Quando ci credevamo davvero
C’è stato un tempo in cui l’impegno ambientale sembrava autentico: firmavamo petizioni, facevamo la raccolta differenziata con attenzione quasi rituale, guardavamo documentari su Netflix che ci scuotevano e ne uscivamo con la voglia di cambiare le cose. Le piazze si riempivano di persone su persone e si parlava del futuro come qualcosa da proteggere insieme. Per un attimo ci siamo sentiti parte di una svolta collettiva, come se davvero stessimo costruendo un nuovo modo di abitare il mondo.
Poi, lentamente, qualcosa ha iniziato a cambiare. L’ecologia ha smesso di essere un’urgenza e si è trasformata in uno stile. Il contenuto ha lasciato spazio alla forma, la sostanza si è annacquata dietro l’estetica. Il linguaggio ha preso il sopravvento sull’azione, le parole giuste sono diventate centrali quanto, se non più, delle scelte concrete. Abbiamo cominciato a vivere la crisi climatica come si vive una tendenza: condividendo articoli, pubblicando storie, indossando il lessico giusto. Ci siamo allontanati dalla realtà, senza nemmeno accorgercene.
La maschera del greenwashing
Oggi tutto è verde. Verde il logo, verde il packaging, verde il messaggio. Sui social, nelle pubblicità, nelle etichette. Ci circondiamo di prodotti eco e bio, di soluzioni a basso impatto, di parole come sostenibile, etico, rigenerativo. Ma dietro quella patina rassicurante si nasconde un sistema che non è cambiato, solo ricolorato. Le grandi aziende, spesso le stesse che contribuiscono in modo massiccio alla crisi ecologica, sono le prime a promuoversi come green. Hanno imparato a farlo nel modo giusto: con spot coinvolgenti, immagini suggestive, promesse pulite e dati selezionati con cura.
Il greenwashing non è più una trappola da smascherare, è diventato il linguaggio standard della comunicazione aziendale. Abbiamo imparato a giustificare tutto con la compensazione: piantiamo alberi per continuare a volare, usiamo materiali riciclati per vendere sempre più oggetti. E intanto, nelle stanze dei board, le decisioni seguono logiche antiche: profitto, consenso, visibilità. La sostenibilità resta un obiettivo solo se non disturba i flussi di produzione, solo se porta benefici tangibili. Tutto il resto è decorazione.
E non possiamo chiamarci fuori perché anche nel quotidiano siamo parte della stessa contraddizione. Compriamo una borsa di sostenibile a due soldi e ci sentiamo bene con la nostra coscienza, ricondividiamo due post sul clima e ci convinciamo di aver fatto la nostra parte. Andiamo al supermercato con la shopper riutilizzabile e ci riempiamo di packaging inutili. Beviamo dalla borraccia mentre cambiamo smartphone una volta l’anno, siamo pieni di intenzioni ma sempre più lontani dalla coerenza.
L’estetica dell’impegno ha sostituito l’impegno stesso
Non possiamo dire di non sapere abbastanza oramai. Le informazioni sono ovunque, accessibili, ripetute. Sappiamo che la temperatura media aumenta, che i ghiacciai si ritirano, che intere aree del pianeta diventeranno invivibili. Sappiamo dei disastri climatici, delle specie che scompaiono, delle migrazioni ambientali eppure più sappiamo e meno agiamo. Non per disinteresse ma per un senso crescente di impotenza, l’allarme è costante, il cambiamento troppo lento, il dislivello tra scala individuale e problema globale troppo grande per essere affrontato con lucidità.
Così entriamo in una nuova forma di rimozione: quella che non nega, ma distoglie. Invece di contraddire i dati, li accettiamo e poi li accantoniamo perché abbiamo normalizzato l’emergenza fino a non sentirla più. Quando qualcuno insiste, quando ci mette di fronte all’inadeguatezza delle risposte, ci infastidiamo. Diventa pesante, estremista, fuori luogo e ci dà fastidio chi non si adegua al tono leggero, chi non partecipa al gioco rassicurante. E mentre le Alpi si sciolgono, noi ci perdiamo in contenuti verdi, in estetiche levigate.
L’ambientalismo oggi è diventato un ingrediente di marketing, un filtro da applicare alle campagne e non scuote più, non interroga. È parte dello storytelling, non più dello slancio, viviamo dentro uno scenario in cui tutto si dice, ma poco si fa, e il poco che si fa, spesso, serve solo a confermare un’immagine.
Ricostruire una tensione
Non abbiamo bisogno di soluzioni facili, né di decaloghi motivazionali. Non serve l’ennesimo elenco di piccoli gesti su come non sprecare l’acqua e l’elettricità nella normalità quotidiana, né l’illusione che basti fare la propria parte per stare in pace con se stessi perché l’unica verità è che abbiamo smesso di crederci. Oppure, forse, non ci abbiamo mai creduto abbastanza, ci siamo adattati a una narrazione conveniente, dove è sufficiente dirsi attenti per sentirsi coinvolti, dove basta un gesto simbolico per nascondere cento abitudini incoerenti, dove la coerenza diventa un sacrificio troppo grande per essere praticato davvero.
Eppure, se vogliamo ritrovare un senso autentico nell’azione ambientale, dobbiamo ripartire da lì: dalla domanda scomoda, da quel momento in cui ci chiediamo quanto siamo disposti a cambiare davvero, quanto vale la nostra coerenza, e quanto invece stiamo solo recitando una parte. Dobbiamo smettere di trattare il pianeta come uno sfondo, come un argomento da utilizzare quando è utile o di moda. Dobbiamo tornare a vederlo come un soggetto che ci riguarda, in ogni scelta, in ogni parola.
Perché non sarà l’estetica a salvarci. Non saranno le campagne pubblicitarie, né i prodotti in edizione limitata, non basteranno le bio nelle biografie, i post indignati o le tazze compostabili. Servono verità. Anche se non fanno audience, anche se non si prestano a diventare slogan, anche se non portano consenso.
Il pianeta non ha bisogno di ulteriori parole rassicuranti, ci chiede la verità anche quando è scomoda, anche quando è difficile da dire, ha bisogno di una voce che non somigli a un brand. Ha bisogno dell’impegno di tutti noi.