Erano i suoi grandi amori: Parigi e Stendhal. Parigi lo incantava, Stendhal lo affascinava. La sua amata Parigi, “finestra aperta sul mondo in cui si respira aria di libertà e gioia. Parigi è una forma di felicità. La amo per la sovrapposizione della città letteraria alla città reale” (Fuoco all’anima,1992).

L’inesausta magia parigina ammaliava Leonardo Sciascia (Racalmuto 1921-Palermo, 1989), spirito libero, giornalista, insegnante, saggista, “poi diventato scrittore europeo per il fatto di avere avuto successo in Francia, per affinità … perché io mi sono molto formato su questa letteratura, sugli illuministi, su Diderot, Voltaire, Courier, su Stendhal. Per me, Stendhal è lo scrittore che amo di più, che leggo sempre. Mi affascina, mi interessa quella energia, quella vivacità, il modo di essere al tempo stesso poeta e, direi, scienziato dell’animo umano”.

Oggetto predominante della scrittura sciasciana, Stendhal desiderava ardentemente conoscere la Sicilia, terra che non riuscì mai a visitare e che sognava di raggiungere: “La cosa più desiderabile è di andare console a Palermo”, così l’autore francese aveva scritto in una lettera datata 24 dicembre 1830”.

Un asse culturale tra la Sicilia e la Francia, due poli estremi e così apparentemente lontani, con i loro colori e realtà, ma uniti da influenze culturali e letterarie. Un’affinità con la civiltà francese, in cui inevitabilmente lo scrittore di Racalmuto, paese natale e del suo precoce apprendistato culturale, dalle scuole elementari frequentate dal 1927, la sartoria dello zio Salvatore, al teatro gestito dallo zio Giuseppe, osservava delle tracce siciliane. Parigi, con le sue contaminazioni arabe dovute certamente al passato colonialista francese, gli ricordava il Mediterraneo e la sua Sicilia.

L’approccio con la capitale d’Oltralpe avviene per Sciascia durante i suoi studi all’Istituto Magistrale di Caltanissetta, grazie al professore Vitaliano Brancati, che ebbe un ruolo determinante nella formazione dello scrittore siciliano. È in questi anni infatti che Sciascia scopre anche autori come Diderot, Voltaire, Montesquieu e sviluppa una prima forma di coscienza civile e politica. Una vera e propria liaison tra Sciascia e Parigi che proseguirà nel tempo ben oltre i primi approcci illuministici.

Un rapporto personale e privilegiato con la Ville Lumière, che non è certamente univoco. Una città che lo ha altrettanto apprezzato e che lui ha amato intensamente.

Il fatto è che, per chi la ama, il rapporto con questa città (Parigi) è un rapporto di memoria. Di memoria trasmessa, di memoria riflessa; ma di memoria. Come se vi avessimo trascorso un tempo della nostra vita simile o parallelo all’adolescenza, alla giovinezza: per cui nella città reale, nei soggiorni reali, è un continuo riconoscimento, una continua verifica, delle cose già viste, già vissute, già amate nella città ideale, negli ideali soggiorni.

Un legame rarissimo che segna la consacrazione di Sciascia in terra di Francia, un paese in cui l'autore del Giorno della civetta ebbe successo negli anni Sessanta e Ottanta, ricercato, contattato dai suoi traduttori e apprezzato per le sue tesi ardite, anche per la sua tenace attività di polemista e capacità di anticipare e intuire verità scomode di estrema attualità.

Precursore dei nostri tempi e lungimirante, denunciò le irregolarità del sistema giudiziario, lo strapotere della casta dei magistrati, non risparmiando critiche pungenti alle istituzioni e accuse al sistema mafioso siciliano, articolate nei romanzi di genere poliziesco (Il Giorno della Civetta, 1961; A ciascuno il suo, 1966) escludendo ogni riferimento diretto, senza farvi tuttavia mai alcuna allusione.

Intuiva, con largo anticipo e lucida intelligenza, le infiltrazioni mafiose nella società siciliana non in maniera eclatante ma attraverso i discorsi e i comportamenti della gente “per bene”, avanzate nelle furibonde polemiche giornalistiche:

Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità (“A futura Memoria”, 1989).

Un intellettuale “scomodo”, impegnato per la giustizia e la dignità dell’uomo, grande analizzatore dei fatti, che non arretrò mai nelle sue battaglie garantiste contro la retorica delle manette e contro la cattiva amministrazione giudiziaria, come nel caso di Enzo Tortora, da lui sostenuto fin dalle prime accuse.

Non risparmiò aspri attacchi alle istituzioni sul rapimento dello statista democristiano, Aldo Moro, che nel saggio L’affaire Moro (Sellerio, 1978), irritato e sdegnato scriveva: “Vale la pena difendere questo nostro Stato?”.

Così come fino all’ultimo non spense mai sulla mafia il lume dell’opinione pubblica, denunciandone le connivenze con la politica, la capacità di infiltrazione, i rapporti omertosi e ambigui tra la Chiesa e le ragioni di stato. Un “magna magna”, come potremmo definirlo ora, che Leonardo Sciascia inscena in un libro breve e significativo: nel fantapolitico Todo Modo (1974). Ribelle, sempre pronto a fare battaglia a difesa del valore supremo della verità, nelle sue opere colpiva sempre nel segno, con il convincimento di dare fastidio.

Da anticonformista irriverente a profeta, con le sue intuizioni fulminanti, le sue serrate analisi, il suo pessimismo della ragione e il suo ottimismo della volontà. Letterato, animato da un’indomabile passione politica, dal fiuto avanguardistico con il senso di progettare alternative con il coraggio per l’asserzione provocatoria, Sciascia scriveva le sue opere con rigore libertario con le sue argute intuizioni sulle contraddizioni culturali, morali e politiche del nostro Paese.

I suoi protagonisti sono ministri, cardinali, viceré, colonnelli, solo personaggi maschili e rare figure femminili. Il suo è un universo “senza donne” e “costituzionalmente maschile”.

Nella vasta produzione di Sciascia, soprattutto in quella che precede gli anni Sessanta, le donne hanno una posizione marginale, tacita. Sono comparse, ininfluenti, al più sono comprimarie utili al dialogo, quasi invisibili e non comunicano sentimenti. Vittime e dominatrici, rinchiuse tra le mura domestiche e insieme “regine dei vecchi focolari tirannici” (La Sicilia come metafora, intervista di M. Padovani, Mondadori, Milano 1979).

Le donne siciliane descritte da Sciascia sono le custodi di una cultura arcaica e statica, nascoste quasi invisibili dove il silenzio diventa “patente di onorabilità” e anche espressione di una scelta di libertà, di amore: “c’è sua madre, muta, ferma al centro della stanza, la mano sul cuore; una statua di cenere che di vivo aveva la febbrile ansietà dello sguardo” (Consiglio d’Egitto, 1963).

Tuttavia la vita del saggista agrigentino è stata puntellata da fondamentali presenze femminili: da quella della madre e della sorella, insegnante elementare, alle tre zie paterne, presso le quali s'è formato. Non ci sono proiezioni d’ombre o riferimenti emozionali alle donne di Seneca quali Fedra e Medea, nessuna femminilità tragica e rabbiosa, nessuna donna come madre della vita nei racconti di Sciascia, ma solo presenze che spesso devono a fatica recitare la propria parte, conquistare la scena, dominata complessivamente da uomini.

Talvolta però il mutismo, attraverso cui si nascondono i personaggi femminili dell’ex maestro di scuola elementare, costituisce un’arma di protesta e di provocazione come ad esempio in Candido (1977), l’opera autobiografica, dal sapore volterriano, dove l’intraprendente Maria Grazia decide di tacere per punire il marito Munafò. È solo dopo gli anni Sessanta, con la pubblicazione dell’Onorevole (Einaudi,1965), che le donne, dopo “lunghi silenzi” prendono la parola e sanno di essere spietate, acute, affilate e argute.

L’esempio più rigoroso è rappresentato nell’Onorevole da Assunta, la moglie di Frangipane, il cui raro parlare, sagace e pungente, diventa una qualità e un tratto distintivo del carattere. Un radicale cambiamento che, nel giro di pochi anni, riflette quello di una società moderna. Ecco allora che le donne non si accontentano di tacere restando ai margini della scena, ma acquistano prepotentemente una posizione di primo piano, una più peculiare e sfaccettata identità, partecipando all’azione narrativa, ora nelle vesti di vittima incolpevole di una società che espelle il diverso (è il caso di Rosetta o di Caterina della Strega e il Capitano), ora in quelle di ideatrice dell’intrigo delittuoso (si pensi alla vedova Roscio di A ciascuno il suo).

L’immagine della donna “moderna”, assume una valenza simbolica nell’opera Gioco di Società (1971), dove Sciascia mostra i segni di una rivoluzione antropologica che rivoluziona radicalmente il ruolo sociale della figura femminile. La protagonista parla il linguaggio degli uomini, si muove con disinvoltura in una società mondana, tanto da affermare la sua egemonia nel crudele “Gioco di Società”.

Una metamorfosi novecentesca che è la spinta motrice che aziona le ambizioni femminili, in una società del consumo, che suggella la trasformazione della donna nella sfera del benessere da “domina” della famiglia a “padrona” di casa.

Tutte le declinazioni del ruolo della donna, una figura insomma che è stata colta da una delle voci più limpide del Novecento italiano, nell’istante in cui lei non ha ancora ricoperto un ruolo, ma che in maniera sinuosa, deve conquistare lo spazio descrittivo costruendo la propria personalità nel contrastante e nell’eloquio con l’ingombrante mondo maschile.