Nel mondo romano di epoca arcaica, la donna era considerata priva di capacità giuridica e di autonomia familiare: pertanto, era assoggettata a “tutela”, in quanto persona definita alieni iuris, “di diritto altrui”, cioè non indipendente e quindi sottoposta al potere di altre persone sui iuris - esponenti maschili della famiglia, titolari della pienezza dei diritti -, in particolare risultava legalmente subordinata alla patria potestas del padre ed alla manus maritalis del marito che, controllando e limitando la capacità di agire femminile, influivano sulla correlata libertà di ereditare, fare testamento, disporre dei propri beni senza il consenso del tutore.
Tuttavia, la posizione sociale ed economica della donna romana migliorò in progresso di tempo, durante la Repubblica ed il Principato, grazie all’evoluzione normativa del Diritto romano che, soprattutto nel settore dell’eredità, riconosceva alle figlie femmine le stesse prerogative dei figli maschi, cosicché esse erano titolari esclusive del loro patrimonio, anche se non potevano disporne liberamente, ma sempre sotto il controllo di una tutela vitalizia (divenuta comunque solo formale, in quanto il tutore, già nel corso del II secolo a.C., poteva essere scelto secondo il gradimento della donna e, per tale via, diventava un semplice esecutore della domina).
Inoltre, fu riconosciuto alle mogli il diritto di ereditare dal proprio marito, a partire dalla tarda Repubblica e poi in età augustea, in un periodo in cui le continue guerre dell’Urbe avevano decimato la popolazione maschile e, pertanto, la successione dei patrimoni coinvolgeva sempre di più le donne e gli orfani; di conseguenza, tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., la ricchezza si concentrò in misura crescente anche nelle mani della donna romana, la cui condizione cambiò radicalmente e, soprattutto con l’avvento dell’Impero, si caratterizzò per l’emancipazione dal ruolo di semplice padrona e custode del focolare domestico a figura autonoma, indipendente ed influente in campo economico.
Questo miglioramento di status giuridico non venne mai ufficializzato nel mondo romano, in quanto la donna per tradizione continuava ad essere considerata inferiore all’uomo - cfr., ad esempio, quanto affermava il Giurista Gaio nel II secolo d.C. in merito alla levitas animi, la supposta “superficialità” del sesso femminile rispetto alle asserite, superiori virtù maschili -, ma era comunque rilevabile ed evidente nella prassi della vita quotidiana e nelle interpretazioni della Giurisprudenza, in quanto si ricollegava all’urgente necessità di evitare la dispersione delle proprietà ed assicurare la conservazione e trasmissione dei beni familiari, con conseguente progressivo riconoscimento di sempre maggiori diritti ed autonomie alla popolazione femminile in materia di amministrazione di patrimoni ed esercizio di attività economiche.
L’ampia documentazione archeologica di Pompei, divenuta colonia romana nell’80 a.C. in seguito alla conquista di Lucio Cornelio Silla (138-78 a.C.), ci consente di apprezzare alcuni esempi emblematici della migliore posizione conseguita dalla donna nel contesto socio-economico dell’epoca, favorito anche dalla legislazione di Augusto - che, ad esempio, introdusse il cosiddetto ius trium liberorum (“diritto dei tre figli”), che esentava dalla tutela maschile le donne con tre o più figli -, come risulta in particolare dalle figure di due donne d’affari di grande rilievo, impegnate in prima persona nella gestione libera ed autonoma del denaro e delle attività commerciali.
Ricordiamo, innanzitutto, Eumachia, imprenditrice di origine greca, “sacerdotessa pubblica” di Venere, esponente di un facoltoso gruppo familiare che, provenendo da Napoli, si stabilì a Pompei ed acquisì il controllo di importanti settori economici, quali l’industria delle anfore vinarie e dei laterizi (mattoni e tegole), nonché la lavorazione ed il commercio della lana e del cuoio.
Questa donna d’affari fu uno dei personaggi più in vista nella Pompei di età Giulio-Claudia (periodo da Augusto a Nerone, 27 a.C. - 68 d.C.) e divenne patrona della ricca corporazione dei fullones, la più numerosa e potente della Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum, nuovo nome (“Colonia Cornelia della Venere dei Pompeiani”) attribuito alla città in onore della divinità protettrice, particolarmente cara al Generale Silla (del quale fu così ricordato anche il nome gentilizio).
I fullones, che erano lavoratori addetti alle botteghe di “lavanderia”, gestivano in concreto una parte fondamentale dell’industria laniera, una delle più importanti attività economiche di Pompei, occupandosi di tutte le fasi del processo di produzione: infatti, tredici officine della città lavoravano la lana grezza, sette strutture provvedevano alla filatura ed alla tessitura, nove impianti erano specializzati nella tintura, diciotto tabernae si dedicavano esclusivamente al lavaggio; inoltre, un compito specifico e di particolare rilevanza riguardava il mantenimento del bianco delle vesti sacerdotali.
Il prestigioso ruolo di “sacerdotessa pubblica”, rivestito da Eumachia, insieme al successo economico conseguito quale “imprenditrice laniera”, le conferivano un’elevata posizione sociale ed i mezzi finanziari disponibili per effettuare beneficenza su larga scala ed atti di filantropia civica, che si concretizzavano in un’attiva partecipazione alla vita comunitaria e spirituale della città, supportata spesso dal finanziamento diretto dei rituali e delle Feste religiose.
Eumachia ottenne così l’onore di una statua, quale evidente riconoscimento pubblico, e fece erigere con propri mezzi nel Foro, centro della vita politica ed economica, un elegante edificio monumentale dedicato alla Concordia ed alla Pietà Augusta, attestato da un’iscrizione celebrativa che ricorda la sua costruzione a spese della sacerdotessa-imprenditrice (SVA PEQVNIA, con proprio denaro, recita l’epigrafe).
L’edificio di Eumachia, che ospitava nella cripta la statua a lei dedicata dai fullones, fu costruito intorno al 2-3 d.C. al fine di celebrare il culto imperiale e l’adesione all’ideologia di Augusto; inoltre, era funzionale alla propaganda elettorale a favore della carriera politica del figlio (Marco Numistrio Frontone, citato nel testo dell’epigrafe) e quale ricordo imperituro della famiglia di riferimento; infine, poteva essere adibito a diverse funzioni pratiche: sede della corporazione professionale protetta, sede di scambi all’ingrosso della lana, borsa valori con negoziazioni all’asta, mercato degli schiavi.
Un altro caso di imprenditoria femminile di grande rilievo nell’antica Pompei viene impersonato da Giulia Felice che, forse discendente da liberti imperiali, era proprietaria di un’intera insula (Regio II, 4), un’ampia zona estesa su una superficie di circa 5800 m.q., corrispondente quasi ad un intero “isolato” o “quartiere”, limitrofo all’Anfiteatro: si tratta di un eccezionale complesso architettonico, a lei attribuito sulla base dell’epigrafe rinvenuta dipinta, a lettere grandi e chiare, sulla parete esterna dell’edificio in prossimità dell’ingresso alle Terme (in Via dell’Abbondanza, n. 6), il cui testo recita:
Nella proprietà di Giulia Felice, figlia di Spurio, si affittano un bagno signorile, degno di Venere, botteghe con locali sovrastanti, cenacoli al piano superiore, dal prossimo 1 agosto fino alla stessa data per la sesta volta, cioè per cinque anni consecutivi. Se non sorgeranno obiezioni, la locazione sarà rinnovata tacitamente.
Scoperta nel 1756, tale iscrizione rivela che Iulia Felix aveva provveduto a mettere a reddito alcuni ambienti dei suoi praedia (poderi o fondi) e, a tal fine, aveva esposto una proscriptio locationis, ovverosia un “avviso di locazione” che indicava le parti della sua vasta proprietà che venivano offerte in affitto, la data di inizio locazione, il periodo della conductio (cinque anni) e le modalità di rinnovo contrattuale.
Il termine latino praedium, potendo riguardare sia proprietà urbane sia proprietà rurali, definiva un ampio complesso residenziale e commerciale, comprendente giardini, bagni termali, abitazioni ed altri locali affittati a terzi, gestiti abilmente da Giulia Felice che, dopo il terremoto del 62 d.C., per fare fronte alla conseguente, grave crisi economica, decise di convertire una parte della sua grande domus privata in spazi pubblici e luoghi da concedere in locazione, dimostrando così un intelligente spirito imprenditoriale nel tutelare e valorizzare i propri beni e nell’amministrare i relativi rapporti d’affari.
Probabilmente, in seguito agli ingenti danni che il sisma aveva causato ai diversi quartieri cittadini ed alle Terme pubbliche di Pompei, Giulia Felice decise di restaurare, ampliare ed abbellire il preesistente balneum, (sala da bagno), destinando così lo spazio termale privato non più ad uso familiare ma ad uso pubblico, in modo tale da concederlo convenientemente in locazione insieme agli altri locali ed ambienti commercialmente utilizzabili, quali le tabernae (“botteghe”) le pergulae (logge, ballatoi, ammezzati per deposito merci o ad uso schiavi), i cenacula (letteralmente “sale da pranzo” che erano situate al piano superiore e, quindi, in genere “camere al piano superiore”).
Quali erano i prezzi praticati all’epoca per i servizi di locazione offerti dall’imprenditrice immobiliare Giulia Felice? L’iscrizione dipinta sulla facciata (C.I.L. IV, 1136) non specifica i costi applicati, ma tuttavia si rivolge a “persone di tutto rispetto” (cfr. legenda *SQDLEN, *sensu quo diligenter), evidenziando così che la proprietaria mirava ad un’utenza di fascia alta, con la quale il prezzo veniva poi negoziato in privato e riportato su tavolette cerate, che documentavano le specifiche condizioni personalizzate ed il canone (merces) del contratto effettivo di affitto (locatio conductio); in particolare, le Terme private, organizzate per un mercato immobiliare di lusso, verosimilmente richiedevano un costo di accesso sensibilmente superiore a quello delle Terme pubbliche, il cui ingresso prevedeva, invece, soltanto il semplice prezzo simbolico di un quadrans, un “quadrante” (pari ad ¼ di asse), monetina spicciola di rame/bronzo, equivalente alla frazione monetaria più piccola all’epoca in uso nel sistema vigente.
L’importante ruolo economico svolto dalla saggia imprenditrice pompeiana nel corso del I secolo d.C. risulta attestato anche dal grande affresco, databile tra il 62 ed il 79 d.C., rinvenuto il 13 luglio 1755 nel tablinum - una sorta di “sala di rappresentanza” o “studio”, spesso dotato di archivio -, della domus di Giulia Felice, che presenta nel fregio superiore quattro quadri con natura morta, dei quali l’ultimo a destra raffigura elementi caratteristici della vita commerciale e finanziaria dell’epoca: due "gruzzoli" di monete a sinistra ed a destra di un sacco di denaro, tavolette "cerate" e l’instrumentum scriptorium (strumento di scrittura, calamaio, stilo e papiro), tipici mezzi di regolamento e supporti di registrazione delle transazioni economiche (MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inventario n. 8598).
Sotto l’aspetto numismatico, è interessante evidenziare che il gruppo di monete sulla sinistra, prevalentemente di colore grigio-argento e giallo-oro, rappresenta le monete di maggior valore all’epoca in circolazione nel sistema monetario romano: l’aureus d’oro ed il denarius d’argento, legati tra loro da una relazione 1:25 (1 “aureo” = 25 “denari”); invece, il “teroretto” sulla destra ricomprende monete di colore bronzeo-dorato (e di maggiori dimensioni, anche se di minor valore intrinseco), e rappresenta monete di grande diffusione nelle operazioni quotidiane, quali erano l’as (“asse”) ed il sestertius (“sesterzio”), coniati prevalentemente in rame e bronzo, ma anche in oricalco (lega di rame e zinco, utilizzata soprattutto per i sesterzi ed i “dupondi”, doppi assi), che conferiva un tipico colore dorato, simile al moderno ottone.
Nella scala di valori, l’asse equivaleva a ¼ di sesterzio, che a sua volta era pari ad ¼ di denario: le spese ordinarie e più comuni potevano essere gestite adeguatamente con la moneta ènea (assi e sesterzi) – ad esempio, una porzione di pane comune o di vino ordinario poteva avere un prezzo di circa 1 asse -, mentre la moneta “nobile” (denari d’argento ed aurei) consentiva di regolare transazioni di maggiore rilevanza e di accumulare una riserva di ricchezza, grazie al superiore potere d’acquisto del metallo pregiato ed ai vantaggiosi rapporti di cambio (1 aureo = 25 denari = 100 sesterzi = 400 assi).
Anche se risulta molto difficile confrontare i valori della moneta antica con quelli della moneta attuale, senza incorrere in ipotesi anacronistiche e speculative, alcune stime basate sul valore intrinseco dei metalli preziosi propongono i seguenti controvalori: 1 asse (¼ di sesterzio) = 1-1,25 euro; 1 sesterzio (¼ di denario) = 4-5 euro; 1 denario (4 sesterzi) = 16-20 euro; 1 aureo (100 sesterzi) = 400-500 euro.
Per quanto riguarda la stima relativa al valore delle locazioni offerte da Giulia Felice, le ricerche condotte sul coevo mercato immobiliare di Roma consentono di stimare un prezzo medio annuo di circa 1.000-3.000 sesterzi, canone applicato agli affitti di fascia più alta, laddove invece gli affitti più popolari, relativi ad una stanza in un “Condominio” (Insula) si aggiravano intorno a 120 sesterzi all’anno (pari al salario medio annuale di un operaio); la durata quinquennale della locazione nei Praedia Iuliae Felicis, inoltre, indica che l’affitto, oltre a riguardare una clientela di elevato livello socio-economico, era concepito come una rendita stabile e a lungo termine, ben diversa da una semplice locazione turistica e stagionale.





![Asse di L. Sulla. D/ Testa laureata di Giano; sopra, I. R/ Prua di nave a d.; sopra, L. SVL[A]; sotto IMPE; c.p. Inv. 6942/107. Museo Archeologico di Napoli, Italia](http://media.meer.com/attachments/bc742bf17ce42a6373f85cc94fe5c0730c1b5ac9/store/fill/410/308/f6889e3ad01e69bd0905734858afd6f1f6521be14f4379246dfe2b8e394e/Asse-di-L-Sulla-D-slash-Testa-laureata-di-Giano-sopra-I-R-slash-Prua-di-nave-a-d-dot-sopra-L-SVL.jpg)












