Sono le 6, e non di sera. Sono le 6 del mattino e Francesca Mazzotta sta già facendo colazione nella cucina della sua casa a Firenze.

Nella nostra intervista a distanza, mi descrive quel che ha sul tavolo, il miscuglio di colori che crea: dal fucsia della tazza al nero del caffè, dai toni solari della spremuta di pompelmo e mandarino, al melange chiaroscuro dello yogurt con cereali. Il tutto, lì pronto a soddisfare il palato.

Francesca Mazzotta scrive poesia, e si sente. Si sente quando le chiedo di presentarsi completando la frase: “C’era una volta Francesca Mazzotta, una donna che…”, e lei ci aggiunge “amava i giochi di parole, il fuoco e camminare in mezzo alla strada”.

Si sente che Francesca Mazzotta è una poeta, quando la scena che mi descrive davanti a sé prende le sembianze di un paesaggio: “Una vasta tundra travestita da tavolo di legno, un cielo latteo, di fronte, nominato ‘muro’. Sulla pianura spiccano diversi elementi: il breve ruscello detto anche ‘cucchiaino’, a fianco al rettangolo di sponda erbosa e spettinata, anche dicibile ‘un tovagliolo verde bottiglia, di carta’”.

Dal tavolo alla parete lo sguardo di Francesca si fa più confidenziale, nostalgico: “Sulla porzione di parete alla mia sinistra spuntano foto di noi bambini, di fronte a variopinte torri, le nostre torte di compleanno. Non torneranno, mi dico. Né tornerà la mano di mia nonna, tremula di malanno sulla piccola lavagna con ancora impressi i promemoria del giorno. La sua calligrafia, firma rupestre che la incensa di memoria, si inscrive nella genetica della casa: ‘limoni, pasticche x lavastoviglie, chiama Dobettini’”.

Siamo dentro le stanze più intime di Francesca – e non solo quelle di casa. Francesca sta dentro la sua cucina come sta nei ricordi che la abitano, in silenzio. “Quel silenzio a cui non rinuncerei mai a colazione” – ammette – “assieme alla sigaretta dopo il caffè”.

Nel momento della giornata in cui tutto (ri)nasce, chiedo a Francesca come nasce, di solito, la sua poesia: “La poesia in me nasce da un ‘urto’ di suoni e immagini (ora dolce ora più insistente e magnetico) che può incarnarsi in forme eterogenee: uno scorcio molto potente fatto di sola visione, o una sensazione che assume una tonalità, una mezza frase intercettata per strada”, mi spiega. “La cosa importante per me” – aggiunge – “è che quell’affioramento iniziale che rende la poesia urgente, richiama sempre altro, ovvero è il tassello di una trama, di un tessuto pieno di senso. Allora devo scrivere, devo sigillare, chiudere in un cerchio compatto quell’urto”.

Una “predisposizione all’ascolto e alla visione”, che è esattamente il punto in cui si trova normalmente la poesia, secondo Francesca. E il punto in cui invece si trova ora, la poesia di Francesca, è la raccolta Gli eroi sono partiti, uscita nel marzo 2021 per Passigli Editori. Un libro che Francesca associa al blu cobalto. “Per la notte e per il mare che accoglie gli scafi degli eroi in partenza”, chiarisce.

Con la poesia, si entra dentro mondi. Si creano e si immaginano, questi mondi. Allora, con toni giocosi, chiedo a Francesca di descrivermi la sua raccolta con una similitudine: “È come una lettera intima a sé stessi e al mondo, come una promessa di fedeltà a un mistero di cui ci si appropria con devozione. È come una vergogna senza rimorso: capire che tutto cambia, che gli eroi partono, ma gli alieni si scavano una nicchia dentro chi resta”.

E se invece fosse un’emozione soltanto, Francesca risponde che sarebbe “un brivido di paura”. E poi precisa: “Dico brivido perché è paura fino a un certo punto. A pungerla c’è, allo stesso tempo, un presentimento di libertà”. Una raccolta questa che per Francesca “ha come senso ultimo quello di trasfigurare visioni, incontri e vissuti per vederci meglio e per mettere in ordine le proprie terre (per dirla grossolanamente con Eliot)”.

Mettere in ordine, è qualcosa che ci sta bene, con i tempi che stiamo vivendo. Tempi che necessitano di “ritmo”. Un nuovo ritmo, probabilmente. Da recuperare, da nutrire. Francesca osserva che, per lei, “il ritmo è dappertutto. Nel lavoro, tra le maglie delle reti urbane, nel cielo. Nel pensiero. In un certo senso, sovrabbonda e straripa da ogni parte”. La difficoltà, per Francesca, sta nel tentativo di recuperate e nutrire, tutto quel ritmo: “Per recuperarlo e accudirlo servirebbe ascoltarlo. E per ascoltarlo servirebbe una disposizione quieta e perciò vigile e pronta alla lentezza”.

Penso a tutto quel di cui c’è (più) bisogno, di questi tempi: ritmo, lentezza, poesia (nel senso più ampio del termine). E di ritmo, lentezza, poesia, ne possiamo trovare nei laboratori di analisi poetica e lettura ad alta voce che Francesca tiene a Firenze assieme ad altri poeti, e curati da Rosaria Lo Russo. A me viene un dubbio: Francesca, ma la poesia, si può insegnare? “No, non si può insegnare la poesia. Si può allenare a uno sguardo e a un ascolto. Incentivarli, liberarli dai veli (qualora siano stati sovrapposti), affinché ci si possa riscoprire ‘sorprendibili’, ed eventualmente desiderosi di darne una prova, attraverso una forma di scrittura”.

Riscoprirsi “sorprendibili”: sensazione essenziale, di questi tempi. E per allenarci a sorprenderci, ancora, Francesca ci fa dono di una sua poesia. Non una a caso, ma, mi spiega, “una sul bisogno di rispettare le pareti tra le case contigue, affinché si resti vicini, di casa, di cuore”.

Casa

Gorgogliando dal fondo
ci adattiamo a morire
una volta soltanto

me lo dice la ringhiera da cui
sbuca la vespa mi punta
il rantolo di rose che noto oggi
sulla facciata di casa

se non ci fossero le facciate saremmo
cani che si scrutano senza intimità
mentre preparano la cena disfano
un letto si grattano
un fianco sbadigliando

ci adatteremmo a guardarci a dirimpetto
senza fiatare nudi.