Non è questa la sede per fare della corposa teoria però è certo come la qualità del nostro vivere sia in funzione della capacità di articoLazione dello spazio, del tempo e del pensiero da parte dei diretti interessati, quindi noi!
Certo, perchè il mondo “esterno” a noi ha un ruolo fondamentale, ma ciò non toglie che in questo contesto/contorno possiamo trovarci più o meno bene ed avere maggiori o minori soddisfazioni, nel mondo del lavoro ma non solo, anche “in” noi! Che cosa determina, infatti, il successo piuttosto che l’insuccesso?
Semplificando un poco -solo per poterne parlare e/o scrivere- si potrebbe affermare che il discriminante non può che essere di nuovo una capacità di articolazione ma questa volta si tratta soprattutto del proprio pensiero. Non facciamo battute sugli stimolanti ed evitiamo di credere che la soluzione sia delegare questa ricchezza all’intelligenza artificiale, come se si potesse acquisirla per osmosi. Nel primo caso ci facciamo solo male, nell’ultimo probabilmente si ottengono degli aiuti, che però nella stragrande maggioranza dei casi non vengono messi in pratica ma ci si accontenta dell’immagine di facciata.
Il vero miglioramento è sempre, pur se su questi termini potremmo aprire parentesi infinite, quello reale e stabile, entrambi frutto di un processo continuo ed inarrestabile, che, pur se con i propri alti e bassi, considera da dove si viene, dove ci si trova ed in quale direzione si vuole andare. Il che è tanto scontato da venire di regola disatteso. Nello specifico, vi è un rapporto diretto con la conoscenza del linguaggio e la sua capacità di uso. Articolare il pensiero dipende, infatti, proprio da questo.
Prima di passare oltre, deve essere sgomberato il campo dalle facili semplificazioni. Una cosa è un pensierino infantile, un’altra è un discorso chiaro che ben spiega argomenti complessi. Il confronto è tra chi non sa e non sa fare (e quindi non può dire con cognizione di causa) e chi è talmente capace da riuscire a togliere le complicazioni alla complessità.
Dobbiamo ragionare sulle cose, su ciò che facciamo e su ciò che diciamo -a noi e agli altri- dopo averle pensate.
Non si tratta di far vedere le cose -ma non solo queste...- in modo diverso da quello che sono, ed ovviamente senza cambiarle. Qualcuno ha già cominciato, ma c’è ancora spazio, svelti cominciamo sulla scia di chi ci ha preceduto.
Ecco alcuni esempi e poi si parte: se l’inceneritore brucia i rifiuti (e secondo più di qualcuno ci uccide!) il termovalorizzatore * invece trasforma (nello stesso modo…) i medesimi materiali ma produce positività (!), così lo “spazzino” è diventato “operatore ecologico” (+!) ed il “bidello” invece “ausiliario” (triplo*”!). Comincio io, subito:
– dopo i “nonvedenti”, se vogliamo continuare a descrivere le persone per quello che non-hanno, non-fanno o non-sono, abbiamo i “nonpensanti”, con ovvio riferimento a dotazioni ed azioni…
– se ci sono lavori “socialmente utili” non possono non esserci quelli “socialmente inutile” (suggerisco -provocatoriamente- in primis quello dei medici e pure dei vigili del fuoco)…
– il paio ai “diversamente abili” non è, come potrebbe sembrare, i “normalmente abili”, per i quali già c’è la definizione di normodotato *(si stenda un velo pietoso di dimensioni infinite, magari in tessuto-non-tessuto), ma quella di “per-niente-abili*”, utilissima e mancante descrizione di un nutrito gruppo di persone, tanto che se vogliamo elencarli ci dobbiamo procurare un hard-disk molto capiente o aumentare lo spazio a nostra disposizione nel cloud!
Fin qui nulla di nuovo ma a se in un modo saturo come il nostro l’unica attività che manca è quella di chi davvero ci faccia vedere le cose, senza cambiarle ovviamente ma scoprendo aspetti di solito non apparenti. Alcuni giornalisti si arrogano questa facoltà ma sono solamente dei polemisti, veri e propri pavoni il cui seguito non fa che confermare l’esigenza di cui si è scritto! Qualcun altro però ha già cominciato a farlo davvero, ma c’è ancora spazio, svelti cominciamo sulla scia di chi ci ha preceduto. Un buon inizio è partire dall’etimo! Nulla di trascendente, quindi, si tratta di fermarsi e ri-pensare alle parole che utilizziamo ed alla loro origine, perché il mondo non è nato con noi.
Anche qui ed ora qualche esempio non può che essere più che utile, pensiamo al lavoro, croce e delizia del nostro vivere. Qual è il suo etimo, cioè questa parola utilizzatissima -secondo qualcuno perfino abusata!- da cosa deriva, come è nata? Ebbene, lavoro deriva, e quindi di fatto significa, ne è legato, dalla parola “fatica”... Vero che per molti il lavoro è proprio questo ma una generalizzazione così ampia…
Sul medesimo tema-etimo, cosa ci diciamo di una repubblica -la nostra- basata appunto sulla fatica? Come dare torto a chi si oppone a tutto ciò, peraltro senza spiegarci come pensano di conservare un tenore di vita così elevato (il loro) non avendo un lavoro “tradizionale” (e faticoso), specie quando verranno meno i genitori-bancomat ed i pensionati, che hanno appunto faticato quasi per l’intera vita, che va a concludersi mantenendo una fila di parenti che rifiutano le occasioni lavorative, per cui sembrano meritare l’appellativo di s-faticati? Del resto il loro interessarsi della sostenibilità riguarda gli altri, questi non sono capaci di produrre degli introiti leciti quindi un banalissimo reddito, non parole ma davvero spendibile (in moneta corrente, non in affermazioni più o meno stolte) e anche sufficiente, quanto meno a soddisfare i bisogni primari. E‘ troppo definirli “insostenibili—paladini-della-sostenibilità”?
E non mi si parli del parente più prossimo del lavoro, il “precariato”, pena il rinfacciarvi come, anche in questo caso, l’etimo ci possa illuminare: il “precario” è colui che non ha nulla, motivo per cui, al solo scopo di sopravvivere, non può che pregare chi gli sta intorno di aiutarlo. Noi oggi ne facciamo un uso diverso però...
Alcune osservazioni, quasi conclusioni (che però sono tali solo in relazione al presente testo), potrebbero essere quelle che seguono, pur con la loro parzialità. Innanzitutto ciò che è stato detto ed auspicato per il miglioramento personale di ciascuno di noi è, in parole estremamente povere ma drammaticamente chiare, semplicemente il reciproco di quello che succede sui social network, dove l’impoverimento, per non dire la barbarie, la fa da padrone. Il fatto che ancora una volta ci siano le eccezioni non significa alcunché. Lo stesso proverbio, infatti, indica tale fatto come la conferma della regola!
Tornare ad usare i termini in modo più circonstanziato -non quindi necessariamente secondo il significato originale- è (quasi) necessario ma potrebbe non bastare. Cose, fatti, persone, pensieri, scopi e quanto altro sono-siamo, infatti, cambiati, per cui il suggerimento potrebbe non bastare. Abbiamo bisogno di nuove definizioni, non c’è dubbio! Ecco quindi farsi largo tra i nuovi lavori l’ennesimo frutto del nuovo, che non avanza ma travolge!
Una proposta consiste nell’affrontare questa continua traslazione di ogni significato, cavalcarla e… diventare “neologista”!
Pur con il rigore del caso, come potremmo, infatti, descrivere ciò che comprendiamo se sentiamo l’assenza dei termini da utilizzare con la giusta proprietà di linguaggio? Moltissime delle parole che siamo soliti “nominare” non sono sufficienti a descrivere i fenomeni in atto, sia con riferimento agli accadimenti che alle persone, davvero singolari…
Utilizzare molti aggettivi o fare ogni volta un discorso per definire qualcosa è troppo dispendioso. Ciò che è richiesto per una reale utilizzabilità è la sintesi, e, se il vocabolario non basta, non resta che ampliarlo!
Per questo sono entrate nell’uso comune alcune sigle, quindi singoli termini che “riassumono” insiemi di parole, rigorosamente inglesi, perché questa è la lingua che conta, con buona pace del nostro passato e soprattutto del nostro presente, evidentemente senza futuro.
Ormai storicizzato è il “non-nel-mio-giardino”, corrispondente a “not-in-my-backyard”!, abbreviato in “NIMBY”, perché quello che ci serve -si perdoni la ripetizione- effettivamente ci serve ma meglio se lo fanno altrove, a noi bastano i frutti positivi, non vogliamo gli effetti collaterali, le controindicazioni, quelle le lasciamo volentieri e con vero entusiasmo agli altri, che -evidentemente- se le meritano anche! A noi la corrente, agli altri le scorie!
Poi abbiamo i ragazzi che non studiano, non hanno un lavoro ma nemmeno lo cercano. Sono i “nene”… nè questo nè quello. Infatti, non hanno una terza via, un’alternativa -magari irrealizzabile ma sarebbe qualcosa, quanto meno avrebbero una direzione!- semplicemente non fanno, perdono tempo, il loro, ogni giorno! Qualche autorevole studioso spiega il loro dormire di giorno e l’uscire di notte con la loro necessità di non essere visti, evidentemente non dai loro genitori, che non contano nulla (!). Perché si comporterebbero così? Ma per la vergogna, che li spingerebbe ad essere pressoché invisibili!
Ad uso e consumo degli stanziali sulle proprie posizioni ecco alcuni ulteriori esempi caratterizzati dal loro essere perfino banali.
Tralasciamo di affrontare temi legati alla politica, sarebbe troppo facile. Perfino i detti andrebbero cambiati, propongo di narrare come esempio comparativo del talmente facile da non dare soddisfazione il rubare le caramelle alla croce rossa o sparare ai bambini… con un inversione di termini che spero possa, se non illuminare, quanto meno rischiarare una piccola parte del nostro intorno più prossimo.
Venendo a qualcosa di più prosaico, come indicare le persone di quarant’anni, pressoché prive di tutte le esperienze che ritenevamo capaci far maturare? Sono giovani per legge, il che ricorda molto i titoli di studio “consegnati” a tutti, capaci ed incapaci, preparati ed impreparati, maturi ed immaturi…
La definizione però non ha alcun valore! Mancano da una parte tutti gli aspetti -positivi e non- tipici dell’età “verde”, dall’altra quelli -diversi ma di nuovo positivi e negativi- della maturità… Provocatoriamente suggerisco “giovecchio”? Volontariamente orribile ma illuminante.
La stessa indagine può portare ad esiti risibili e tragici allo stesso tempo. Non me ne voglia chi esercita i lavori che cito ma ragioniamo insieme sul “maestro”, termine con cui si indica una persona particolarmente abile e competente, come è il direttore d’orchestra, ma anche chi mandiamo ad insegnare alle scuole elementari. L’etimo in questo caso è “magister”, lo stesso di magistrato, derivato da “magis” e che indica qualcosa di superiore. Ricordato come oggi questi maestri siano bistrattati ed anzi debbano subire lezioni da arroganti che nulla sanno di nessun argomento, studenti compresi, come non ricordare che l’opposto di “magis” è “minus” e se dal primo è derivato, come già indicato, “magister”, dall’ultimo abbiamo “minister”, quindi ministro, servitore ed esecutore, proprio quello che sono (!) e fanno (!) coloro che abbiamo democraticamente eletto,in tutte le legislature da decenni. Credevamo fosse fisiologico che qualche incapace sfuggisse al vaglio del voto, oggi è il contrario, a intrufolarsi è qualche isolata persona di buone capacità e volontà mentre la regola è il perfetto contrario!
La crisi aguzza l’ingegno, se a scuola non ti insegnano un mestiere (ma non è sbagliato…) e se l’apprendistato non esiste più, non ti resta che inventarti un lavoro. Lo devi fare se sei giovane: chi vuoi che ti assuma, esperienze non ne hai e chi può dare importanza al tuo diploma di terza media, maturità, laurea breve o magistrale, master?
Lo devi fare se sei stato espulso dal mondo del lavoro a cinquantanni: tu che pensavi di raccogliere i frutti di quarantanni di semina, e che non hai capito che non potrai più rientrare tra ciò che conosci e che hai vissuto (perché non c’è più!), anche se ti sembra di vederlo in televisione… Cambiare canale no? Vero, ciò che conta è solo l’avvenenza della giornalista, con buona pace delle femministe...
Lo devi fare se sei un lavoratore dipendente: come fai ad essere certo che l’azienda non chiuda, che il titolare non si stufi e se ne vada, come fanno tutti quelli che vogliono salvarsi?
Lo devi fare se sei uno statale: ormai gli stipendi non sono del tutto sicuri nemmeno lì (ed il prezzo pagato per questa sicurezza non è troppo alto?)!
Lo devi fare se sei un lavoratore autonomo, visto che è altamente probabile che domani o dopodomani ti facciano chiudere, e che probabilmente non hai capito che i tuoi conti non tornano e non potranno tornare… Chi conosce davvero come va la propria attività? Se oggi, in cui tutti parlano di soldi e fanno i confronti (mitico il rapporto qualità/prezzo...), non sappiamo nemmeno cosa costa lo spostarsi in automobile e men che meno le spese correnti di casa, la risposta è: nessuno! Lo devi fare se sei un pensionato: visto che il tuo reddito è comunque a rischio, si parla del 2030 come anno del default, mancano perfino sei anni, non molti, direi…. Ma che cosa possiamo fare? Le competenze sono quelle che sono, le esperienze anche, non è semplice.
Ecco quindi il consiglio finale, anzi il coniglio (animale dall’ironia sconosciuta e dal sarcasmo incommensurabile) che esce dal cappello. Forse faremo fatica a sbarcare il lunario ma -senza alcun dubbio- applicando l’atteggiamento indicato contribuiremo allo sviluppo della nostra società, consentendoci di elaborare pensieri che comprendono il modo di fare e concepire concetti che nulla hanno più a che vedere con tutto ciò che ritenevamo sensato fino a ieri. Mi sembra perfino di sentire in lontananza la voce del più noto simil-roditore, che, ovviamente sgranocchiando la carota di ordinanza, ci chiede: “che ti succede amico?”