Ce n’è sempre almeno uno da qualche parte, in ogni testo. Nascosto bene, rimasto lì, passato inosservato, non visto. In ogni libro c’è almeno un piccolo refuso che dimora tra le pagine e si rivela solo quando, intenti nella lettura, lo si incontra tra le righe, si inciampa in quello sbaglio. Il più delle volte è impercettibile, eppure lascia il segno: può essere una e (congiunzione) al posto di una è (verbo essere); può trattarsi di un predicato scomposto, una virgola nomade, un punto spaziato e orfano della parola che lo precede. L’intruso tipografico, l’errore di battitura sfuggito, fa capolino e passa indenne il controllo di correttori automatici e revisori di bozze in persona, manifestandosi solo alla fine. Tanto che quando lo si incontra vien da dire: «ma come hanno fatto a non vederlo?!»
Non è dunque solo una leggenda editoriale, ma una constatazione attendibile, basata sull’esperienza, da ammettere con ironia e rassegnazione. I piccoli refusi, siano essi grammaticali o ortografici, ci sono sempre e sono abili da eludere anche le più sofisticate tecnologie di correzione, che tuttavia per quanto evolute, non sono infallibili. Anzi, a volte addirittura introducono nuovi errori. Eppure si legge, si rilegge, si corregge, si ricontrolla. Si sottopone persino il testo all’amico scrupoloso, ossessivo e pignolo, alla zia ex professoressa di Italiano, al collega attentissimo a cui non sfugge alcunché. Ma il refuso residuo, bravissimo nella mimetizzazione, ha un talento tutto suo: quello di non farsi mai trovare prima della stampa.
Vien da chiedersi se ci sia un perché a tutto questo. La risposta è presto detta: può trattarsi di tempi editoriali stretti e in questo caso la fretta porta a saltare o ridurre passaggi fondamentali di revisione e giri di bozze; errori post-impaginazione: ancorché il testo sia nato perfetto nel programma di scrittura, l’errore può nascere durante l’impaginazione o nel passaggio finale. Gioca molto un’abitudine visiva di fondo, dove il cervello completa ciò che legge; e quando conosce fin troppo bene il testo, tende a vedere ciò che pensa ci sia scritto, non ciò che c’è scritto per davvero. E più il testo è lungo, per proporzione diretta, più cresce la possibilità di errore. Praticamente il nostro cervello “aggiusta” di default, e così il refuso sfugge. Del resto, studi cognitivi mostrano che leggiamo le parole come blocchi visivi: possono anche essere alternate con numeri, ma il nostro cervello è in grado di leggere come se fossero tutte lettere.
Inchiostro e imprevisto
Alcuni autori famosi hanno giocato su questa verità: lo scrittore Umberto Eco, per esempio, sosteneva indulgente che il refuso è il segno che il libro è davvero vivo; mentre Alberto Savinio osservò che «l’errore tipografico è, in un libro, come il rumore di fondo in una sinfonia: fastidioso, ma reale». Da parte sua, Italo Calvino, perfezionista quasi compulsivo, rileggeva i suoi testi fino allo sfinimento. «Il refuso è il mio peggiore nemico» dichiarò l’autore del Barone Rampante. Ed è vero: il refuso rompe la perfezione asettica, ma al contempo ci ricorda che dietro a quelle pagine ci sono mani, occhi, stanchezze. E forse è proprio quel refuso che rende più vera la voce dell’autore.
Va da sé che l’obiettivo di qualsiasi casa editrice è ridurli al minimo, consapevoli che eliminarli del tutto è una sfida impossibile. La cosa che conta è che non alterino il senso del testo. Va detto che alcuni refusi fanno ridere, altri imbarazzano, ma tutti ci ricordano una cosa: anche i libri più curati sono materia viva e quindi fallibili. In alcuni casi, sono i lettori stessi che si divertono a cercarli, in una sorta di caccia al tesoro tipografica. Cosicché la domanda sorge spontanea: non è curioso che in un’epoca dove la perfezione digitale è dilagante, il lettore sia ancora capace di notare, e persino amare, un errore di stampa?
C’è chi ha usato parole gentili per i refusi: «Sono un’occhiata dietro le quinte» e con la creatività che si conviene a un testo fantasy pare quasi che il libro risponda: «Sono passato da mani e occhi umani. Forse anche dai tuoi». È sottile, talvolta quasi impercettibile il refuso, ma lascia il segno e resiste a tutto. Nonostante si passi al vaglio il testo più volte, alla fine uno almeno sfugge.
Momento di rottura e spazio di contatto
Insomma: il refuso nei libri è quasi una tacita legge universale, perché pare che nessuno ne sia esente. Come certe presenze inafferrabili, l’errore si cela nei punti ciechi dell’attenzione, e sguscia via. Anche i grandi editori, con interi team di revisione, ne sono vittime, e non sempre si tratta di disattenzione. A volte, infatti, l’errore nasce e si perpetua nell’impaginazione, nel salvataggio tra un file e l’altro, ma soprattutto nella mente troppo affaticata di chi, ormai, conosce quel testo a memoria.
C’è chi detesta trovare errori nei libri, chi li sottolinea a matita rossa come a scuola e chi, con uno spirito più indulgente, li guarda con dolcezza, accogliendo l’imperfezione. Perché è innegabile: dietro ogni refuso c’è l’opera umana, la mano di chi ha scritto, l’occhio di chi ha riletto e corretto, il gesto di chi ha impaginato e stampato. E tutte queste azioni insieme costituiscono la prova provata del fatto che la letteratura, così come la vita, non è esente da sbavature. Leggendo si è costretti a fermarsi, tornare indietro, guardare meglio: e quel momento di rottura diventa anche uno spazio di contatto, perché stabilisce un piccolo segreto tra lettore e autore.
Prendiamola così: alla fine il refuso altro non è che una confidenza involontaria, un messaggio in codice del libro stesso. Ed è come se l’autore sussurrasse a chi lo scopre: «Guarda, anche io sbaglio». E forse proprio lì, in quell’incespicare della lettura, ci sentiamo più vicini a chi ha scritto.