Un fragile accordo che doveva fermare le bombe, ma il massacro continua e la pace rimane sospesa, come il sogno dello Stato palestinese.

Prima di poter fare alcune riflessioni sull’accordo sottoscritto per l’accettazione della proposta del Piano di Pace del Presidente Trump, è opportuno fare chiarezza su alcune espressioni in uso che, a parere del sottoscritto, sono da modificare, perché si continua a parlare di guerra a Gaza in maniera inappropriata.

Definire ciò che accade a Gaza come guerra è una distorsione linguistica e morale che serve più a giustificare la violenza che a descrivere la realtà. Nel diritto internazionale, una guerra presuppone due soggetti sovrani che si fronteggiano, due eserciti riconosciuti, un equilibrio minimo di forze e il rispetto delle regole di conflitto previste dalle Convenzioni di Ginevra, i cui Principi fondamentali possono così riassumersi:

  • Distinzione: tra combattenti e civili; solo i primi possono essere attaccati.

  • Proporzionalità: gli attacchi non devono causare danni eccessivi rispetto al vantaggio militare.

  • Necessità militare: ogni azione deve avere uno scopo militare legittimo.

  • Umanità: è vietato infliggere sofferenze inutili.

  • Neutralità: protezione per personale medico e umanitario.

Nulla di tutto ciò esiste nel caso di Gaza: da un lato vi è uno Stato riconosciuto, Israele, dotato di un potente esercito, di una forza aerea e di armamenti tecnologicamente avanzati; dall’altro, una popolazione civile intrappolata in un territorio assediato, priva di un esercito regolare, di difese aeree e di vie di fuga. Non si è trattata dunque di guerra, bensì di una campagna militare unilaterale condotta da una potenza occupante contro una popolazione prigioniera, in condizioni di totale asimmetria. Parlare di “guerra” significa creare l’illusione di uno scontro tra pari, nascondendo una realtà, immotivatamente punitiva di una punizione collettiva, che ha colpito migliaia di civili innocenti, in gran parte donne e bambini, privati di acqua, cibo, cure mediche e riparo.

Molti osservatori e giuristi internazionali hanno denunciato che gli attacchi su Gaza configurano crimini di guerra e, per la loro intensità e sistematicità, atti di natura genocidaria. La parola “guerra” diventa così un velo semantico che copre un massacro, trasformando l’ingiustizia in necessità e la distruzione in legittima difesa. Usare le parole giuste non è un dettaglio formale: è un atto di verità.

Finché si continuerà a chiamare guerra ciò che è stata, in realtà, un’operazione di sterminio contro una popolazione occupata, sarà impossibile riconoscere la piena gravità morale e politica di quanto avviene, e con essa la responsabilità di porvi realmente fine. A rafforzare questa ambiguità contribuisce la narrazione dominante dei media occidentali e la complicità diplomatica di molti governi europei e statunitensi, che adottano il linguaggio della “guerra” per evitare di dover pronunciare parole come occupazione, apartheid o genocidio, orientando così l’opinione pubblica a percepire l’aggressione come un conflitto legittimo e simmetrico, e non come l’espressione di un potere coloniale che continua a negare al popolo palestinese i diritti fondamentali.

Piano di Pace per Gaza proposto dal presidente Donald J. Trump – settembre 2025

Per esprimere una valutazione sull’eventuale sussistente possibilità di creare lo Stato di Palestina, in considerazione dell'estrema complessità dei problemi esistenti e dei potenziali ostacoli derivanti da fattori politici, militari, giuridici e diplomatici, si ritiene indispensabile una preliminare attenta lettura e commento dei 20 punti della proposta di Trump e successivamente dell’accordo sottoscritto.

  1. Gaza sarà deradicalizzata, liberata dal terrorismo e non rappresenterà più una minaccia per i suoi vicini.

  2. Riqualificazione di Gaza a beneficio della popolazione, con ricostruzione e sviluppo.

  3. Cessate il fuoco immediato se entrambe le parti accettano: le IDF si ritireranno su una linea concordata per il rilascio degli ostaggi.

  4. Entro 72 ore, tutti gli ostaggi israeliani (vivi o deceduti) saranno restituiti.

  5. Israele rilascerà 250 ergastolani e 1.700 detenuti palestinesi, comprese donne e bambini.

  6. Amnistia per i membri di Hamas che si disarmeranno e accetteranno la coesistenza pacifica.

  7. Invio immediato di aiuti umanitari, secondo gli standard dell’accordo del 19 gennaio 2025.

  8. Distribuzione degli aiuti senza interferenze, tramite ONU, Mezzaluna Rossa e altri enti neutrali.

  9. Governo transitorio di Gaza affidato a un comitato tecnocratico palestinese, supervisionato da un “Board of Peace” presieduto da Trump e Tony Blair.

  10. Piano di sviluppo economico per attrarre investimenti e creare occupazione.

  11. Zona economica speciale con tariffe agevolate.

  12. Nessuno sarà costretto a lasciare Gaza; chi lo desidera potrà farlo liberamente.

  13. Esclusione totale di Hamas dalla governance e smilitarizzazione completa, con distruzione delle infrastrutture militari.

  14. Garanzie regionali per il rispetto degli impegni da parte di Hamas.

  15. Forza di Stabilizzazione Internazionale (ISF) per supportare la sicurezza interna e la polizia palestinese.

  16. Israele non occuperà né annetterà Gaza; ritiro graduale delle IDF in base a tappe concordate.

  17. Attuazione parziale del piano anche se Hamas ritarda o rifiuta.

  18. Dialogo interreligioso per promuovere tolleranza e coesistenza.

  19. Possibile percorso verso uno Stato palestinese, subordinato a riforme dell’ANP.

  20. Dialogo politico tra Israele e Palestina per una coesistenza pacifica e prospera.

Breve analisi geopolitica e umanitaria dei punti della proposta

Si ritengono importanti alcuni chiarimenti sul significato della proposta per avere poi chiarezza sul significato di quanto sottoscritto con il relativo accordo.

  • 1–2 - Deradicalizzazione e Riqualificazione di Gaza. Il concetto di “deradicalizzazione” è ambiguo e rischia di essere interpretato come imposizione ideologica. Chi decide cosa è “radicale”? Senza un processo partecipativo, senza la presenza di rappresentanti del popolo palestinese che, ovviamente, non può essere rappresentato dai terroristi di Hamas, tale azione può essere percepita come colonizzazione culturale. La riqualificazione è certamente positiva, ma senza garanzie di autodeterminazione rischia di essere una ricostruzione imposta, non condivisa, dunque un fallimento.

  • 3–5 - Cessate il fuoco, rilascio ostaggi e prigionieri. Il piano propone uno scambio, ma non affronta le cause strutturali del conflitto. È una tregua, non una pace. Infatti, il rilascio di donne e bambini è un atto dovuto, ma la selezione dei prigionieri può essere strumentalizzata politicamente, come di fatto sembra avvenire evitando il rilascio di leader della causa palestinese.

  • 6 - Amnistia per membri di Hamas. Per essere eticamente e politicamente accettabile, deve essere parte di un processo più ampio che contempli un insieme di misure (processi giudiziari, commissioni di verità, risarcimenti, riforme istituzionali) che aiutano una società a riconoscere le vittime, punire almeno i crimini più gravi e ricostruire la fiducia nelle istituzioni.

  • 7–8 - Aiuti Umanitari e Distribuzione Neutrale. L’invio di aiuti è essenziale, ma la neutralità degli attori (ONU, Mezzaluna Rossa) deve essere garantita e rispettata da tutte le parti. Neutralità che potrà esserci col cessate il fuoco in maniera stabile, diversamente gli aiuti rischiano di essere strumentalizzati o bloccati.

  • 9 - Governo Transitorio e Supervisione Trump–Blair. La supervisione da parte di due figure occidentali (Trump e Blair) potrebbe essere vista come neocolonialismo politico. Dov’è la rappresentanza palestinese? Un governo tecnocratico può funzionare solo se ha legittimità popolare e non è percepito come imposto.

  • 10–11 - Sviluppo Economico e Zona Speciale Investimenti e incentivi sono fondamentali per la ricostruzione, ma senza sovranità economica e controllo delle risorse, Gaza rischia di diventare un enclave dipendente da capitali esterni.

  • 12 - Libertà di Movimento È un diritto fondamentale. Tuttavia, la libertà di uscire non deve diventare pressione all’esodo o “pulizia demografica” mascherata.

  • 13–14 - Esclusione di Hamas e Garanzie Regionali. L’esclusione totale di Hamas senza un processo politico rischia di radicalizzare ulteriormente la popolazione. Le “garanzie regionali” sono vaghe: chi le fornisce? Con quale legittimità?

  • 15 - Forza di Stabilizzazione Internazionale (ISF). Un fatto positivo in teoria, ma rischioso se percepito come forza di occupazione straniera. Dovrebbe essere multilaterale, neutrale e sotto mandato ONU.

  • 16–17 - Ritiro Israeliano e Attuazione Parziale. L’attuazione parziale del ritiro significa che non è completo: alcune aree o gruppi sono coinvolti, altri no. Dunque, un ritiro che, non avendo tempi certi, potrebbe minare la fiducia e creare un sistema a due velocità. Si crea cioè una disuguaglianza: alcune zone o gruppi beneficiano del ritiro, mentre altri restano sotto controllo. Questo genera divisioni e frustrazione. Serve chiarezza su tempi, modalità e garanzie del ritiro, non previste allo stato attuale.

  • 18 - Dialogo Interreligioso. Promuovere la tolleranza è essenziale, ma deve essere parte di un processo educativo e culturale profondo, non solo simbolico.

  • 19–20 - Stato palestinese e Dialogo politico. Il riferimento a uno Stato palestinese appare vago e subordinato a condizioni. Senza un riconoscimento esplicito al diritto all’autodeterminazione, rischia di essere solo retorica. Il dialogo è fondamentale, ma deve essere tra pari, non tra occupante e occupato.

Conclusione parziale sull'Analisi. Il piano Trump per Gaza contiene elementi pragmatici e umanitari, ma è fortemente sbilanciato in senso geopolitico. Manca una reale centralità del popolo palestinese come soggetto politico e storico. Senza giustizia, verità e riconoscimento dei diritti fondamentali, la pace rischia di essere una tregua del massacro. Nessun riferimento è stato fatto alle risorse energetiche esistenti in acque palestinesi del mare di Gaza e licenze rilasciate da Israele per l’esplorazione del gas entro il confine marittimo della Palestina, tutto durante il massacro dei palestinesi di Gaza.

L’Accordo di pace sottoscritto

Di seguito è riportato il testo integrale dell'accordo di pace sottoscritto, promosso da Donald Trump, e firmato il 13 ottobre 2025 a Sharm el-Sheikh, in Egitto, durante un vertice internazionale sul futuro della Striscia di Gaza.

Noi sottoscritti accogliamo con favore l'impegno e l'attuazione davvero storici da parte di tutte le parti dell'Accordo di Pace di Trump, che pone fine a oltre due anni di profonda sofferenza e perdita, aprendo un nuovo capitolo per la regione caratterizzata da speranza, sicurezza e una visione condivisa di pace e prosperità. Sosteniamo e sosteniamo i sinceri sforzi del Presidente Trump per porre fine alla guerra a Gaza e portare una pace duratura in Medio Oriente. Insieme, attueremo questo accordo in modo da garantire pace, sicurezza, stabilità e opportunità per tutti i popoli della regione, compresi palestinesi e israeliani. Siamo consapevoli che una pace duratura sarà una pace in cui sia i palestinesi che gli israeliani potranno prosperare, con i loro diritti umani fondamentali tutelati, la loro sicurezza garantita e la loro dignità tutelata.

Affermiamo che un progresso significativo emerge attraverso la cooperazione e un dialogo costante e che il rafforzamento dei legami tra nazioni e popoli serve gli interessi duraturi della pace e della stabilità regionale e globale. Riconosciamo il profondo significato storico e spirituale di questa regione per le comunità religiose le cui radici sono intrecciate con il territorio, tra cui Cristianesimo, Islam ed Ebraismo. Il rispetto per questi sacri legami e la protezione dei loro siti patrimoniali rimarranno fondamentali nel nostro impegno per la coesistenza pacifica.

Siamo uniti nella determinazione a smantellare l'estremismo e la radicalizzazione in tutte le loro forme. Nessuna società può prosperare quando la violenza e il razzismo sono normalizzati, o quando ideologie radicali minacciano il tessuto della vita civile.

Ci impegniamo ad affrontare le condizioni che favoriscono l'estremismo e a promuovere l'istruzione, le opportunità e il rispetto reciproco come fondamenti per una pace duratura. Ci impegniamo pertanto a risolvere le controversie future attraverso l'impegno diplomatico e la negoziazione, piuttosto che con la forza o un conflitto prolungato.

Riconosciamo che il Medio Oriente non può sopportare un ciclo persistente di guerre prolungate, negoziati in stallo o l'applicazione frammentaria, incompleta o selettiva di termini negoziati con successo. Le tragedie a cui abbiamo assistito negli ultimi due anni devono servire da urgente promemoria del fatto che le generazioni future meritano di meglio dei fallimenti del passato. Ricerchiamo tolleranza, dignità e pari opportunità per ogni persona, garantendo che questa regione sia un luogo in cui tutti possano perseguire le proprie aspirazioni in pace, sicurezza e prosperità economica, indipendentemente da razza, fede o etnia. Perseguiamo una visione globale di pace, sicurezza e prosperità condivisa nella regione, fondata sui principi del rispetto reciproco e del destino comune.

In questo spirito, accogliamo con favore i progressi compiuti nella definizione di accordi di pace globali e duraturi nella Striscia di Gaza, nonché le relazioni amichevoli e reciprocamente vantaggiose tra Israele e i suoi vicini regionali. Ci impegniamo a lavorare collettivamente per attuare e sostenere questa eredità, costruendo fondamenta istituzionali su cui le generazioni future possano prosperare insieme in pace. Ci impegniamo per un futuro di pace duratura.

Donald J. Trump Presidente degli Stati Uniti d'America; Abdel Fattah El-Sisi Presidente della Repubblica Araba d'Egitto; Tamim bin Hamad Al-Thani Emiro dello Stato del Qatar; Recep Tayyip Erdogan Presidente della Repubblica di Turchia.1

Analisi dell’accordo sottoscritto

Con l’accordo firmato a Sharm el-Sheikh, i partecipanti si impegnano formalmente a porre fine alla guerra di Gaza. Tuttavia, come già evidenziato, più che di una guerra si è trattato di un massacro. I firmatari dichiarano di essere «consapevoli che una pace duratura sarà una pace in cui sia i palestinesi che gli israeliani potranno prosperare, con i loro diritti umani fondamentali tutelati, la loro sicurezza garantita e la loro dignità rispettata». Una dichiarazione di principio che, tuttavia, appare in contrasto con i contenuti effettivi dei 20 punti del piano.

L’accordo, infatti, non menziona la Cisgiordania, che rappresenta la parte più estesa del territorio rivendicato per un futuro Stato palestinese. Proprio in quella regione, anche durante la firma dell’accordo, continuano a essere costruiti insediamenti di coloni israeliani, spesso accompagnati da atti di forza e sopraffazione, talvolta con il supporto delle forze armate israeliane. L’intesa si concentra esclusivamente su Gaza, accettando integralmente la proposta di Trump senza riserve né obiezioni, come già discusso nei paragrafi precedenti.

In definitiva, la sottoscrizione dell’accordo ha certamente interrotto il massacro in corso, ma non garantisce una pace duratura. Pur rappresentando un evento storico di grande rilievo, che ha suscitato l’attenzione e la speranza della comunità internazionale, l’accordo sembra più orientato a fermare temporaneamente le ostilità che a risolvere le cause profonde del conflitto.

Un ulteriore elemento critico è che l’accordo coinvolge quasi esclusivamente Hamas – che, pur non avendo ancora firmato, è considerata la controparte principale – escludendo l’Autorità Nazionale Palestinese, che governa la Cisgiordania. È noto, però, che le vittime palestinesi del conflitto non si limitano ai membri di Hamas, ma comprendono soprattutto una popolazione civile martoriata. Inoltre, la scelta di negoziare con Hamas, organizzazione considerata terroristica da molti Stati, solleva interrogativi sulla legittimità e sulla sostenibilità dell’intesa.

Nella storia di ogni popolo ci sono pagine complesse e dolorose. Anche Israele ha avuto gruppi e individui che, in determinati contesti storici, sono stati considerati terroristi. Ma è fondamentale distinguere queste azioni dal popolo israeliano nel suo insieme, che non può essere identificato con l’estremismo. Allo stesso modo, il popolo palestinese non può essere confuso con i terroristi di Hamas. Generalizzare significa tradire la verità e ostacolare ogni possibilità di dialogo e pace.

Non si può ignorare, infine, il contesto in cui si è verificato il tragico attacco del 7 ottobre: un evento che ha sollevato dubbi sulla mancata reazione dei sofisticati sistemi di sicurezza israeliani, rimasti inspiegabilmente inerti.2

La mancanza di unità politica tra le fazioni palestinesi rende ancora più fragile l’accordo: nessuna decisione presa a Gaza può rappresentare l’intero popolo palestinese, né risolvere le rivendicazioni strutturali che alimentano il conflitto. Il rischio di nuovi scontri interni resta elevato.

Inoltre, il conflitto rimane profondamente asimmetrico: Israele dispone di un esercito avanzato, del controllo dello spazio aereo e delle frontiere, nonché del dominio sui flussi economici. Gaza, al contrario, resta una popolazione assediata e militarmente impotente. Anche in presenza di un cessate il fuoco, Israele potrebbe continuare operazioni unilaterali, rendendo la tregua fragile e subordinata alla volontà del più forte.

La tregua, infine, non affronta le cause strutturali del conflitto: l’occupazione della Cisgiordania, il blocco economico di Gaza, lo status conteso di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei rifugiati e le profonde disuguaglianze nei diritti e nelle libertà tra israeliani e palestinesi. Senza affrontare questi nodi, ogni accordo resta precario, fondato più sulla necessità di fermare le armi che su una visione di giustizia.

Anche il ruolo dei mediatori internazionali – Egitto, Qatar, Stati Uniti, Unione Europea – appare ambiguo: pur presentandosi come garanti della pace, spesso agiscono secondo interessi strategici propri, più che per una riconciliazione equa e sostenibile.

Il ciclo di violenza e vendette rischia così di riaccendersi rapidamente, impedendo una tregua stabile. Un accordo che ferma il massacro può salvare vite nel breve termine, ma non può trasformarsi in pace duratura senza una struttura politica inclusiva, equa e condivisa, in cui siano riconosciuti i diritti fondamentali, garantita la sicurezza e rispettata la sovranità di entrambe le parti.

Verso una pace giusta e duratura: oltre la tregua

Per costruire una pace duratura tra israeliani e palestinesi non è sufficiente un semplice “cessate il fuoco” in una parte del territorio, cosa che ancor oggi 20 settembre 2025 non è realmente avvenuta, lasciando l’altra sotto controllo militare israeliano. Serve un cambiamento strutturale, politico e soprattutto morale, fondato sul riconoscimento reciproco, sulla giustizia e sull’equilibrio dei diritti e delle responsabilità. La pace non può nascere da una resa, né da un dominio, né da un accordo senza la partecipazione delle reali parti interessate, ma solo da un’autentica comune volontà di convivenza.

È necessario riconoscere pienamente l’esistenza e la dignità del popolo palestinese, garantendogli un territorio sovrano, contiguo e vitale, che comprenda la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, con Gerusalemme Est, a parere dello scrivente, da rendere autonoma e da porre sotto un’amministrazione internazionale neutrale con la partecipazione diretta dei rappresentanti dei due popoli.

Parallelamente, Israele deve poter godere di una sicurezza effettiva entro confini riconosciuti e tutelati dal diritto internazionale, non imposti dall’espansione militare. L’abolizione degli insediamenti illegali, la fine dell’occupazione e la restituzione graduale delle terre sottratte sono condizioni imprescindibili per una reale coesistenza. In assenza di questi presupposti, si rischia di discutere di territori virtuali, anziché di uno Stato palestinese concreto e sostenibile.

Ma la pace non si costruisce solo con trattati e mappe: richiede un processo di riconciliazione, memoria e verità. È indispensabile un percorso educativo reciproco, dopo decenni di demonizzazione e paura. Serve un impegno condiviso per la ricostruzione, la cooperazione economica, la tutela delle risorse comuni — come il gas del Mediterraneo — e la creazione di istituzioni binazionali dedicate al dialogo e allo sviluppo.

Solo quando la giustizia sarà percepita come equa da entrambe le parti, e quando la libertà dei palestinesi sarà considerata condizione necessaria per la sicurezza degli israeliani, allora si potrà parlare non più di tregua, ma di vera pace, destinata a durare.

Il “Piano Trump” e la questione del territorio palestinese

Quale futuro territorio sarebbe realmente assegnato al popolo palestinese secondo l’accordo proposto da Donald Trump?

Il piano di pace, già accettato da Israele e in attesa di una risposta ufficiale da parte di Hamas e non dei palestinesi, non prevede l’assegnazione di nuovi territori ai palestinesi, ma si concentra esclusivamente sulla gestione della Striscia di Gaza. Secondo il testo, Gaza non sarà né occupata, né annessa da Israele, ma sarà smilitarizzata e “deradicalizzata” — un concetto già discusso in precedenza. La governance sarà affidata a un comitato palestinese tecnocratico e apolitico, sotto la supervisione di un organismo internazionale denominato Board of Peace, presieduto da Donald Trump e con membri come Tony Blair.

I palestinesi saranno così sempre esclusi dalla gestione del territorio. I terroristi di Hamas potranno ottenere l’amnistia se rinunceranno alla violenza, oppure lasciare Gaza con un passaggio sicuro verso altri Paesi.

L’aspetto più critico del piano è l’assenza assoluta di qualsiasi riferimento alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est, territori storicamente rivendicati dai palestinesi e dove attualmente vivono milioni di loro. Il piano, dunque, non affronta la questione della creazione di uno Stato palestinese completo, né propone confini definiti. Gaza verrebbe trasformata in una Zona Economica Speciale, con tariffe agevolate e investimenti internazionali per la ricostruzione e lo sviluppo. Tuttavia, non è chiaro se le infrastrutture e le risorse saranno effettivamente sotto controllo palestinese. In caso contrario, il rischio è che i palestinesi si ritrovino a vivere come semplici lavoratori in un territorio gestito da altri, privi di reale sovranità e ancora esposti a forme di violenza e discriminazione.

In sintesi, il piano Trump assegna ai palestinesi solo la Striscia di Gaza, e lo fa con forti limitazioni: nessuna autonomia militare, ovvia esclusione di Hamas, e supervisione internazionale. Non viene però proposta la creazione di uno Stato palestinese sovrano, né si fa menzione dei territori della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, lasciando irrisolte le principali rivendicazioni territoriali e politiche del popolo palestinese. Pertanto, si pensa realmente che potrebbe esserci un periodo di vera pace?

Il “Piano Trump” ignora il riconoscimento internazionale che ha un consenso crescente

Se l’accordo risultasse assolutamente insufficiente a poter creare lo Stato di Palestina, è opportuno tenere conto che 157 Paesi su 193 membri ONU riconoscono formalmente lo Stato di Palestina, con un riconoscimento ampio, ma non vincolante, che non comporta automaticamente la nascita di uno Stato sovrano.3

Recentemente anche Francia, Regno Unito, Canada, Australia, Portogallo, Belgio, Malta e Lussemburgo hanno aderito al riconoscimento.4-5

Tuttavia, Israele, Stati Uniti, Germania, Italia e altri alleati si oppongono, ritenendo prematuro il riconoscimento senza un accordo negoziato, ma quale accordo negoziato potrà mai avere reale concretezza se mentre si firmano gli accordi senza i palestinesi, ma eventualmente solo con i terroristi, nello stesso tempo si continuano ad occupare le aree destinabili ai palestinesi e continua il massacro su Gaza? Se nello stesso tempo si continuano a rilasciare licenze di concessione per l’utilizzo delle risorse naturali esistenti nelle acque marine dei palestinesi?

Conclusione: il riconoscimento è ampio formalmente, ma non vincolante e non comporta automaticamente la nascita di uno Stato sovrano.

Considerazioni finali: la proposta Trump e l’illusione dello Stato palestinese

La proposta di pace avanzata da Donald Trump, pur ricca di dichiarazioni d’intenti, si rivela nei fatti un piano che compromette gravemente la possibilità concreta di creare uno Stato palestinese sovrano. Nei suoi venti punti, il piano non menziona esplicitamente la nascita di uno Stato palestinese, né assegna territori oltre Gaza, come la Cisgiordania, prevedendo che Gerusalemme Est resti territorio israeliano, nonostante sia da sempre rivendicata dai palestinesi.

Il documento stabilisce che Gaza sia amministrata da un comitato tecnocratico palestinese, sotto la supervisione di un Board of Peace internazionale presieduto da Trump e Tony Blair. Alla luce delle esperienze passate, è lecito supporre che il popolo palestinese non possa avere alcuna reale influenza in tale struttura.

Il piano lascia intravedere una vaga possibilità di futura governance palestinese autonoma, ma:

  • non stabilisce un calendario per la creazione dello Stato;

  • non fa riferimento a rappresentanti legittimi del popolo palestinese, né all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) o ad altri attori civili, subordinando ogni sviluppo a una riforma della stessa ANP, che però non viene agevolata. Ciò lascia intendere un’esclusione di fatto della sovranità palestinese e del diritto all’autodeterminazione;

  • dialoga con Hamas, ma non con i rappresentanti democratici e non violenti del popolo palestinese, legittimando così un gruppo armato e marginalizzando chi lavora per la pace;

  • non affronta la questione dell’occupazione della Cisgiordania, né quella di Gerusalemme Est, omissione che può essere interpretata come una legittimazione dello status quo;

  • mantiene un controllo esterno sulla transizione e sulla ricostruzione;

  • utilizza un linguaggio diplomatico che maschera l’assenza di soluzioni concrete: parole come “visione condivisa”, “prosperità”, “dignità” e “rispetto” evocano ideali positivi, ma non sostituiscono l’impegno concreto per la creazione di due Stati sovrani.

A rendere ancora più critica la situazione è la continua espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, che frammenta il territorio e impedisce la continuità geografica necessaria a uno Stato palestinese funzionale.6-7 Dal 2012, la Palestina è riconosciuta come Stato osservatore non membro presso le Nazioni Unite.8 Recentemente, la Corte Internazionale di Giustizia ha dichiarato illegale l’occupazione israeliana, chiedendone la fine.9 Tuttavia, il veto sistematico degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza continua a bloccare l’ammissione della Palestina come Stato membro a pieno titolo.

Alla luce di quanto esposto, è evidente che le istituzioni internazionali, pur rafforzando la legittimità giuridica della Palestina, non dispongono del potere esecutivo necessario per imporre la creazione di un nuovo Stato. Il piano Trump, lungi dal favorire la nascita di una sovranità palestinese, propone una gestione internazionale di Gaza che esclude ogni reale prospettiva di autodeterminazione e rinvia indefinitamente la questione dello Stato.

Non si tratta, dunque, di una proposta di pace duratura, ma di una tregua condizionata che lascia la Cisgiordania all’espansione coloniale e Gaza sotto controllo esterno. La situazione sul terreno rende quasi impossibile la nascita di uno Stato palestinese con confini definiti e governo indipendente. La creazione di uno Stato palestinese resta quindi una promessa vaga, un sogno irraggiungibile.

L’illusione della tregua e la realtà del massacro

Nonostante le dichiarazioni di intenti, l’accordo non affronta le radici profonde del conflitto, non riconosce il diritto dei palestinesi a uno Stato e non propone un processo realmente inclusivo e multilaterale. Per queste ragioni, rischia di allontanare ulteriormente la prospettiva della soluzione dei Due Stati e, con essa, la possibilità di una pace duratura tra i due popoli e nell’intero Medio Oriente.

Va tuttavia riconosciuto che, nel breve termine, l’accordo promosso da Trump e firmato a Sharm el-Sheikh avrebbe potuto avere il merito di interrompere, almeno temporaneamente, il massacro in corso nella Striscia di Gaza, offrendo una tregua per salvare vite umane e aprire uno spiraglio di speranza. Un merito che, purtroppo, è stato vanificato dal perdurare delle uccisioni di civili, inclusi numerosi bambini.10

Se le fragili e controverse ipotesi alla base dell’accordo dovessero rivelarsi irrealizzabili, sarebbe verosimile attendersi non solo una ripresa delle ostilità in quel martoriato territorio, ma anche l’innesco di nuove tensioni e conflitti con ripercussioni in altre aree del mondo.

La mancata attuazione di una pace giusta e duratura rischia di alimentare ulteriormente l’instabilità regionale e globale, con conseguenze difficilmente prevedibili ma potenzialmente devastanti.

Speranza e giustizia: l’unica strada possibile

Le violenze sistematiche perpetrate contro il popolo palestinese, l’occupazione illegale e la negazione dei diritti fondamentali alimentano un profondo senso di ingiustizia e disperazione. In tale contesto, il rischio di nuove insorgenze radicali e atti terroristici non può essere ignorato, pur nella ferma speranza che il dolore non si trasformi in ulteriore violenza.

La speranza, tuttavia, è l’ultima a morire: quella di una soluzione giusta, di una pace fondata sul riconoscimento reciproco, sulla dignità e sulla sovranità dei popoli. Solo così potrà nascere una convivenza duratura, lontana dalla logica della vendetta e della sopraffazione.11

Note

1 Il testo integrale è riportato dall'articolo Gaza, il testo integrale dell'accordo di pace firmato a Sharm el Sheikh, del 14 ottobre 2025.
2 Israele sapeva?, pubblicato su Meer nel mese di agosto, 2025.
3 Per approfondire l'argomento leggere la pagina di Wikipedia: Riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina.
4 Per approfondire, leggere la rubrica del TGLa7: Stato di Palestina, cosa significa il riconoscimento e chi è a favore e chi no.
5 Su Today gli Stati che riconoscono la Palestina come Stato: Quali stati riconoscono la Palestina nel 2025: l'elenco aggiornato, e mappa.
6 Lo stato di Palestina rimane più lontano che mai, articolo del Post, pubblicato il 23 settembre 2025.
7 Per riconoscere lo Stato palestinese bisogna superare questi ostacoli, articolo uscito nell'agosto del 2025 sul sito di informazione La legge per tutti.
8 Lo status della Palestina all’ONU – Come diventare uno Stato membro dell’ONU?, articolo dall'Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
9 Come le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia e dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite rafforzano la Causa Palestinese, su Invicta Palestina, 24 settembre 2024.
10 Spari dell’Idf sulla tregua a Gaza: sterminata famiglia di 11 persone, La Repubblica, 19 ottobre 2025.
11 La redazione del presente articolo è stata completata il 20 ottobre 2025.