Osservandolo nella prospettiva contemporanea, il pensiero alchimico è rivoluzionario, incline a scacciare le dense nuvole della retorica borghese e delle aspettative cosmiche dissolte nella pioggia della vita quotidiana. Il Ventesimo secolo, il secolo delle avanguardie organizzate, segna paradossalmente il ritorno dell’immaginazione alchimica, rivelante gli spazi più occulti dell’inconscio, in una sorta di «iniziazione» criptica alle dottrine dell’ermetismo. Non è un caso che nel contesto della psicoanalisi e parallelamente alla nascita delle avanguardie, le ricerche di Carl Gustav Jung (1875-1961) si siano concentrate, a partire dagli anni Venti, sugli «archetipi». Centrale, nella sua opera, è l’alchimia quale accesso e disvelamento delle profondità sconosciute della mente.

Parallelamente alla psicoanalisi, Gaston Bachelard (1884-1962), teorizzò negli anni Trenta l’esistenza di una «immaginazione materiale». Bachelard sosteneva che tale immaginazione operasse «oniricamente» sui quattro elementi tramite una manipolazione verbale, una «poetica dell’immaginazione». Egli infatti distingueva tra una rêverie, «fantasticheria», dal semplice rêve, «sogno»: mentre il sogno è passivo e disaggregato, la rêverie è una forma d’immaginazione, cosciente, attiva e intenzionale, una fonction d’irréel, una «funzione d’irrealtà», collocata su un dissonante livello di percezione. Poesia e sogno erano quindi per Bachelard strumenti alchimici, modelli per spiegare come le sostanze mutassero ontologicamente trasformandosi nella loro essenza. Gli studi antropologici sulle «strutture» dell’immaginario, insieme alle ricerche di Jung, rivelarono quindi il ruolo centrale e continuo dell’alchimia nella cultura occidentale.

Surrealtà

Ma non erano casi isolati.

André Breton (1896-1966), fin dalle prime manifestazioni del Surrealismo s’interessò all’aspetto più segreto e nascosto dell’«ermetismo» ‒ un vocabolo che lui stesso preferiva a «poesia» − considerandolo l’adito a un nuovo «sapere occulto». Breton desiderava rivendicare la Sapienza alchimica come un tipo di «occultamento» che non doveva essere frainteso, mescolato al pensiero comune. Per questo era necessario impedire ai più di accedervi senza un’adeguata predisposizione. L’obiettivo era che la conoscenza non fosse snaturata dalle mode e dai pregiudizi del tempo.

L’atteggiamento di Breton trova un antecedente importante nelle opere di Marcel Duchamp (1887-1968), figura centrale del Dadaismo e interprete di spicco anche del Surrealismo. Il capolavoro “alchimico” di Duchamp è il Grande Vetro, il cui titolo già evoca simbolicamente la «Grande Opera» (Grand VerreGrand Œuvre). Duchamp fornì indicazioni molto vaghe e misteriose su quest’opera, limitandosi a frasi enigmatiche. Il sottotitolo stesso, La mariée mise à nu par ses célibataires, même («La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche»), è criptico, ma può essere interpretato secondo un gioco di parole incentrato sulla doppia lettura di omofoni (parole dal suono simile ma significato diverso), una tecnica cara a Duchamp.

Uno dei suoi ispiratori, Raymond Roussel (1877-1933), padre spirituale della Patafisica o «scienza delle soluzioni immaginarie», riteneva questo metodo essenziale per i suoi romanzi, costruiti su giochi di parole a sfondo cabalistico. Roussel utilizzava frasi quasi omofone (calembour) come: Ma chandelle est… → Marchand zélé («La mia candela è…» → «Mercante zelante»), oppure: Les lettres du blanc sur les bandes du vieux billardLes lettres du blanc sur les bandes du vieux pillard («Le lettere tracciate con il bianco sui bordi del vecchio biliardo» → «Le lettere scritte dall’uomo bianco a proposito delle bande del vecchio predone»). Roussel affermava che la «narrazione» si costruiva proprio mettendo in relazione il primo significato (assunto come inizio) con il secondo (assunto come fine).

Tornando a Duchamp: partendo da La mariée mise à nu par ses célibataires possiamo ottenere La Marie est mise à nue par ses céli-batteurs («Maria è messa nella nuvola dai suoi trebbiatori celesti»). La parola même come aggettivo («stesso») funge da ponte tra le due letture e suggerisce di considerare un doppio senso. Collocata alla fine della frase può anche suonare come mem, lettera ebraica legata alla maternità e all’acqua. La «Maria portata sulla nuvola» richiama il transitus Mariae, la Vergine Assunta in cielo: come nelle classiche rappresentazioni dell’Assunzione, anche nel Grande Vetro troviamo una divisione tra cielo e terra. Nella parte superiore, celeste, c’è una nuvola con tre quadrati (richiamo alla Trinità) che accoglie la marieé (Maria o sposa); nella parte inferiore, terrena, un parallelepipedo in prospettiva riprende l’asse della Maria ascendente al cielo e sembra evocare il sarcofago vuoto tipico delle Assunzioni, attorno a cui si affollano gli astanti.

E chi sono questi céli-batteurs («trebbiatori celesti»)? Duchamp nel Grande Vetro li definisce come «macchina agricola» e «macchina a vapore» con base en maçonnerie, «in muratura», ma anche «in massoneria». Quindi, è possibile intravedere una coerenza interna a tali rappresentazioni? Quale storia unisce queste immagini e parole? Il legame è proprio la «base in muratura», ovvero il fondamento «massonico», ermetico, «filosofale» del racconto; il «racconto» coincide con un cammino iniziatico. Nel linguaggio alchemico, la trebbiatura «celeste» ‒ chiamata così perché l’alchimia è anche definita «agricoltura celeste» – si collega all’assunzione al cielo della Vergine incoronata dalla Trinità. Allo stesso modo, anche il denudamento della sposa diventa una metafora codificata nei testi alchemici, che rimanda sempre al medesimo processo: la purificazione della materia e la sua trasformazione nella «pietra filosofale», spesso associata al cristallo.

In effetti, uno dei primi schizzi preparatori del Grande Vetro mostrava una scena ben diversa da quella suggerita dal sottotitolo: non più la sposa «messa a nudo» dai suoi scapoli, ma piuttosto la sposa denudata la sera delle nozze da due pretendenti. Questa scena deriva da un’immagine dell’alchimista Solidonius (Figurarum aegyptiorum secretarum, Bibliothèque de l’Arsenal, Ms. 973) e rappresenta la «spoliazione», cioè la progressiva purificazione della materia verso la pietra filosofale.

Decostruzioni

Molti dettagli dell’opera, sebbene se ne possano citare solo alcuni tra i più significativi, confermano tale lettura alchemica del Grande Vetro. La cosiddetta «macinatrice di cioccolato», come Duchamp definisce il meccanismo dei tre rulli posto nella parte inferiore al centro dell’opera, richiama la ruota della macina rappresentata nella Melencolia I (1514) di Albrecht Dürer (1471-1528): serve infatti a triturare la materia «al nero», fase identificata simbolicamente con il «cioccolato», metafora legata anche al colore degli escrementi umani. I sette «setacci» o «crivelli» sovrastanti, rappresentano le fasi della lavorazione alchemica, come i pioli di una scala: sono strumenti di raffinazione progressiva.

Infine, le grandi «forbici» a croce fanno pensare al «mulino ad acqua» incluso nel carro-sarcofago (sempre secondo la terminologia stessa di Duchamp), ed alludono ancora una volta alla macinazione e dissoluzione della materia. Questa materia, una volta «dissolta», ascende al cielo come vapore, per poi ricadere dalla nuvola in forma di gocce e così riprendere da capo il processo in un ciclo continuo.

Il mito dell’alchimia si riflette quindi non solo nella complessità simbolica delle rappresentazioni, ma soprattutto nella scelta stessa della “trasformazione” della materia ‒ il vetro, in questo caso, anziché la pittura. Questo mito si esprime anche nel parallelismo implicito tra l’Opera alchimica e il processo creativo dell’artista, e nel “segreto” che deve avvolgere il compimento dell’opera, conferendole un’aura mitica. L’apparente assurdità delle immagini dadaiste, infatti, nasconde e custodisce ‒ secondo il principio ermetico del silenzio ‒ un significato profondo, pur se volutamente sdrammatizzato e decostruito. L’ironia, elemento centrale del dadaismo di Duchamp, non è solo un espediente “spiritoso”, ma funge anche da delicato schermo per un’utopia spirituale. Un’utopia che, pur messa in crisi dal pensiero moderno e dal suo disincanto, continua a essere contemplata dall’artista con partecipazione intellettuale, ma anche con lucidità critica e consapevole distacco.