo significato condiviso. Forse la questione non è chiedersi cosa l’Europa debba diventare, ma se esiste ancora lo spazio per immaginare qualcosa insieme. Per riconoscersi, senza ricadere nella paura dell’altro.
Non servono parole forti. Serve una presenza che non escluda, una direzione che non cancelli. E qualcuno che abbia ancora il coraggio di restare umano, anche quando sembra più semplice dimenticarsi.