Il plurisecolare metodo del Conclave, per eleggere il nuovo Papa, ha funzionato come sempre, unendo efficienza e rapidità di decisione, con massima discrezione, anzi quasi assoluta segretezza; grande fascino e sublime arte (pensiamo alla bellezza della Cappella Sistina), con suggestive tradizioni e cerimonie (il famoso comignolo delle fumate, o l’annuncio al popolo dell’Eletto, dalla balconata di San Pietro, da parte del cardinale nell’ordine diaconale nominato da più tempo).

Nella nostra epoca mediatica, la Chiesa è riuscita a comunicare con grande efficacia, con un rito seguito dalle televisioni di tutto il mondo e con una presenza immensa di persone in Piazza San Pietro (a questo proposito, poi, non farei differenze tra credenti e semplici turisti, non soltanto perché i ruoli sono intercambiabili ed entrambi legittimi, ma perché la maternità della Chiesa – come insegnato da Papa Francesco – deve accogliere tutti senza condizioni e troppi distinguo, come richiamato dallo stesso Leone XIV quando faceva notare l’abbraccio universale e simbolico di San Pietro col famoso colonnato semicircolare). Ed è sempre sorprendente vedere come il Conclave riesca a trasformare – nel segreto del suo spirituale e umanissimo meccanismo - la porpora del cardinale prescelto in una talare bianca, che immediatamente fa diventare colui che la indossa guida di tutta la cristianità.

Il cardinale Robert Francis Prevost (nato a Chicago il 14 settembre 1955) vanta già in partenza alcune caratteristiche uniche: è il primo Papa appartenente all’Ordine religioso degli Agostiniani (di cui dal 2001 al 2013 ne è stato Priore generale, dopo esser stato anche padre provinciale della relativa provincia agostiniana di Chicago); è il primo Papa statunitense (anche se ha svolto dal 2014 al 2023 il suo ministero episcopale in Perù), ed è il primo a chiamarsi Roberto (ad eccezione dell’antipapa Clemente VII). Papa Francesco, dopo averlo nominato vescovo nel 2014, lo eleva al cardinalato nel settembre 2023, in seguito alla nomina, presso la Santa Sede, di Prefetto dell’importante e centrale Dicastero per i vescovi (che ha soprattutto la competenza per la selezione e nomina dei nuovi vescovi di tutto il mondo). Dopo la laurea in scienze matematiche e in filosofia, prende la laurea in teologia e consegue poi il dottorato a Roma in diritto canonico; conosce più di cinque lingue ed è stato anche docente e rettore di seminari sia diocesani che del suo Ordine religioso.

Da questa biografia di tutto rispetto ne esce la figura di una persona colta, dotata di molta esperienza ecclesiale, e che ha dimostrato nei vari incarichi svolti di essere una persona di forte tempra ma nello stesso tempo mite, con una propensione al dialogo, all’ascolto e con uno spirito pragmatico per cercare di risolvere i problemi. Nei suoi primi due discorsi mi sono piaciuti due importanti riferimenti. Il primo ad un pensiero di Sant’Agostino – rispetto alla ribadita sinodalità della Chiesa – secondo cui “se mi atterrisce l’essere per voi, mi consola l’essere con voi: perché per voi sono vescovo, con voi sono cristiano; quello è nome di ufficio, questo di grazia; quello nome di pericolo, questo di salvezza”. Pertanto, occorre recuperare appieno la dignità di battezzati che vivono e camminano insieme, che si aiutano reciprocamente e che hanno la consapevolezza che ciascuno – come ribadito da Papa Francesco – può essere maestro perché vero (e per sempre) discepolo.

Il secondo, poi, al richiamo – per chi svolge incarichi di governo – del dovere di ridurre il peso della propria presenza per lasciare spazio a Cristo. Del resto, “non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire” (Giovanni 3,28-30). Senza contare che, “noi abbiamo questo tesoro (quello dello splendore del glorioso Vangelo di Cristo) in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi” (2 Corinzi 4,7). In questo siamo in linea con la giusta insistenza di Papa Francesco rispetto al “clericalismo”, che si potrebbe proprio definire come un “mezzo” che oscura il “fine”, come un contenitore che vuole prevalere sul contenuto, come qualcosa che chiude il cammino, anziché un ponte verso nuove mete.

Pertanto la figura di questo nuovo Papa sembra utile nel proseguire ed anzi portare a compimento alcune prospettive indicate dal predecessore (col quale peraltro ha sempre avuto un ottimo rapporto ed a cui deve molto della propria evoluzione ecclesiale). A questo riguardo vorrei proporre due osservazioni. La prima, rispetto a Papa Francesco, non mi pare corretto affermare che Bergoglio abbia diviso la Chiesa; essa era già “divisa” nel senso che esistono non soltanto sensibilità, metodi e priorità diverse, ma in se stessa – continuamente combattuta dal “nemico” (Satana) – è esposta di continuo a tentazioni e divisioni; senza contare poi che su alcuni problemi centrali (ad esempio: diaconato delle donne, alcuni temi di morale sessuale, maggior coerenza evangelica, ruolo dei fedeli laici) la ricerca teologica è stata un po’ frenata o comunque mai adeguatamente valorizzata. Ecco allora che il merito di Papa Francesco è stato quello di non mettere la polvere sotto il tappeto, ma con “parresia” (cioè con franchezza e chiarezza evangelica) di far uscire allo scoperto – senza ipocrisie – i problemi.

Secondo, ogni papato si pone in continuità ma anche con elementi di novità rispetto al precedente (anzi, c’è chi sostiene che ogni Papa compensi, completi e superi quello precedente, almeno rispetto ai tempi nuovi). Anche la scelta del nome – in discontinuità – non pone alcun problema, come fece ad esempio Papa Benedetto XVI rispetto al predecessore (di cui fu il principale collaboratore-continuatore). Inoltre, la scelta del nome Leone – rifacendosi all’immediato predecessore Leone XIII (come da lui stesso dichiarato) – pone Prevost in coerente linea con la sua attenzione al sud del mondo (anche per la sua esperienza di pastore in Perù).

Ricordiamo che Leone XIII fu il Papa della famosa Enciclica “Rerum novarum”, la quale pose le basi per la “moderna” dottrina sociale della Chiesa, vale a dire l’insieme dei principi, insegnamenti, riflessioni e direttive emanate e proposte dalla Chiesa cattolica sui problemi di natura economica e sociale. Interessante, poi, notare che Leone XIII fu anche un Papa di forte connotazione spirituale, dal momento che scrisse una preghiera esorcistica a San Michele (pare composta dopo una sua visione) ancora oggi riconosciuta. Va anche ricordata l’azione di Papa Leone I, e il Concilio di Calcedonia che si celebrò nel 451 (con la famosa dichiarazione delle due nature di Cristo, distinte ma non separate nell’unica persona).

Significativo anche il motto del Pontefice (uguale a quello che già aveva come Vescovo e Cardinale), che è una frase che Sant’Agostino pronunciò in un sermone “L’esposizione sul Salmo 127”, per spiegare che “sebbene noi cristiani siamo molti, nell’unico Cristo siamo uno” (“In illo uno unum”). Bello questo richiamo alla molteplicità – giacché ciascuno di noi possa riverberare una diversa scintilla dell’amore di Dio – ma uniti dalla divinità onnicomprensiva di Cristo. La comunità agostiniana di Pavia – che custodisce il corpo di Sant’Agostino nella Basilica di San Pietro in ciel d’oro (citata nella Divina Commedia, canto X del Paradiso) - dopo la visita pavese di Benedetto XVI nel 2007, accompagnato proprio dall’allora “Superiore generale” degli Agostiniani padre Robert Francis Prevost, e dopo altre visite pavesi di quest’ultimo, tra cui l’ultima come Cardinale nel febbraio 2024 per la chiusura dell’Anno Agostiniano, sperano con gioia nella nuova visita di Papa Leone XIV sulla tomba del grande Padre della Chiesa.

Quello che mi stupisce, pur non delegittimando alcuno che voglia seguire vicende così rilevanti per la vita della Chiesa (ed importanti anche per aspetti politici generali), è vedere vaticanisti improvvisati (giusto interessati alla Chiesa ad ogni morte di Papa, anche se talvolta sono apprezzabili analisi più “laiche”) che si lanciano in perentori giudizi. Io, a questo riguardo, ricordo la risposta che mi diede il Cardinal Siri (allora influente Arcivescovo di Genova) nel 1986, quando durante la mia intervista esclusiva (piuttosto importante, in quanto mi chiese di divulgarla soltanto dopo la sua morte; venne da me infatti pubblicata su ”L’Osservatore Romano” del 20 agosto 2006), alla mia domanda se il Concilio Vaticano II si fosse giovato del fatto di esser stato guidato da ben due Papi (Giovanni XXIII e Paolo VI), secca fu la sua risposta: “tra un secolo le risponderò!” Ecco la saggia prudenza storica nel dare giudizi (peraltro da un personaggio di grande esperienza ecclesiale e capacità intellettuali). Saggezza storica che, oggi, non vedo così praticata… Nemmeno da uomini di Chiesa.