Nell’ampio panorama di aziende organizzate (tabernae instructae) per l’esercizio professionale di un’attività economica, tra le quali rientrava nel mondo romano, per esempio, la taberna argentaria (la bottega dell’argentarius, il banchiere gestore di una mensa dedicata al commercio del “denaro” (argentum, cfr., in argomento, F. Ferlaino, Banche e Banchieri nel Mondo Antico, dai Sumeri a Roma imperiale, 2024), risulta interessante delineare la particolare tipologia della taberna libraria, corrispondente all’impresa di produzione e circolazione dei libri.
Si trattava di un complesso aziendale unitario, organizzato come insieme di res (beni/attrezzature) e homines (uomini/personale), funzionalmente predisposti alla riproduzione di copie di manoscritti destinati alla pubblicazione ed alla commercializzazione; la locuzione taberna libraria, tra la tarda Repubblica ed il Principato (I secolo a.C. - I secolo d.C.) indicava sia il locale commerciale dedicato alla vendita dei libri sia il locale commerciale organizzato per l’edizione e la distribuzione di testi di vario genere.
Il termine librarius, correlato alla relativa taberna, è l’equivalente latino delle voci greche βιβλιο-γράφος (biblio-gráphos) e βιβλιο-πώλης (biblio-póles), che indicavano rispettivamente l’estensore di un testo scritto (scriptor librarius, inteso come redattore, copista, scriba) ed il commerciante e/o l’editore di libri.
La parola greca βίβλος (o βύβλος), bíblos (o býblos), indicava il papiro egiziano e gli oggetti ricavati dalle fibre della pianta, tra i quali vi erano i fogli usati come materiale scrittorio; la parola derivata, βιβλίον, biblíon, denotava il libro scritto in genere e, inoltre, la “biblioteca”, significativamente espressa in lingua greca anche con la voce βιβλιο-θήκη, biblio-théke, “teca” - “scrigno” per libri, e quindi raccolta/archivio di testi scritti.
Nell’esperienza romana, le due attività (commercio librario ed edizione) venivano spesso esercitate congiuntamente, dando così origine alla “libreria editrice”, che ricomprendeva in sé le due fondamentali voci latine relative al libro ed alla relativa pubblicazione: il termine liber/libri indicava, inizialmente, in senso proprio, la sottile membrana sottostante alla corteccia dell’albero, utilizzata per scrivere, ed in seguito, per estensione, lo stesso termine fu utilizzato usualmente per indicare tutti i manoscritti, costituiti da più fogli, indipendentemente dal materiale scrittorio, che poteva essere il foglio di papiro (charta) o di pergamena (membrana).
Il verbo èdere, e i correlati termini editio, editor, hanno acquisito in progresso di tempo grande diffusione fino ai giorni nostri, grazie all’ampio profilo semantico, esteso dall’atto creativo di un’opera scritta fino all’emendazione ed edizione del testo; tuttavia, nelle fonti latine, la pubblicazione di un libro veniva anche contrassegnata da altri verbi molto significativi, quali publicare, divulgare, foras dare.
La libreria editrice aveva un assetto aziendale ed una struttura organizzativa più complessi rispetto alla semplice libreria destinata alla sola vendita dei libri, sia in ordine al personale impiegato, più ampio e di più alta specializzazione, sia in ordine alle attrezzature (instrumenta): infatti, essa necessitava della forza-lavoro di copisti (amanuenses), lettori e correttori di testi (anagnostae), rilegatori (glutinatores), nonché di una cospicua dotazione di materiale scrittorio, molto variegato (fogli di carta, tavolette cerate, codici membranacei, calami, etc.), oltre a tavoli per scrivere (mensae) ed arredi per esposizione/archivio, quali scaffali (nidi), armadi/credenze (armaria), casse (scrinia).
La sede delle librerie editrici era costituita normalmente da uno o più locali al piano terra (taberna), aperti verso la strada ed utilizzati per l’esposizione e la vendita dei testi; inoltre, vi erano altri locali, situati nel retro-bottega o nel piano sovrastante, impiegati per il complesso iter editoriale di allestimento delle copie dei libri destinati alla vendita.
In epoca imperiale, le tabernae librariae erano diffuse soprattutto in alcune zone di Roma, quali erano il quartiere dell’Argileto, esteso dalla Suburra al Foro, o il Vico Sandalario, ubicato nelle vicinanze del Colosseo, aree nelle quali risultava concentrato il maggior numero di esercenti il commercio librario.
Tra le librerie editrici operative nell’Urbe nel periodo compreso tra la tarda Res Publica e il Principato (I sec. a.C. - I sec. d.C.), che risultano essere quelle meglio documentate dalle fonti, ricordiamo in particolare: la taberna libraria di Attico (Tito Pomponio, 110-31 a.C.), della quale ci informa ampiamente il copioso Epistolario di Cicerone (Marco Tullio, 106-43 a.C.); la taberna dei fratelli Sosii, editori di Orazio (Quinto Flacco, 65-8 a.C.); la taberna di Trifone, editore di Marziale (Marco Valerio, 40 d.C.-104 d.C.) e di Quintiliano (Marco Fabio, 35 d.C.-96 d.C.).
Attico, fidato amico di Cicerone, era un ricco capitalista e banchiere, ma può essere considerato anche uno dei più importanti editori del mondo romano, se non addirittura il fondatore dell’impresa editoriale: infatti, egli era, al pari di Cicerone, un esponente del ceto equestre, pienamente compatibile con l’attività editoriale, che richiedeva un’ampia e profonda cultura, nonché la disponibilità di adeguate risorse finanziarie da investire nel processo di produzione e diffusione dei libri.
Dall’Epistolario apprendiamo che Cicerone affidò definitivamente ad Attico la pubblicazione di tutti i suoi scritti, dopo il rilevante successo di vendite conseguito dall’orazione Pro Ligario (46 a.C.), la cui edizione era stata curata, appunto, dall’amico Tito Pomponio:
Ligarianam praeclare vendidisti. Posthac quicquid scripsero, tibi praeconium deferam.
[Hai venduto benissimo la Ligariana. D’ora in poi ti affiderò la pubblicazione di qualunque cosa scriverò.]
Così scriveva Cicerone ad Attico (Ad Atticum, 13.12.2) in una lettera redatta nella villa di Arpino il 23 Giugno del 45 a.C.
L’azienda editoriale di Attico, al pari di qualsiasi altra negotiatio (impresa), era un’attività commerciale con scopo di lucro e che, pertanto, doveva attentamente bilanciare costi di produzione e ricavi di vendita: tale finalità speculativa si può rintracciare sia nel significato tecnico-giuridico del verbo “vendere” utilizzato da Cicerone nell’epistola appena citata, ma anche, ad esempio, in un’altra lettera scritta ad Anzio nel 59 a.C. (Ad Atticum, 2.4.1) nella quale il grande Avvocato ringrazia l’amico editore per l’invio di un libro di Serapione (matematico e geografo del II secolo a.C.).
In quest’ultima lettera, Cicerone avverte esplicitamente Attico di avere già “ordinato il pagamento” (solvi imperavi) del prezzo del libro “in denaro contante” (praesentem pecuniam), al fine di evitare che l’editore avesse problemi di contabilità e fosse costretto a registrare, nei suoi registri contabili, il relativo “importo” (expensum) sotto la voce “doni” (muneribus).
A fronte dei cospicui guadagni realizzati dall’editore, non si verificava di norma una compartecipazione agli utili da parte dell’autore, anche in caso di contribuzione alle spese editoriali: infatti, il vantaggio dell’autore non era economico ma era costituito essenzialmente dalla diffusione di testi di pregio sotto il duplice profilo del contenuto e della veste editoriale, nonché dalla fama, dalla gloria e dagli onori conseguenti, esclusi i casi di vendita - ad amatori e bibliofili - di opere inedite, caratterizzate da elevato valore letterario o scientifico.
Il prezzo dei libri posti in vendita era determinato da diversi fattori: la qualità del materiale scrittorio, il livello calligrafico, l’allestimento delle copie (modesto o di lusso), il prestigio dell’autore e dell’editore, il livello generale dei prezzi, l’ipotetica risposta del mercato; un prezzo fissato in misura sproporzionata viene ricordato da Marziale (Epigrammi, 13.3.1-4) con riferimento ad un suo “gracile libello” (Xenia), venduto dall’editore Trifone a ben “quattro sesterzi” (nummis quattor), prezzo verosimilmente esagerato se si considera che nell’Italia romana del I secolo d.C. veniva richiesto in media tale importo per un modius (moggio) di frumento, pari a circa 6,7 kg di derrata alimentare essenziale.
Giova, infine, ricordare un aspetto particolare del commercio librario nel mondo romano: l’attività economica con fini di lucro veniva esercitata non soltanto tramite la vendita di copie di manoscritti, ma anche tramite il “prestito oneroso” dei libri (l’odierno “noleggio”), praticato soprattutto per i testi più antichi, rari e di notevole pregio editoriale, che venivano ricercati ed apprezzati nella cerchia dei bibliofili, disponibili a sostenere al riguardo anche notevoli esborsi monetari.
Fonti bibliografiche
P.Cerami – A.Petrucci, Diritto romano commerciale. Profilo storico, 2010.
P.Cerami, Tabernae librariae. Profili terminologici, economici e giuridici del commercio librario e dell’attività editoriale nel mondo romano, 2015.