Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.

(Emily Dickinson)

Tutti forse ricorderete che tra le canzoncine che i grandi ci insegnavano con fervore per attirare la nostra attenzione, quando da bambini ci trovavamo in gruppo, c’era la famosa filastrocca del Girotondo. Presi per mano tutti in cerchio, senza sapere nulla di eclittiche e di equatore, cominciavamo a girare intonando che il giro è tondo, che il mondo è tanto bello e che, ad un certo punto, per una causa non meglio identificata, “casca la Terra”. Ne conseguiva, allora, che insieme bisognava cadere “tutti giù per terra”. E così facevamo, tra fragore e schiamazzi entusiasti di bambini.

Ignoravamo - come del resto ignoriamo anche adesso - che dietro quelle semplici parole si celava il dramma cosmico degli inizi del Mondo, dramma che gli antichi hanno tramandato e codificato di generazione in generazione attraverso le forme più svariate: miti, oroscopi, templi, manufatti, poemi e filastrocche all’apparenza ingenue, all’interno delle tradizioni di tutte le etnie del pianeta.

Secondo una tradizione millenaria, il tempo, per come lo conosciamo, non ha avuto sempre la medesima scansione ritmica che così bene struttura le stagioni. Ci sarebbe stato un tempo zero, un tempo in cui la via tra la Terra e il Cielo, che per la cosmologia antica coincideva con la Via Lattea, era aperta. La chiamavano pertanto Età dell’Oro e il riferimento al metallo più prezioso non era una metafora ingenua, ma aveva la pretesa di rievocare la coincidenza del piano dell’eclittica terrestre con quello dell’equatore. I tre mondi, si diceva, in quel tempo remoto segnato da una perpetua primavera, potevano comunicare tra loro e incontrarsi: quello dei vivi, quello dei “morti” e quello degli dèi.

A ciò si riferisce, ad esempio, il mito delle cinque stirpi umane di cui narra Esiodo nei suoi Érga kaì Hēmérai, meglio noto come Le opere e i giorni, in cui l’autore fa seguire alla stirpe dell’oro quelle d’argento, di bronzo, degli eroi e del ferro. E sempre al medesimo mito si riferisce Ovidio nelle sue Metamorphoses, in cui elenca le quattro età corrispondenti ai quattro metalli menzionati da Esiodo.

Quale sia stato l’evento che ha prodotto la drammatica fine dell’età aurea sono sempre i poeti e i cantori di diverso rango a narrarlo nelle loro trame cifrate con precisi e oltremodo complessi codici astronomici. Quella che infatti a noi sembra, dalla nostra prospettiva di “ferro”, l’alba dei tempi, cioè la cultura greco-romana, potrebbe costituire in realtà il tramonto di un’epoca che, con tutte le sue differenziazioni interne in termini evolutivi, era stata più vicina all’evento cosmogonico primordiale.

Nella sede olimpica non sono stati sempre gli dèi a governare il cosmo. Prima, com’è noto dalla Teogonia esiodea, c’erano stati i Titani, tra cui Crono, il padre di Zeus. Dopo aver detronizzato il padre e assunto il potere, anche Zeus ebbe di che patire con suo figlio Fetonte. A causa di quest’ultimo, in realtà, come a causa di un alter ego adamitico, l’esistenza stessa della Terra fu messa in pericolo. Sebbene non tutti gli ermeneuti siano d’accordo sull’interpretazione del mito di Fetonte, è infatti assai plausibile che in esso sia stata rievocata l’antichissima deviazione dell’asse terrestre.

Dopo aver convinto il padre Zeus a guidare il carro del Sole, sicuro come ogni adolescente di possedere la perizia necessaria nel tenere le redini dei cavalli, Fetonte si lascia distrarre dalla bellezza delle costellazioni che trapuntano il cielo stellato attorno alla Terra. Rapito dalla visione dello Scorpione, lascia inavvertitamente le redini e il carro senza guida comincia a precipitare portando il Sole pericolosamente vicino al pianeta. Tutto comincia a bruciare. La Terra stessa, Gaia, invoca l’aiuto di Zeus che prontamente è costretto a scagliare un fulmine contro il figlio che cade nel fiume Eridano, meglio noto con il nome - non unico - di Po.

L’infrazione compiuta da Fetonte è però irreparabile. Sebbene Atlante, titano posto a sorreggere l’intero pianeta sulla vertebra cervicale che reca il suo nome, riesca ad attutire il “crollo della Terra” scaricandone il peso sul ginocchio, l’asse terrestre è stato deviato per sempre. Il piano dell’eclittica non coincide più con il piano dell’equatore. Ne deriva l’alternarsi delle stagioni e l’orologio del tempo.

Da allora, miti cosmogonici, poemi religiosi, pitture rupestri, templi, santuari oracolari, formule divinatorie e ricette curative misurano la propria semantica in rapporto al remoto evento astronomico che ha posto a battesimo l’esilio della stirpe degli uomini sulla Terra. Così fanno le Piramidi egizie che cercano le stelle, le Cattedrali cristiane che ospitano al loro interno sibilline cinture zodiacali, così fa il poema di Dante che ricerca la mappa perduta del ritorno a casa. Così la stessa “nostalgia” trova la ragione definitiva del suo etimo nel dolore (álgos) del ritorno (nόstos).

Quali segni, quali messaggi ricavare dal complesso di date, cifre, labirinti astrali che le opere di tradizioni antiche e per lo più oggi trascurate serbano nelle loro trame?

Grazie alle scienze prodotte dai paradigmi moderni di ricerca, abbiamo appreso di un uomo primitivo ricurvo sulla terra come un quadrupede. Il suo approdo progressivo alla postura eretta, non a caso, lo abbiamo definito “evoluzione”. Allo stesso modo, le concezioni più arcaiche di cui serbano memoria le opere degli antenati alludono alla salvezza dell’uomo come ad una sua verticalizzazione, coniugando però il dato anatomico con quello ben più difficile da realizzare, il livello spirituale.

Sembra allora che, nonostante il Mondo sia ad un certo punto “crollato” trascinando con sé gli uomini bambini in cerchio, festosi e inconsapevoli come si è ad ogni nuova nascita, l’invito sottaciuto che ci viene dal passato sia quello che ci impone di rialzarci. Possiamo infatti subire l’esistenza come il crollo che ci abbassa e ci degrada oppure, molto più saggiamente, possiamo scegliere di sfidare la gravità, ritrovare l’asse che la Terra ha perduto e con esso la strada che un giorno ormai molto lontano abbiamo smarrito tra le stelle.