Da tempo in Italia si dibatte l’esigenza di grandi riforme, anche a livello costituzionale. Secondo molti osservatori la nostra Costituzione avrebbe bisogno di significative modifiche, soprattutto, aggiungono i più cauti, nella seconda parte.

È stato evidenziato da molti osservatori, anche europei ed extracomunitari, come il sistema italiano soffra di parecchie limitazioni e difficoltà di funzionamento, in particolare sul piano istituzionale. Da molte parti il responsabile principale dei problemi di inefficienza di cui soffre l’Italia, è stato identificato nel bicameralismo perfetto del nostro Parlamento.

La competenza nella formazione delle leggi, uguale e ripetitiva nelle singole materie, che impone la restituzione degli atti alla precedente Camera, anche nell’ipotesi in cui la seconda abbia apportato la sia pur minima modifica alla proposta di legge o al disegno di legge in discussione, viene considerata un eccesso di formalismo.

In realtà le difficoltà di funzionamento e l’inefficienza di cui ha sofferto l’Italia in questi ultimi venti anni, sembra da attribuirsi piuttosto alla diversità dei sistemi elettorali della Camera e del Senato che, non consentendo il formarsi di maggioranze omogenee, ha creato di fatto i noti problemi di ingovernabilità. Per capire meglio il problema occorre ricordare al nostro lettore che mentre il Senato viene eletto su base regionale, la camera dei deputati viene eletta su base nazionale (artt. 56 e 57 della Costituzione).

Anche se a parere di chi scrive il fulcro del problema sta nella inadeguatezza della classe politica e dei partiti che hanno occupato la scena politica italiana dell’ultimo ventennio, sarà comunque utile e necessario, per orientarci nelle complesse tematiche delle riforme istituzionali, capire meglio il vecchio sistema che si vuole “rottamare” e quello nuovo con cui lo si intenderebbe sostituire.

Appare intuitivo, a prima vista, lo stretto legame esistente tra la democrazia e il sistema elettorale. La democrazia ideale sarebbe quella originaria, di derivazione greca: la gente, il popolo, gli elettori, vengono convocati in piazza e lì esprimono la loro volontà sui diversi temi proposti alla loro attenzione dai responsabili della gestione della cosa pubblica.

Purtroppo questo metodo non è praticabile nelle società complesse e assai popolose come sono le democrazie attuali. Da questa complessità nasce l’esigenza di creare degli strumenti per la realizzazione della democrazia. Il metodo più diffuso per la gestione della democrazia risiede nello strumento elettorale: gli elettorali scelgono i rappresentanti che siederanno negli scranni del potere e attraverso di loro gestiranno il potere.

Ma come si scelgono questi rappresentanti?

La risposta sembra scontata, al punto da fare apparire banale la stessa domanda. Viene infatti naturale rispondere: basta andare a votare e scegliere il proprio candidato preferito. I più votati saranno gli eletti, cioè i prescelti a governare.

Forse la domanda più corretta, per fare comprendere la complessità del fenomeno a chi non abbia con esso sufficiente dimestichezza, va disarticolata in maggiore dettaglio: ma chi può votare? Cioè come si identifica l’elettorato attivo, gli aventi diritto ad esprimere il voto? E come si seleziona l’elettorato passivo, cioè le persone da eleggere? E come si traducono i voti in seggi? In altri termini: come verranno assegnati i posti disponibili (seggi) nell’organo della rappresentanza? In base a quale conteggio?

Quanto più efficace e preciso sarà il meccanismo elettorale, tanto più sarà centrato il risultato di realizzare l’obiettivo della democrazia.

C’è una branca della politologia che si occupa di questi temi complessi.

In questi brevi appunti limiterò quindi, il discorso delle riforme, davvero assai vasto, ai sistemi elettorali con i quali viene eletto il Parlamento, cercando di esporlo in maniera semplice.

Cominciamo con il ricordare che i sistemi elettorali si dividono in due grandi famiglie: i sistemi maggioritari e i sistemi proporzionali.

I primi assegnano la maggioranza assoluta (cioè più del 50% dei seggi in Parlamento) alla lista elettorale che sia arrivata per prima come numero di voti ricevuti dagli elettori; i secondi, invece, assegnano alle liste in competizione, proporzionalmente, tanti seggi quanti sono i voti ricevuti in proporzione (es. se la lista Bianca ha ottenuto il 10% dei voti, avrà il 10% dei seggi; se la lista Rossa ha preso il 25% dei voti, avrà il 25% dei seggi disponibili e così via per tutti le liste che abbiano preso parte alla competizione elettorale). Sembra chiaro a chiunque che i sistemi elettorali maggioritari dovrebbero garantire una maggiore governabilità (seppure a discapito della rappresentanza).

Eppure in Italia neanche i sistemi maggioritari sono riusciti a garantire efficienza e governabilità. Le prime normative elettorali, sin da prima dell’Unità d’Italia, (parliamo del 1848), erano di tipo maggioritario. L’elettorato attivo era sostanzialmente censitario e riservava il diritto di voto ai soli cittadini di sesso maschile di età superiore ai 25 anni che possedessero il requisito dell’alfabetismo e pagassero un’imposta diretta complessiva (censo) di almeno 20 lire per i residenti del continente. Per gli elettori residenti in Sardegna e per alcune categorie (artigiani, industriali, commercianti) il requisito del censo era sostituito da forme di accertamento induttivo della ricchezza, basate sul valore locativo dei beni immobili da essi posseduti.

Si derogava al requisito del censo per nove categorie di elettori (magistrati, notai, professori delle università e delle scuole regie e provinciali, ufficiali e liberi professionisti) ammessi nelle liste elettorali sulla base di un criterio di capacità intellettuale.

Il sistema durò sino al 1882, esteso e adeguato alle porzioni di territorio che il Regno di Sardegna, trasformandosi in Regno d’Italia, andava via, via acquisendo negli anni 1859-1861.

Anche la riforma elettorale del 1882, strettamente connessa al passaggio del timone del paese dalla Destra alla Sinistra storica, pur realizzando diverse importanti innovazioni, restò sostanzialmente di tipo maggioritario.

Sul piano del diritto all’elettorato attivo, il limite di età previsto dalla previgente legislazione fu abbassato da 25 a 21 anni, mentre fu mantenuto il requisito dell’alfabetismo.

Il criterio del censo non costituì più il titolo principale per l’elettorato attivo, perché questo fu concesso, indipendentemente dal censo, a tutti gli alfabeti che avessero superato le prove del corso elementare obbligatorio (o equivalenti), o fossero in possesso del titolo di studio superiore, agli impiegati pubblici (tranne gli uscieri e gli operai), a coloro che avessero tenuto per un anno l’ufficio di consigliere comunale o provinciale, di giudice conciliatore, di presidente o direttore di società commerciali, agli ufficiali e sottufficiali in servizio o in congedo. In tal modo, la platea degli elettori crebbe da circa 600.000 a più di 2.000.000.

Con la legge 5 maggio 1891, n. 210, fu, dunque, stabilito il ritorno al collegio uninominale, aprendo la strada ad una nuova tabella dei collegi (approvata con r.d. 14 giugno 1891, n. 280), si passò al sistema maggioritario uninominale, che durò sino al 1913.

Con l’attivarsi, all’inizio del Novecento, di più complesse dinamiche politiche negli anni della prima evoluzione industriale dell’Italia, maturò nella classe dirigente liberale la scelta di intervenire nuovamente sul sistema elettorale.

Anche se con la riforma elettorale del 1913 non viene superato del tutto l’ostacolo del censo per il riconoscimento dell’elettorato attivo, furono introdotte non di meno importanti novità come il rimborso spese e l’indennità per i deputati, formalmente esclusa dallo Statuto Albertino.

Fu invece rinviata, con l’approvazione di un ordine del giorno nel dibattito del 2 maggio 1912, la discussione sull’introduzione del suffragio femminile.

Preparata da una intensa discussione parlamentare, la legge 15 agosto 1919, n. 1401, successivamente confluita nel Testo unico 2 settembre 1919, n. 1495, introdusse il sistema proporzionale nella legislazione elettorale italiana, dopo che la legge 16 dicembre 1918, n. 1495, aveva introdotto il suffragio universale maschile, dichiarando elettori tutti i cittadini maschi di almeno 21 anni di età.

La riforma elettorale proporzionale, affermatasi con larga maggioranza sia alla Camera che al Senato, corrispondeva ad una profonda evoluzione del quadro politico, dato che ormai si erano affermati i grandi partiti di massa (socialisti e cattolici) all’indomani della Prima guerra mondiale.

Dopo aver ripartito i seggi spettanti a ciascuna lista nell’ambito del collegio, i seggi venivano assegnati, nell’ambito delle liste, ai candidati che avevano la cifra individuale più alta, risultante dalla somma dei voti di lista con i voti di preferenza.

La nuova legge elettorale proporzionale fu applicata per la prima volta nelle consultazioni elettorali del 16 novembre 1919, che segnarono il ridimensionamento delle forze politiche di area liberale e l’affermazione del Partito socialista e del Partito popolare.

Con il Fascismo inizia un periodo buio per la democrazia italiana.

Con la caduta del fascismo e la fine della guerra entriamo nella fase della transizione costituzionale. Viene istituita un’assemblea provvisoria, in attesa della possibilità di indire regolari elezioni politiche: la Consulta nazionale. Il decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 146, assegnava alla Consulta il compito di formulare pareri su questioni generali e sui provvedimenti legislativi del governo, che era obbligato a sentire il parere della Consulta su alcune materie quali bilancio, imposte e leggi elettorali. La composizione della Consulta fu stabilita con decreto legislativo luogotenenziale 30 aprile 1945, n.168. I consultori, inizialmente nel numero di 304, non erano elettivi ed erano espressivi dei partiti del CLN, di organizzazioni sindacali e professionali, della classe politica prefascista

Le elezioni dell’Assemblea costituente si svolsero a suffragio universale, dopo che, con decreto legislativo luogotenenziale 2 febbraio 1945, n. 23, fu concesso il voto alle donne. Il decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74, stabilì che le elezioni avvenissero sulla base di un sistema proporzionale, fondato su collegi plurinominali a liste concorrenti.

Il sistema elettorale che caratterizzò buona parte della storia repubblicana fu stabilito, per la Camera, con la legge 7 ottobre 1947, n. 1058, che introdusse un sistema elettorale proporzionale (giocato su circoscrizioni plurinominali concepite come sezioni del Collegio unico nazionale) a liste concorrenti, con la possibilità di esprimere tre o quattro preferenze, secondo l’ampiezza dei collegi. La Camera dei deputati fu eletta in ragione di un deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila.

Dopo un primo referendum per la riduzione delle preferenze esprimibili per l’elezione dei deputati e la possibilità di esprimere la preferenza con indicazione del numero di lista, svoltosi il 9 giugno 1991, il 18 aprile 1993 si svolse, con esito positivo, il referendum per l’abrogazione di alcune disposizioni della legge elettorale del Senato (legge n. 29 del 1948 e successive modificazioni) per sopprimere la norma che prevedeva l’elezione nel collegio uninominale solo previo conseguimento di un elevato quorum del 65% dei voti, determinandosi altrimenti la ripartizione dei voti su base proporzionale. Il risultato della consultazione referendaria indusse il Parlamento all’approvazione della legge 4 agosto 1993, n. 276 (relativa al Senato) e della legge 4 agosto 1993, n. 277 (relativa alla Camera), che introducevano sia per il Senato sia per la Camera, un sistema elettorale misto.

Il sistema, soprannominato dalla stampa “Il Mattarellum”, era caratterizzato dall’elezione di tre quarti dei deputati e tre quarti dei senatori con sistema maggioritario a turno unico nell’ambito di collegi uninominali. I restanti 155 seggi venivano attribuiti con il sistema proporzionale con un sistema alquanto complesso.

Due leggi di revisione costituzionale (17 gennaio 2000, n. 1, e 23 gennaio 2001, n. 1) hanno in seguito attribuito ai cittadini italiani residenti all’estero il diritto di eleggere, nell’ambito di una circoscrizione Estero, sei senatori e dodici deputati. Essendo rimasto invariato il numero complessivo dei componenti le due Camere, il numero dei seggi da distribuire nelle circoscrizioni nazionali – detratti quelli da assegnare nella circoscrizione Estero – si è quindi ridotto a 618 per la Camera ed a 309 per il Senato. La legge 27 dicembre 2001, n. 459, ha attuato la previsione costituzionale disciplinando l’esercizio del voto (per corrispondenza) e l’attribuzione (con sistema proporzionale) dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero.

La legge 21 dicembre 2005, n. 270 ha introdotto un sistema per l’elezione della Camera dei deputati di tipo interamente proporzionale, con l’eventuale attribuzione di un premio di maggioranza in ambito nazionale, che sostituisce il sistema misto precedentemente in vigore.

Questa legge n. 270/2005, più nota con il nome di “Porcellum” (il nomignolo dice già tutto) è caduta sotto la mannaia della Corte Costituzionale che con la sentenza n. 1 del 2014 ne ha dichiarato l’incostituzionalità nelle parti in cui essa prevede l’assegnazione di un premio di maggioranza, sia nella Camera, sia nel Senato, per quelle liste o quei partiti che non abbiano ottenuto almeno il 55% dei voti.

In altri termini la sentenza della Corte Costituzionale (il cui intervento ha creato il sistema elettorale c.d. Consultellum) ha detto che non è giusto, né ragionevole, assegnare una maggioranza di seggi a chi non abbia ottenuto, nelle urne, il riconoscimento dagli elettori di una soglia minima di voti.

A questo punto occorre fare due discorsi distinti. Mentre per il Senato è rimasto in vigore il Conseltullum, per la Camera dei deputati è intervenuta la legge n. 52 del 2015, c.d. “Italicum”, priva del premio di maggioranza e della configurazione delle liste “bloccate” e con l’aggiunta del voto di preferenza, secondo le censure rivolte al Porcellum dalla Corte Costituzionale.

Ma anche l’Italicum è stato fatto segno di critiche da più parti, soprattutto per il fatto che essa fosse applicabile soltanto alla Camera e non al Senato.

Con la legge 3 novembre 2017, n. 165 (cd. Rosatellum) si è cercato di porre rimedio a queste critiche. La legge 3 Novembre 2017, n. 165 recante “Modifiche al sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali”, delinea un sistema elettorale misto.

L'assegnazione di 231 seggi alla Camera (cui si aggiunge 1 collegio in Valle d'Aosta) e di 109 seggi al Senato (cui si aggiungono un collegio in Valle d'Aosta e sei collegi in Trentino-Alto Adige) è effettuata in collegi uninominali con formula maggioritaria, in cui è proclamato eletto il candidato più votato.

L'assegnazione dei restanti seggi avviene, nell'ambito di collegi plurinominali, con metodo proporzionale tra le liste e le coalizioni di liste che hanno superato le soglie di sbarramento: sono quindi proclamati eletti in ciascun collegio plurinominale, nei limiti dei seggi ai quali ciascuna lista ha diritto, i candidati compresi nella lista del collegio, secondo l'ordine di presentazione.

Nei collegi uninominali il seggio è assegnato al candidato che consegue il maggior numero di voti validi; in caso di parità è eletto il più giovane per età (art. 77 TU Camera; art. 16 TU Senato).

Per i seggi da assegnare alle liste e alle coalizioni di liste nei collegi plurinominali, alla Camera il riparto avviene a livello nazionale, con metodo proporzionale, tra le coalizioni di liste e le liste che abbiano superato le soglie di sbarramento.

Completano le leggi una serie di soglie di sbarramento, al fine di impedire alle piccole liste o ai partitini, magari presentatisi per mero ostracismo, di ottenere dei seggi.

La legge n. 165 del 2017 prevedeva una delega al Governo per la determinazione dei collegi uninominali e dei collegi plurinominali della Camera e del Senato, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari (da esprimere entro 15 giorni dalla trasmissione dello schema di decreto). La delega è stata esercitata con l’approvazione del decreto legislativo n. 189 del 2017 con cui si è ripartito il territorio nazionale in 28 circoscrizioni elettorali.

Al Senato invece i collegi plurinominali sono costituiti dalla aggregazione del territorio di collegi uninominali contigui e tali che a ciascuno di essi sia assegnato, di norma, un numero di seggi non inferiore a due e non superiore a otto.

Ulteriori modifiche a tali circoscrizioni sono state apportate con la legge n. 51 del 2019. In queste modifiche occorre inserire la riduzione del numero dei parlamentari.

Con la legge costituzionale 19 Ottobre 2020, n. 1 recante “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 261 del 21 ottobre 2020, il numero dei deputati e dei senatori elettivi è stato ridotto rispettivamente a 400 e 200.

L’obiettivo della legge costituzionale è stato duplice: da un lato favorire un miglioramento del processo decisionale delle Camere, per renderle più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini, e dall’altro consentire all’Italia di allinearsi al resto d’Europa: l’Italia, infatti, era il paese con il numero più alto di parlamentari direttamente eletti dal popolo (945); seguono la Germania (circa 700), la Gran Bretagna (650) e la Francia (poco meno di 600).

La legge costituzionale inoltre, fissa in 5 il numero massimo dei senatori a vita in carica, sciogliendo il nodo interpretativo sul vigente articolo 59, secondo comma, della Costituzione e stabilendo che il numero di cinque senatori di nomina presidenziale sia un “numero chiuso”, al fine di evitare la possibilità di un'interpretazione, pur seguita in un passato non recente, in base alla quale ciascun Presidente della Repubblica poteva nominare 5 senatori a vita.

A seguito di tutte queste modifiche il sistema elettorale vigente dal 2017 è un sistema elettorale misto a separazione completa, (ribattezzato Rosatellum bis): in forza del quale, in ciascuno dei due rami del Parlamento, il 37% dei seggi assembleari è attribuito con un sistema maggioritario uninominale a turno unico, mentre il 61% degli scranni viene ripartito fra le liste concorrenti mediante un meccanismo proporzionale corretto con diverse clausole di sbarramento. Le candidature per quest'ultima componente sono presentate nell'ambito di collegi plurinominali, a ognuno dei quali spetta un numero prefissato di seggi; l'elettore non dispone del voto di preferenza né del voto disgiunto. La Costituzione stabilisce altresì che otto deputati e quattro senatori debbano essere prescelti dai cittadini italiani residenti all'estero.

Come il lettore avrà potuto notare i sistemi elettorali, con il tempo, si sono complicati sempre di più, alla ricerca spasmodica di un equilibrio non facile da ottenere.

Per concludere auspico che la classe politica si impegni a escogitare un sistema elettorale più semplice che restituisca ai cittadini il piacere di andare a votare per esprimere la propria volontà politica.

Anche se non credo che il crescente tasso di astensionismo, che supera ormai il 50 per cento, sia da addebitare tanto alla complessità dei sistemi elettorali, quanto piuttosto alla perduta fiducia dei cittadini nei politici di professione, sempre più invisi alla popolazione e sempre più distanti dai loro sentimenti e dalle loro percezioni.