Non era una pittrice, né una scultrice. Ma creava.
Con le parole.
Storie quasi vere, e storie quasi possibili – racconti, da attrarre chi conosce, e chi, invece, deve solo immaginare.
Emily Alice Haigh era nata in Sudafrica. E morì, sessantaquattro anni dopo, nel Sussex.
Se sono dati certi che cerchi, praticamente devi fermarti qui: tutto il resto è un groviglio di "sembra", "si dice”, "girava voce".
Le voci che giravano, in realtà, le aveva quasi tutte diffuse, molto spesso inventate, lei.
Tranne una: il suo amore con Amedeo Modigliani.
Durato un paio d’anni fatti di passione, ovviamente liti furibonde, e stracci a volare per tutto il quartiere di Parigi dove si incontravano, lui – l’italiano bello, maledetto, e povero – e lei, la giornalista solida del suo mestiere, mandata dall’Inghilterra per vivere e raccontare il mondo alieno degli artisti del fermento parigino. È finito, quell’amore, all’improvviso – senza un vero perché come era nato, e senza che nessuno dei due sentisse più il bisogno di parlare dell’altro.
Avvicinati dal destino che li aveva decretati simili, spezzati dall’unica cosa che avevano davvero in comune: uno smisurato amore per sé stessi.
Lei, dunque, era nata a Port Elizabeth – che oggi si chiama Gqeberha, come la chiamano da sempre in lingua Xhosa; allora – fine dell’Ottocento - un centro portuale e commerciale importante, con una presenza bianca inglese ben radicata.
La famiglia doveva essere benestante, anche se non in modo esagerato – insomma: non ricchi sfondati, ma saldi di risorse e di relazioni.
Così Emily poté permettersi di studiare, e, alla fine di quel periodo, di concedersi la sua prima esperienza avventurosa, come infermiera sulle navi di Sua Maestà britannica.
Almeno, questo era più o meno il suo racconto - e più o meno si deve proprio dire, perché lei cambiava leggermente quella storia, ogni volta che la ripeteva.
Fu in quel periodo, sembra, che suo fratello John divenne, anche lui, un suo personaggio: Emily ne parlava come di un uomo importante - a volte imprenditore, altre volte banchiere.
Forse, di vero non c’era niente – a parte il fratello, si intende.
O forse sì: sembra ci sia qualche documento che ci presenta un John Haigh ben inserito nella società coloniale un po’ fané della costa orientale del Sudafrica - di qualunque cosa fosse funzionario. Dopo quella specie di Erasmus sulle navi, come non risolvere anche la faccenda di un matrimonio? Il marito dal quale Emily divorziò molto presto, era, secondo quel che ne diceva lei, un pugile. O forse no: un militare.
Il suo nome non esiste, e anche lui è piuttosto sfumato: civilmente la sposò, civilmente – all’evidenza - se ne separò, facendo il suo dovere di fantasma la cui essenza appare solo per ridursi fumo un attimo dopo. Emily, d’altronde, era talmente poco attratta dal matrimonio da non sopportarne uno, neppure se inventato. E così, arriva – da sola - a Londra.
Qui, ventottenne o giù di lì, comincia a collaborare con The New Age, rivista politica e letteraria animata da intellettuali socialisti, spiritualisti, visionari. Eccentrici.
Solo che lei, a questo punto, non si chiama più Emily, ma Beatrice.
Beatrice Hastings.
Per una che vedeva la vita come una sequenza di eventi da attraversare e poi riscrivere, uno pseudonimo non era, d’altronde, un vezzo. Era un modo per adattare le cose alla propria visione - una dichiarazione di intenti.
La sua penna è tagliente, lucida, sempre un po’ in anticipo.
E il suo quaderno non conosce confini: Hastings scrive con sicurezza, e con una libertà che non sappiamo se abbia imparato o se fosse nata con lei.
Poesie, recensioni teatrali, articoli sull’arte.
E sulla condizione delle donne.
Certo, leggendola non era facile capire se fosse più anarchica o più teosofa. O più femminista. Ma non è questo il punto.
Il punto è che non ha mai chiesto un permesso, né ha mai chiesto scusa per le opinioni senza scampo che esprimeva.
Diceva cose che allora suonavano fuori luogo, e che anche oggi richiedono coraggio.
Difendeva il diritto all’aborto, alla protezione delle donne durante il parto, all’autodeterminazione. Dichiarava la sua bisessualità, senza drammi e senza rivendicazioni, non come informazione privata, ma come atto pubblico — un modo per sfidare le convenzioni, per far sapere ai tradizionalisti che con lei avevano poca strada da fare.
E anche i suoi amori erano scrittura, rilettura, pennellate di un ritratto più grande, il suo. O, almeno, lo diventavano - quasi subito.
Beatrice Hastings vestiva in modo eccentrico, cavalcava, suonava, e pare avesse un portamento maestoso. Dicevano che fosse bellissima, ma come la Medusa: uno sguardo che non ti chiede nulla, tanto meno che tu sia d'accordo con lei.
Ma che ti incatena, perché tu non possa fare a meno di guardarla.
Anche Modigliani non può fare a meno di guardarla.
La ritrae più di dieci volte, e sempre restituendole lo sguardo indagatore, al limite del beffardo; il viso mobile – stranamente, per un pittore che avrebbe voluto essere uno scultore – le labbra appena serrate, come se stesse per aprire la bocca e dire… chissà che cosa.
Quasi controvoglia, ma con l’ossessione di chi è stato stregato dagli occhi della Medusa, lui le regala l’attenzione che Beatrice pretende.
E anche insulti, e notti al freddo, e assenzio – che non le impediscono di continuare a scrivere per il suo giornale, raccontando tutto con una voce quasi piatta, da osservatrice esterna, come uno scienziato che descrive un esperimento.
Quando la storia con Modigliani finisce, lei torna in Inghilterra.
Ma le cose non sono più come prima.
La sua bellezza non è probabilmente passata indenne per le tenaglie del periodo con Modigliani, e i suoi ammiratori sono sempre meno, mentre crescono coloro che vedono nelle sue pagine rimaste di fuoco solo l’espressione di una petulanza invecchiata.
Si isola; scrive, ma fatica a pubblicare; forse ha difficoltà economiche, litiga con i vecchi amici, se ne fa di nuovi che presto abbandona.
Insomma, diventa un problema per chi la frequenta - e i problemi, si sa, la colta società di ogni tempo preferisce chiuderli in un cassetto.
Così, con uno stile che mai avresti pensato potesse diventare il suo, si ritira dalla città, e per farlo sceglie una cittadina che, a quel tempo – ossia all’inizio anni Quaranta - era diventata la tranquilla ombra di sé stessa, nel passato meta balneare ideale per vedove dell’Impero, invalidi di guerra, e pensionati benestanti. Nessun fermento, niente salotti letterari: Worthing è l’ultima porta che Hastings sbatte in faccia al resto di un mondo che non ha più piacere di frequentare.
In quella casa vicino al mare, forse scrive, forse cataloga i ricordi.
Non lo sapremo mai, perché un giorno brucia tutto, con metodo – tranne i ritratti che le aveva fatto Modigliani.
Per compagnia – ultimo sprazzo di eccentricità – sceglie un topolino bianco. Almeno, così si dice.
È lui, il topolino bianco, che, forse, una sera di fine ottobre del 1943, la guarda aprire il rubinetto del gas – chissà se per cucinare qualcosa.
E docilmente, da vero compagno di un guerriero ormai vinto ma ancora pieno di fierezza, si addormenta con lei.
L’amico fedele, e la donna che aveva scelto tutto, della propria vita.
E che, in perfetta coerenza, non ebbe timore di scegliere anche la propria morte.















