Nel 2019, Kaïs Saïed è stato eletto presidente della Tunisia, promettendo una nuova era di giustizia, legalità e, soprattutto, una democrazia piena e funzionante. All’inizio del suo mandato molti tunisini hanno visto in lui una figura che avrebbe potuto finalmente mettere fine alla corruzione politica che aveva dominato il paese. Tuttavia, a distanza di pochi anni, la realtà si è rivelata ben diversa.

Nel luglio 2021, Saïed ha compiuto un colpo di stato “costituzionale”, sospendendo il Parlamento e assumendo pieni poteri sotto la giustificazione dell’emergenza sanitaria. Da quel momento, la Tunisia è entrata in una fase di regressione democratica. Il presidente ha avocato a sé il controllo di tutte le istituzioni, riformando la Costituzione e centralizzando il potere nelle proprie mani, al di là di qualsiasi controllo democratico. La promessa di un Paese più libero è stata dunque tradita, e la Tunisia si è trasformata in una dittatura camuffata da istituzioni democratiche1.

Il silenzio di Abir Moussi e la repressione dei dissidenti

Una delle voci più forti contro il regime di Saïed è stata quella di Abir Moussi, deputata del Parlamento tunisino e leader del partito destro-liberale PDL (Parti Destourien Libre). Moussi è stata un’alternativa politica per molti che vedevano in lei una difesa del laicismo e dell’indipendenza della politica dalla religione. Nota per il suo fermo rifiuto di ogni ingerenza islamista nella politica tunisina, ha più volte denunciato il Movimento Ennahda e i legami con la Fratellanza Musulmana2.

Arrestata il 3 ottobre 2023 mentre tentava di presentare un ricorso contro decreti presidenziali, è stata successivamente condannata a due anni di reclusione per “diffusione di false informazioni” ai sensi del Decreto-Legge 54, duramente criticato da diverse organizzazioni internazionali per la sua vaghezza e potenziale abuso repressivo3. Attualmente è detenuta in Tunisia. Nel febbraio 2025, Moussi ha iniziato uno sciopero della fame nel carcere femminile di Manouba per protestare contro le condizioni di detenzione e la mancanza di assistenza medica4 Middleast .

Questo episodio è solo l’ultimo di una serie di attacchi alla libertà di espressione e ai diritti politici. La condanna di Moussi ha di fatto ridotto ulteriormente la possibilità di una reale opposizione. Ma la violenza politica contro Moussi non si è limitata al suo arresto. In un episodio vergognoso, durante una seduta del Parlamento tunisino, Moussi fu schiaffeggiata da un collega deputato nel tentativo di zittirla. La scena, ripresa dalle telecamere e diffusa sui social, è diventata emblematica del livello di degrado del dibattito politico tunisino5.

Arresti di giornalisti e attivisti: una repressione sistematica

La situazione della libertà di stampa è altrettanto drammatica. Tra le figure più colpite dalla repressione c’è Rached Ghannouchi, leader di Ennahda, incarcerato nel 2023, e Said Ferjani, condannato a 13 anni di prigione in un processo che ha coinvolto 40 imputati, tra cui ex diplomatici, giornalisti e difensori dei diritti umani, accusati di cospirazione e terrorismo6.

Sonia Dahmani, avvocata e giornalista, è stata arrestata in diretta TV nel 2022 per aver criticato la gestione della crisi da parte di Saïed. L’11 maggio 2024 è stata nuovamente arrestata con l'accusa di "diffusione di false informazioni", dopo aver criticato il trattamento riservato ai migranti sub-sahariani. È attualmente detenuta e affronta cinque procedimenti giudiziari, quattro dei quali per reati legati alle sue dichiarazioni pubbliche.

Anche i giornalisti Borhen Bsaeis e Lotfi Laamari sono stati incarcerati per aver criticato il regime e diffuso “notizie false”. Questi arresti sono il risultato dell'applicazione sistematica del Decreto 54, divenuto lo strumento cardine della repressione del dissenso in Tunisia.

Organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato questa escalation autoritaria, chiedendo all’Unione Europea di riconsiderare i propri rapporti con la Tunisia 7.

La paura del dissenso: la solitudine del potere

Il Presidente Kaïs Saïed, salito al potere nel 2019 con una retorica di rinnovamento e giustizia sociale, ha rapidamente trasformato la sua legittimazione democratica in un regime autoritario. La repressione degli oppositori politici non è soltanto un atto di forza, ma rivela una paura profonda: quella di perdere il controllo su una società stanca, impoverita e disillusa. Saïed non dispone di un vero partito, né di una solida rete di potere tradizionale, e governa da solo, circondato da pochi fedelissimi. In questo vuoto, ogni forma di dissenso è percepita come una minaccia esistenziale.

L’arresto della deputata Abir Moussi è emblematico. Figura laica e repubblicana, rappresentava una potenziale aggregazione di forze alternative, ostile tanto all’islamismo quanto all’autoritarismo, potenzialmente capace di aggregare un’alternativa politica.

In un Paese allo stremo economicamente, dove la disoccupazione e la povertà avanzano, l’unica risposta del regime è però la censura e la repressione preventiva.

La paura di Saïed non si limita all’islamismo politico — che pure ha strumentalizzato come nemico pubblico — ma si estende a ogni forza in grado di mobilitare il popolo contro un potere che non offre né pane né libertà. In un contesto economico al collasso, privo di risposte e di visione, la sua unica strategia di sopravvivenza politica sembra consistere nel controllo del discorso pubblico, nell’uso strumentale della giustizia e nella repressione preventiva del dissenso. Arrestare, censurare, isolare: questa è diventata la logica del potere, nel timore che verità e libertà possano risvegliare un popolo ancora capace di ribellarsi.

Il compromesso europeo: sicurezza al posto del riconoscimento dei diritti

Ciò che rende ancora più inquietante è la posizione dell’Unione Europea, che ha scelto di privilegiare la cooperazione in materia migratoria a scapito dei diritti umani. L’accordo siglato nel luglio 2023 tra l’UE e la Tunisia ha previsto fondi per circa 105 milioni di euro, destinati principalmente al controllo delle frontiere e al contenimento dei flussi migratori, in cambio del silenzio europeo sulle derive autoritarie del regime tunisino 8.

L'Unione Europea ha giustificato queste azioni come una necessità per arginare il fenomeno dell’immigrazione illegale, ma ciò ha un prezzo molto alto: la libertà e i diritti civili dei tunisini vengono sacrificati sull’altare della sicurezza europea. Agendo così l'Europa potrebbe diventare complice di un regime che, a tutti gli effetti, viola i diritti umani e la democrazia, pur di garantire una certa stabilità che è, in realtà, solo apparente. In nome di un presunto “realismo politico”, Bruxelles sembra aver ceduto ai diktat di un dittatore che ha deciso di governare con la repressione. Sembra che vengano così traditi gli stessi valori fondanti dell’UE.

Così, mentre giornalisti come Sonia Dahmani vengono arrestati in diretta televisiva per aver espresso opinioni scomode, e deputate come Abir Moussi vengono incarcerate per il solo fatto di rappresentare un’alternativa, l’Europa tace. O peggio, paga. Ma continuando su questo percorso si attuerebbe un compromesso che potrebbe minare le fondamenta stesse dell’identità europea, che si richiama alla libertà, alla giustizia e ai diritti umani, perdendo, al contempo, la propria credibilità morale nel Mediterraneo.

Una governance caratterizzata da instabilità istituzionale

Negli ultimi anni, la governance tunisina è precipitata in una profonda instabilità istituzionale, alimentata da conflitti tra i poteri dello Stato, polarizzazione politica e una crescente fragilità economica. Questi fattori hanno innescato un incessante avvicendamento di ministri e governi, compromettendo gravemente la continuità e l'efficacia dell'azione governativa. La situazione è drasticamente peggiorata con l’accentramento dei poteri nelle mani del Presidente Kaïs Saïed, il quale ha dimostrato evidenti incapacità nella gestione del potere esecutivo, come si evidenzia di seguito.

I frequenti scontri tra Presidenza, Parlamento e governo hanno provocato ripetuti rimpasti e dimissioni ministeriali, bloccando di fatto l’operatività dell’esecutivo. La svolta autoritaria del presidente nel 2021, culminata con la sospensione del Parlamento e l’assunzione di pieni poteri, ha segnato un punto di non ritorno, accentuando il monopolio decisionale e aggravando l’instabilità politica.

La successiva approvazione di una nuova Costituzione nel 2022, che ha ulteriormente rafforzato i poteri presidenziali a discapito del Parlamento e della magistratura, ha inferto un colpo durissimo alla separazione dei poteri.

L’inarrestabile turnover ministeriale, spesso deciso senza alcuna trasparenza, ha reso l’azione governativa inefficace, aggravando la gestione di una crisi economica e sociale già fuori controllo, e rafforzando l'immagine di un esecutivo debole, instabile e totalmente subordinato alla volontà presidenziale. La discontinuità nella guida dei ministeri chiave ha compromesso anche i negoziati internazionali, come quelli con il Fondo Monetario Internazionale, contribuendo direttamente al deterioramento della crisi economica e sociale del Paese.

Il futuro della Tunisia: il rischio di una nuova rivoluzione

Nonostante la durezza della repressione e il silenzio imposto con la forza, questa situazione non potrà durare all’infinito. La Tunisia è oggi un Paese afflitto da una crisi economica profonda, con un'inflazione galoppante, la svalutazione del dinaro, una disoccupazione che colpisce in modo drammatico i giovani e un crescente senso d’impotenza tra le classi medie e popolari. In questo contesto, la privazione delle libertà fondamentali non è solo un problema politico, ma diventa anche una miccia sociale che potrebbe creare le condizioni per una rivolta popolare.

Le ragioni di una possibile insurrezione sono evidenti: la mancanza di lavoro, l’impossibilità di un futuro migliore e la crescente frustrazione verso un sistema politico che ha tradito la promessa di giustizia e libertà. La repressione e la crescente povertà potrebbero spingere milioni di tunisini a scendere nuovamente in piazza, come nel 2011, quando la Primavera araba portò alla cacciata di Ben Ali. Tuttavia, questa volta il contesto potrebbe essere diverso, con un regime che ha ormai imparato a controllare le piazze e le forze dell’ordine.

Una nuova rivolta in Tunisia non sarebbe solo un disastro per la popolazione locale, ma avrebbe anche gravi conseguenze geopolitiche per l'intera regione del Mediterraneo. Potrebbe infatti alimentare l’instabilità in un’area già segnata da conflitti, migrazioni incontrollate e infiltrazioni jihadiste. Se il popolo tunisino decidesse di lanciarsi in una nuova rivolta, le ripercussioni si farebbero sentire ben oltre i confini del Paese. Il rischio che potenze straniere, come la Russia o la Cina, cerchino di sfruttare la situazione per aumentare la loro influenza nella regione è concreto, così come il pericolo che l’Unione Europea, nel tentativo di preservare la sua sicurezza, si trovi coinvolta in un’altra alleanza scomoda e moralmente pericolosa.

Considerazioni finali

L’arresto di Abir Moussi ha un significato che va ben oltre la semplice eliminazione di una rivale politica. Ella rappresentava una voce chiara e determinata contro ogni forma di commistione tra religione e politica, opponendosi con forza ai movimenti islamici e difendendo con coerenza la laicità dello Stato tunisino. Il suo silenziamento costituisce un doppio colpo: alla democrazia e alla libertà di espressione, ma anche al tentativo di costruire una Tunisia moderna e secolare.

Per le ragioni sopra esposte, sarebbe auspicabile una naturale inversione di tendenza, con una revisione della gestione del potere presidenziale riportata alla tendenza dimostrata inizialmente, che aveva ispirato tanta fiducia nel popolo tunisino.

Kaïs Saïed, utilizzando la sua ben nota capacità di destreggiarsi abilmente tra i vincoli economici, le pressioni internazionali e le aspirazioni democratiche di una parte della popolazione tunisina, vista la drammaticità della situazione attuale, potrebbe anche optare per una forma gestionale tendente alla democrazia, più che a consolidare il suo potere autoritario a breve termine, che potrebbe portare inesorabilmente a una crescita della contestazione generale a medio termine.

Ove ciò non si dovesse verificare, chi ama la pace e la fratellanza tra i popoli non può che auspicare un risveglio della coscienza collettiva tunisina, pacifico ma determinato, capace di spezzare le catene di un potere che ha tradito le sue promesse. Perché la libertà non si baratta con la paura, e la dignità non si reprime con la forza.

Note

1 Human Rights Watch, Tunisia: Democracy Dismantled, 2022.
2 BBC News Arabic, Profilo di Abir Moussi, 2023.
3 Amnesty International, Tunisia: Decreto Legge 54 mina la libertà di espressione, agosto 2023.
4 Middle East Monitor, Tunisia: Abir Moussi begins hunger strike, 13 febbraio 2025.
5 Al Jazeera, Tunisia: Parliament session turns violent as MP slapped, luglio 2021.
6 AP News, Tunisia: mass trial of Ennahda officials, ottobre 2024.
7 Amnesty International, Tunisia: Wave of repression must end, marzo 2025.
8 European Commission, Joint Statement: EU-Tunisia Strategic Partnership on Migration, luglio 2023.