I miti e i clichés prevalevano sulla verità: incapace di fissarla lasciavo che questa scivolasse nell’insignificanza. […] è così che si spiega come mi sia sottomessa al Verbo senza critica, senza esame, anche quando la circostanze mi invitavano a dubitarne.

Questo passaggio di Simone de Beauvoir (1908-1986) in Memorie di una ragazza perbene, uscito a Parigi nel 1958, è un punto cardine per qualsiasi donna che voglia fare i conti con la propria educazione familiare e con l’inevitabile rottura con l’ambiente in cui è cresciuta e di cui si è, per forza di cose, nutrita. Credo che questo romanzo costituisca un capolavoro letterario e al tempo stesso una rivelazione per qualsiasi creatura femminile e maschile che non si accontenti di vedere raccontata la sua esistenza, ma decida di viverla con coscienza e sincerità anche a costo di rinunciare, soffrire, fiaccare mente e corpo fino alla fine dei propri giorni.

Un viaggio verso la conquista del sé è nel migliore dei casi una serrata battaglia fatta di delusioni, scontri, fatiche e tensioni, nel peggiore il lacerante affrancamento dagli orizzonti domestici a volte infarciti di ipocrisie, condite con buone maniere e pregiudizi, fatto di decoro, oppressione sottile e molestie morali. Non prendiamola come una critica spietata della società borghese, ma è palese che questo modello, a partire dall’Ottocento, non ci ha più abbandonato. Tutto ciò che esce dal coro, secondo questo paradigma, diventa fastidioso, irriverente e fuori luogo, e non parlo di ribellioni potenti come potrebbero essere le scelte radicali di una vita eremitica o mistica al tempo del consumismo, ma di semplici aperture al mondo, alle relazioni vere, senza opportunismi e comodità, alla franchezza di cuore e di linguaggio.

Tuo cugino “è un povero idiota” dice perentorio il padre di Simone Beauvoir dopo un pomeriggio di giochi nella casa paterna. La bambina, neanche una ragazza, rimane sconcertata dalla frase secca, limpida che rimane stampata nei suoi pensieri. Crolla l’immagine adorata del cugino, solo per il tono e la freddezza con cui il padre, il Verbo, l’aveva pronunciata. L’autrice scrive che all’epoca non aveva neanche idea di cosa potesse significare “idiota”, nessuno le aveva mai detto chi fossero gli idioti, ma nella sua fantasia “essi avevano un sorriso bavoso, lo sguardo vuoto.” In pochi passaggi ci illumina sul meccanismo dei condizionamenti e del pregiudizio, dei dictat che non convincono la sincera e pura mente dell’infanzia che tanto gode dell’emozione senza freni, dell’affetto viscerale e disinteressato.

Fare i conti col passato e col presente significa chiedersi quanto siamo attanagliati dalle convenzioni e dai pregiudizi, in parte imposti dal contesto familiare e di relazione, e quanto siamo riusciti a diventare osservanti di noi stessi.

E’ un impresa ardua che dovrebbe occupare la buona parte del nostro tempo, per non cadere nelle trappole quotidiane che ci costringono ad alzare le spalle, a non dire, ad aggiustare la realtà con tante piccole menzogne per il bene di tutti ! Pochi sono i gioielli librari che conservo in una parte speciale della libreria e potrei dare qualche indicazione di lettura per chi apprezza autrici e autori che riescono a dare della realtà una immagine fedele a quanto hanno vissuto, per condurre un’esistenza reale, anzichè teatrale, fittizia, mossa dalle buone maniere e dalla falsa coscienza. Dopo il primo posto del catalogo che spetta alla scrittrice parigina, di cui non dimentico anche il capolavoro 'Una donna spezzata', faccio un balzo nel tempo per citare una mistica del Medioevo riconosciuta come Dottore della Chiesa nel vicino 2012, Ildegarda di Bingen (1098-1179).

Le scelte di questa mistica, teologa, musicista e filosofa della scienza sono ancora attualissime e di insegnamento per chiunque voglia intraprendere un percorso spirituale atto alla conoscenza dei rapporti tra uomo e universo. Come donna ha intrapreso delle scelte scomode e difficili, in virtù della fede in Dio e nell’uomo quale specchio dell’Universo, si professava debole e incolta facendo perno sulla propria intuizione e sull’intelligenza nonostante la sofferenza di un corpo cagionevole. Non utilizzava la forza per imporre le sue idee filosofiche e scientifiche, si avvaleva del farsi piccola nonostante le cospicue capacità economiche e culturali. Si espone per portare alla luce le verità scomode della Chiesa di fronte a Vescovi e Papi denunciando gli abusi, gli sprechi, il lassismo e la corruzione. Tutto questo, nel libro delle opere divine, in stile tipicamente medioevale si può leggere un monito di attualità sconcertante. Al terzo posto metterei una narrazione più vicina ai nostri tempi che ha sconquassato il mondo borghese della prima metà del Novecento, quella di Goliarda Sapienza (1924-1996), scrittrice e attrice del cinema neorealista, che conduce una vita anticonformista, aiutata da una famiglia altrettanto fuori dell’ordinario, il padre non le fa seguire la scuola perché non fosse influenzata dall’educazione di regime fascista.

Leggendo un suo capolavoro, Il vizio di parlare a me stessa. Taccuini 1976-1989, (2011), ho trovato in lei il coraggio di parlare di sé senza fronzoli, senza paure di scoprire i nervi, di raccontare gli errori come perle lungo un percorso accidentato, ma funzionale al risveglio, alla consapevolezza di essere donna, spesso incompresa. Pochi gli apprezzamenti da viva, notevole il riconoscimento dei suoi lavori postumi. «Hai una casa qui, puoi sostare un poco. Hai trovato una cucina che almeno per un’altra ora ti terrà al caldo e ti darà il tempo di ripensare la vita. Che cos’è la vita, se non ti fermi un attimo a ripensarla?».

C’è un’altra figura femminile che porto sempre in serbo nella memoria, per la capacità di farci entrare nel vivo delle più crude asperità dell’essere rivoluzionari, senza timore delle ripercussioni sulle relazioni, degli abbandoni, della perdita degli affetti. Non si può posticipare un’impellenza come la messa in chiaro del proprio pensiero intimo e della missione per cui si è venute al mondo: Nina Berberova (1901-1993) scrittrice russa espatriata per motivi politici è la più emblematica oppositrice del regime comunista nei primi del Novecento. Il racconto dell’esilio in Europa, Berlino, Parigi e poi in America, passa tra le relazioni più importanti della sua vita che segnano anche il futuro di scrittrice, Pasternak, Cvetaeva, Jakobson o Nabokov.

Che ne facciamo della visione tragica della vita in cui siamo stati educati? Del tragico periodo della nostra storia? Del destino della mia patria, della mia generazione e infine del mio destino personale? Mi sembra che una risposta ci sia: la tragedia mi fu data come terreno, come base di vita: noi, nati tra il 1900 e il 1910, siamo cresciuti nella tragedia che a suo tempo è entrata in noi; per così dire l’abbiamo bevuta, ce ne siamo nutriti e l’abbiamo assimilata, ma ora che la tragedia è finita ed è iniziato l’epos, io ho il diritto, dopo aver vissuto una vita, di non prendermi troppo sul serio.

(Il Corsivo è mio, 1969)

In questo mese di marzo, in cui ricordiamo le lotte e le rivoluzioni di genere, ricordo altre due autrici che entrano nel novero delle ricercatrici del sé e della sfida al conformismo Novecentesco, un’italiana, Sibilla Aleramo e Angelica Garnett, figlia di Vanessa Bell e nipote di Virginia Woolf. Sulla prima non è c’è alcun dubbio sulla sua capacità di affermazione per salvaguardare la dignità di donna, nel suo testamento emotivo, Una donna (1907), denuncia l’oltraggio subito quando era giovane da parte del marito con cui avrà un figlio dal quale dovrà allontanarsi forzatamente, per potersi salvare dalla violenza.

Un grande romanzo autobiografico, dedicato al figlio, che fa i conti con un passato feroce quello della scelta tra una vita fatta di soprusi e rinunce vicine alla famiglia, e la libertà di esprimersi per vivere con dignità. Chiudo questo excursus sulle donne di genio e di coraggio con un’inglese, Angelica Garnett (1918-2012), che ha profondamente criticato l’ambiente di cui era infarcita la sua infanzia, il circolo Bloomsbury.

Figlia di Vanessa Bell sorella di Virginia Woolf, nel libro autobiografico Ingannata con dolcezza. Un’infanzia a Bloomsbury rivela senza mezzi termini un conflittuale e lacerante rapporto con la madre, estremamente contraddittoria, sfuggente e possessiva, incapace di dare spazio e lasciare la possibilità alla figlia di realizzarsi. Per elaborare lo schiaffo di velluto di una madre snob, misogina ed elitaria, Angelica restituisce un quadretto familiare strepitoso. Un raffinato intreccio di situazioni tipiche della buona società aristocratica che camuffa molto arditamente una regolare e pacificata esistenza fatta invece di sotterfugi, omissioni a scapito di rapporti solidali, veritieri e della realizzazione delle capacità umane e dei sani desideri di una giovane ragazza del Novecento.