Nell’era della comunicazione iperconnessa e dei messaggi che scorrono velocissimi davanti ai nostri occhi, i brand non possono più limitarsi a “parlare” al pubblico: devono sorprenderlo. È qui che entra in gioco il guerrilla marketing, una strategia che ribalta le regole del gioco e trasforma la creatività in un’arma dirompente.

Il termine guerrilla marketing è stato coniato nel 1982 da Jay Conrad Levinson, che prese spunto dalle tattiche militari di guerriglia: azioni rapide, imprevedibili e a basso costo capaci di cogliere di sorpresa l’avversario. Traslando il concetto al mondo del business, Levinson suggeriva che anche le imprese – specie quelle con budget ridotti – potevano “colpire” i consumatori con iniziative sorprendenti e fuori dagli schemi. Alla base di questa filosofia c’è una regola semplice: piccole risorse, grande impatto. Il guerrilla marketing non punta sulla quantità degli investimenti, ma sulla forza dell’idea e sulla capacità di utilizzare in modo creativo gli spazi e i canali disponibili. Le sue radici affondano nel cultural jamming, movimento che sovverte i messaggi delle grandi multinazionali per restituire potere espressivo ai cittadini e stimolare riflessioni critiche.

Con la digitalizzazione, questa forma di comunicazione ha trovato terreno fertile. Internet amplifica il potere del “non convenzionale”, permettendo a ogni azione di guerriglia di moltiplicarsi in rete grazie al passaparola digitale e alla viralità dei contenuti.

Un’azione ben progettata, infatti, può funzionare su due livelli:

  • Offline, grazie al contatto diretto e alla capacità di stupire in un luogo fisico (una strada, una piazza, un edificio);

  • Online, grazie alla condivisione spontanea sui social, dove l’esperienza diventa racconto, meme, trend o ispirazione.

Naturalmente, non tutte le operazioni di guerrilla marketing sono destinate al successo. L’equilibrio tra coerenza con il brand, chiarezza del messaggio e originalità dell’esecuzione è determinante. Un’idea debole o incoerente rischia di risultare solo bizzarra; un’idea forte, invece, può trasformarsi in un potente strumento di posizionamento e reputazione.

Vediamo ora il guerrilla marketing nel contesto attuale che, soprattutto negli ambienti digitali, ci vede bombardati da un massivo numero di informazioni: un vero e proprio “overload informativo”. In questo contesto, le voci si affollano e si sovrappongono, a tal punto che far emergere la propria a discapito di quella dei competitor è pressoché impossibile, tanto più se si considera che le soglie di attenzione si sono progressivamente abbassate (circola un “mito” secondo cui l’individuo medio avrebbe una soglia di attenzione di circa otto secondi, inferiore addirittura a quella di un pesce rosso, e alcuni studi sembrerebbero confermare questa ipotesi).

Inoltre, bisogna considerare che gli utenti, con il passare del tempo, si sono ormai abituati ai linguaggi pubblicitari, così da diventare sempre più “smaliziati” nei confronti di messaggi di questo tipo, e arrivando a sviluppare una vera e propria diffidenza. Il vantaggio del guerrilla marketing è, allora, quello di raggiungere i potenziali destinatari fuori “dai soliti schermi”, dove i meccanismi di difesa contro la pubblicità e la cosiddetta advertising consciousness sono più bassi e dove è più facile giocare sull’effetto sorpresa.

A proposito dell’effetto sorpresa: nel corso del tempo, diverse teorie hanno provato a spiegarlo, usando persino le evidenze delle neuroscienze per provare a chiarire come funziona e cosa abbia a che vedere con bias cognitivi, euristiche e scorciatoie del pensiero. Fatto sta che nella maggior parte dei casi è stato confermato come l’effetto sorpresa, ed evidentemente anche il cumulo di emozioni positive a esso legate, abbiano un peso molto importante non solo nell’aumentare il livello di attenzione e di coinvolgimento ma anche nel facilitare la risposta alla call-to-action, obiettivo di fondo di qualsiasi campagna di marketing e/o di comunicazione.

In più, sembra che l’effetto sorpresa possa incidere favorevolmente anche sulla memorabilità dell’evento, cioè sulla capacità di imprimere nella mente l’incontro con il brand che si è vissuto. Si tratta, in tutti i casi, di task fondamentali in un’era che, a detta di molti, non è più un’era di marketing del prodotto, ma di marketing della marca e in cui l’obiettivo fondamentale è aumentare i momenti e i “punti” d’incontro tra brand e consumatore.

Il caso Gucci Art Wall: l’arte come linguaggio di marca

Un esempio emblematico di guerrilla marketing nel mondo della moda è rappresentato dal progetto “Gucci Art Wall”, che dal 2017 colora alcune tra le principali città del mondo — da Milano a New York, passando per Londra, Taipei e Hong Kong. L’idea nasce sotto la direzione creativa di Alessandro Michele, con l’obiettivo di trasformare le facciate degli edifici in veri e propri manifesti d’arte urbana. Piuttosto che affidarsi ai tradizionali cartelloni pubblicitari, Gucci sceglie di “occupare” lo spazio urbano con opere murali dipinte a mano, spesso realizzate in collaborazione con artisti internazionali.

Il primo murale, firmato da Angelica Hicks, raffigurava due giovani donne della serie Freaks and Geeks per promuovere una capsule collection di t-shirt in edizione limitata. Da allora, la Wall è diventata una piattaforma espressiva in continua evoluzione: ogni mese cambia volto, offrendo una nuova interpretazione del brand.

Ma il valore dell’iniziativa va oltre la mera visibilità. Gucci utilizza l’Art Wall come mezzo di dialogo culturale e strumento di commento sociale. Campagne come “Common sense is not that common” (2017, con Coco Capitán) o “To gather together” (2019) hanno affrontato temi quali l’uguaglianza di genere, la diversità e la sostenibilità, fondendo estetica e attivismo.

L’elemento chiave è l’“instagrammabilità”: le persone fotografano, condividono, reinterpretano i murales, trasformando ogni opera in contenuto virale. Così il brand conquista lo spazio urbano, il feed dei social e, soprattutto, l’immaginario collettivo.

Il guerrilla marketing dimostra che la creatività resta l’arma più potente nella comunicazione contemporanea. In un contesto saturo di messaggi, sorprendere diventa un atto strategico. Gucci, con il suo Art Wall, ci ricorda che l’arte può essere una forma di branding, capace di generare conversazione, emozione e identità.

Non serve gridare per farsi notare: basta parlare al cuore delle persone in un modo che non si aspettano. E questo, nel marketing, è ancora il colpo più efficace.