Credevamo di che non accadesse più. Che non dovesse accadere mai più. Pensavamo di aver compreso, in quanto umanità, che la guerra lascia solo sconfitti, nessun vincitore, solo torti, nessuna ragione. E invece è accaduto di nuovo, in Europa. Abbiamo percepito il peso tronfio dei cingolati pronti a pressare sia l’asfalto delle strade nei centri cittadini sia le nostre tempie sature di dolore. Abbiamo ascoltato la deflagrazione delle bombe che sventrano villaggi dai nomi impronunciabili e squarciano i nostri cuori. Abbiamo visto le lacrime scorrere sulle guance di bambini e adulti così simili alle nostre lacrime senza fine. Abbiamo osato annusare l’odore acre delle fabbriche in fiamme che penetra luttuoso nelle nostre oscene narici.

Questa guerra ci ha coinvolti: abbiamo compreso sulla nostra pelle il significato dell’interdipendenza. Le parole della belligeranza sono diventati mantra ripetuti nelle nostre menti, incubi notturni che continuano ad attraversare e riattraversare le incapaci superfici dei nostri perché, pensieri diurni che si propagano nei nostri cervelli lasciandoci in stato di perenne afflizione.

Attaccare, conficcando pali di orrore

Gli attacchi si susseguono, da terra, dal cielo, dal mare. Gli attacchi si diffondono dalle città ucraine fino alle pagine dei nostri giornali: i titoli sono gravidi di attacchi. I caratteri cubitali ambiscono ad ampliare il sentimento di orrore: ghermiscono lettrici e lettori per spingerli a invocare un “basta” ma spesso inoculano nelle vene anche rabbia, ira, rancore. L’odio letto è odio generato, la devastazione esibita in TV è devastazione che riverbera nei cervelli, la pornografia della tragedia ostentata nei social media rimbalza nei video grondanti sofferenza. L’inchiostro sulle pagine dei quotidiani diventa più nero di sempre: cupo, lugubre, oscuro.

Il verbo attaccare in italiano ha più significati che si piantano nelle nostre menti: vuol dire appiccicare, unire con una sostanza adesiva, e significa anche assalire con forze militari. In francese per ognuno dei due significati esiste un verbo apposito: attacher per ‘attaccare’ e attaquer per ‘dare l’assalto’. Nonno di questi verbi è l’antico francese attacher, da estachier ‘fissare ad un palo’, collegato a estache ‘palo’ (anche se l’etimologia non è univoca per tutti gli studiosi). In inglese, il sostantivo stake, ‘palo’ ha appunto questa medesima origine, così come lo spagnolo estaca ‘palo’, che deriva dal termine gotico corrispondente.

Noi, ad ogni attacco perpetrato sentiamo un palo conficcato nel petto: ci squarcia il cuore.

Combattere, pestando contro il senso della vita

Preferiremmo di gran lunga che i contendenti potessero dibattere e quindi confrontarsi discutendo con le parole le questioni sul campo. Oppure, meglio ancora, che potessero tra loro lanciarsi battute, motti di spirito, frasi mordaci di presa in giro reciproca: l’ironia è avversa alla guerra e alleata della pace.

Preferiremmo che i piedi dei soldati non fossero costretti nell’atrocità degli scarponi ma potessero affondare liberi nella battigia. Preferiremmo che le mani dei soldati non abbracciassero fucili ma tenessero nelle mani le aste per suonare una batteria e regalare così un nuovo ritmo alle loro e alle nostre orecchie.

E invece no: le forze in campo combattono, si fronteggiano con le armi, si considerano nemiche e quindi puntano allo sterminio. Il dibattito non fa parte della guerra e nemmeno le battute, ahinoi. Nei bollettini quotidiani le parole che risuonano sono combattimento e battaglia: sostantivi che possiedono una formazione latina di origine non precisata. Nella Roma classica battuĕre significava ‘battere’, ‘pestare’ ‘dare una serie di colpi su qualcuno o su qualcosa’ e nella lingua parlata quel verbo era diventato già battĕre.

Il prefisso con- che precede combattere ci porterebbe ad auspicare un’azione che si svolge insieme, in unione. Se il battere fosse preceduto da un contro- otterremmo un controbattere e quindi torneremmo nel campo semantico dell’argomentare. La battaglia invece infuria ancora.

Aggredire, passo dopo passo

Continuano le aggressioni. Nelle case, nelle fabbriche in cui si asserragliano i civili combattenti, nei cuori delle persone comuni che avevano auspicato per sé solo qualche assaggio di tempo buono. Le aggressioni di questi giorni assumono i segni dei caratteri cirillici e i suoni di una lingua slava di cui comprendiamo solo poche parole provenienti dalle lingue dei nostri antenati greci e latini. Il verbo aggredire deriva dal latino aggrĕdi ed è composto di ad- ‘verso’ e gradi, ‘camminare’, ‘avanzare’. Nell’aggressione percepiamo lo spostamento delle truppe nello spazio, il farsi avanti conquistando il terreno. Nell’aggressione ci restano impigliate nella mente l’andare oltre che è insieme andare oltre e sovrastare.

Scavando ancora un po’ dentro il verbo aggredire, vediamo che fa capolino la parola grado, cioè ‘ciascuno degli stadi intermedi che conducono successivamente da un livello a un altro’. Il suo progenitore è il sostantivo dei romani antichi gradus, -us, che significava ‘passo’, ‘scalino’. Ecco le aggressioni continue portano passo dopo passo, scalino dopo scalino ad avanzare nello spazio. Ma più avanzano le truppe, più sentiamo che si allontana dall’umanità il progresso, il progredire che, proprio con l’aggredire, condivide il ritmo del cammino.

Assaltare, con un salto

Con lo guardo truce e gli elmetti calati con troppa foga sulla fronte, prendono di mira un rifugio e lo assaltano, macellando corpi e cuori insieme. Gli assalti sono i balzi della guerra che si muove con andature non prevedibili. Sulla carta geografica osserviamo gli spostamenti ma non riusciamo a comprendere a fondo la potenza e l’orrore dell’assalto. Che invece è materia, durezza, oggetto, cosa.

Nell’assalto vediamo il salto, il procedere a scatti, lo zompare di una vita che non avrebbe dovuto essere questa e che avrebbe meritato ben altri slanci: abbracci, affetto, calore, qualche parola di conforto. Progenitore dell’assalto è il verbo latino classico assilīre, da salīre ‘saltare’ ‘procedere verso l’alto’, con il prefisso ad-. Sopra quel terreno fertile che è il verbo salīre, hanno germogliato i semi di molte parole italiane: l’assaltare si intreccia con le fronde dell’esultare, il sussulto si avvinghia ai tralci della resilienza, il salace si avviluppa con i rami dell’insulto, il trasalire cinge i nostri pensieri orientati al risultato. Ecco il giardino semantico fiorito ai nostri occhi: più ricco, più colorato, più variopinto di quello che appartiene ai soli assaltatori.

Assediare, in preda all’ossessione

Le città sono chiuse da ganasce tenaci: da lì non si esce, lì non c’è il permesso di entrare. Giorno dopo giorno lo strazio aumenta nelle città assediate, mentre gli assedianti pensano quale cavallo di legno tecnologico poter costruire per scardinare la difesa nemica e penetrare nel cuore urbano, proprio come avevano fatto gli astuti greci consigliati da Ulisse quando avevano voluto espugnare Troia.

Assediare vuol dire circondare, bloccare, isolare, impedire che i soccorsi possano affluire, fare di tutto per costringere alla resa. Il verbo ha come antenato il latino medievale assediare, rifacimento del latino classico obsĭdēre, che appunto voleva dire ‘assediare’. Il prefisso ob- ha lasciato spazio al prefisso ad-. In quell’assedio (obsĭdĭum) rinveniamo le tracce dell’ossesso, cioè di qualcuno che è posseduto dal demonio.

Lungo le vicende della storia della lingua, attraverso i ghirigori dei significati figurati delle parole, l’ossessione è un’idea persistente, un incubo, una preoccupazione assillante che ottenebra la mente, una molestia grave che perpetra uno stato di angoscia. Ebbene, l’assedio e l’ossesso sono parenti stretti: si scrutano l’un l’altro riconoscendo gli antenati in comune, si osservano, comprendono come in entrambi si srotoli la sensazione di claustrofobia. Nell’assedio e nell’ossesso fa capolino il verbo latino sedēre, ‘sedere’, che era uno ‘stare a lungo’ ma che invece di stare accanto ha assunto la forma dello stare contro.

Sterminare, deportando oltre il confine

Risuona lugubre il verbo sterminare che di recente abbiamo letto troppe volte sui giornali. Nello sterminio comprendiamo il significato dell’annientamento, del diventare niente, del trasformare un essere umano in nulla e in Nessuno. Lo sterminio corrisponde alla volontà di azzerare e di uccidere fino all’ultimo individuo.

In latino classico extermināre voleva dire ‘scacciare dai confini’, ‘bandire’, verbo derivato di termĭnus che per l’appunto era il ‘confine’ con il prefisso ex-. Da questo termĭnus in italiano abbiamo ricavato il termine, che rappresenta il limite estremo, sia nello spazio sia nel tempo. Oltre il termine non è possibile andare, perché non esiste nulla. Tutto, oltre il termine, è sterminato.

Massacrare, colpendo con una mazza

Assistiamo a massacri. Vediamo immagini di stragi compiute con crudeltà e ferocia. Questa è la guerra, parola truce che deriva da un presunto sostantivo germanico werra che significava ‘mischia’, ‘lite’ e che si piò confrontare con il verbo antico alto tedesco fir-werran, con il significato di ‘arruffare’, ‘scompigliare’.

Il massacro però non è solo scompiglio. Nel massacrare piombano le mazze chiodate sulle scatole craniche dei nemici. Il verbo deriva dal francese massacrer ‘massacrare’, a sua volta dal latino volgare mattiuculāre, ‘bastonare’, ‘mazzolare’, ancora a sia volta derivato di mattiūca, ‘mazza’, diminutivo di mattĕa, ‘mazza’, ‘bastone’.

Nei massacri contemporanei non sono le mazze a roteare nell’aria. La tecnologia ha moltiplicato per mille la potenza delle armi. E noi di fronte ai massacri osservati a distanza ci troviamo a nostra volta con il massacro nel cuore.