Dimensioni divergenti, nuovi punti di contatto, impreviste sovrapposizioni danno vita a portali prospettici da cui emergono innovativi filoni teorici.

L’oggetto artistico incontra inaspettatamente le Neuroscienze e dall’intersezione emerge una disciplina: la Neuroestetica.

Il termine, coniato da Semir Zeki, esplora i meccanismi biologici implicati nell’atto della percezione di un prodotto artistico, con l’obiettivo di approfondire l’esperienza di rispecchiamento estetica dalla prospettiva neurobiologica dell’esistenza umana.

Il filone teorico sviluppa la sua struttura a partire dalla scoperta dei neuroni specchio, frutto del lavoro di ricerca svolto nel 1992 da Giacomo Rizzolatti e il suo team.

Queste cellule nervose, scoperte nella corteccia premotoria, sono implicate nel processo di rispecchiamento riguardante il repertorio motorio ed emotivo dell’osservatore e sono necessari in meccanismi riguardanti l’immedesimazione e l’empatia, dal perimetro dei rapporti interpersonali a quello delle esperienze estetiche di artefatti artistici.

In ambito teatrale, dove l’atto di rispecchiamento dello spettatore nei confronti dell'attore avviene attraverso la corporeità, l’applicazione diviene inevitabile.

Non è un caso che un noto regista, Peter Brook, nel commentare la scoperta dei neuroni specchio abbia affermato che le neuroscienze, solo in quel momento iniziassero a capire ciò che il teatro conosceva da tempo.

La dicitura “Simulazione incarnata”, nasce dalla medesima scoperta in grado di fornire delucidazioni sulla modalità di comprensione tipiche degli esseri umani riguardanti la significazione delle azioni e delle intenzioni altrui, in assenza di mediazione.

“Simulazione incarnata” consiste nell’esperire in prima persona ciò che è esperito da terzi:è quel processo per cui il fruitore, parallelamente all’azione svolta da altri, ha l’attivazione di rappresentazioni interne di stati corporei associati.

I circuiti dei neuroni specchio consentono dunque l’incarnazione implicita nell’esperienza altrui, permettendo una sintonia e la consonanza immediata inconscia che consente di attribuire scopi ed obiettivi con la sola osservazione.

Ciò avviene attraverso la medesima attivazione di circuiti specifici dell’esecutore nell’osservatore, con il mantenimento di una cauta distanza di sicurezza da parte del fruitore.

Il corpo dell’attore evoca reazioni nella misura in cui suscita nel fruitore risonanze sensoriali, motorie ed emotive.

Attraverso l’osservazione condividiamo gli stati mentali del corpo performante e ciò consente l’accesso alla dimensione intersoggettiva.

Nel corso dell’azione teatrale si manifestano dinamiche simulative che connettono il fruitore al performer in questa relazione mimetica.

Studiare la componente neurale in ambito artistico, ci consente di visualizzare il teatro come pratica sociale fondata sul comportamento umano: un contesto che lascia spazio alla manifestazione di processi come l’umano riconoscimento reciproco ed il contatto con le emozioni osservate.

Non è un caso che nell’intimo delle nostre esistenze, si apra il sipario dell'immedesimazione: un processo in cui l’arte diventa un ponte in direzione della sfera affettiva e romantica, consentendoci di traslare le emozioni da una dimensione estetica a quella intima e sentimentale.

Nella dinamica di spostamento ci avventuriamo in una delle implicazioni a cui spesso ci si assoggetta in ambito affettivo, menzionata da Umberto Galimberti nel volume Le cose dell’amore in cui, nel capitolo Amore e immedesimazione, l’autore esplora con lucidità il legame tra il sentimento e identificazione.

Egli afferma: “Non c’è passione che non comporti una sorta di alienazione da sé, che di solito approda nell’immedesimazione con la persona amata”.

Nel tentativo disperato di non essere un estraneo all'altro, chi ama cerca di essere come presume l'amato lo voglia. E così si allontana da sé fino a rinunciare a se stesso, per diventare, rispetto all'amato, il suo doppio, il suo specchio, la sua conferma. Quel che si crea in questa distorsione dell'amore e da un lato a solitudine narcisistica della persona amata, che trova nella-mente null'altro che la conferma di sé, e dall'altro la dipendenza totale dell'amante dall'amato che, in questo modo, si allontana da sé, per prodursi solo come riflesso dell'amato.

In questo gioco distorto degli specchi e dei riflessi incrociati, la situazione si complica e si fa paradossale quando entrambi i soggetti della relazione vogliono reciprocamente divenire come l'uno presume l'altro lo voglia.

Qui comincia quell'assurdo gioco delle parti dove nessuno dei due è più se stesso e, invece di "sciogliersi nell'amore", come essi credono, si sciolgono nel gioco delle maschere. Queste vengono di continuo adattate dagli amanti all'ipotetico desiderio dell'altro, a cui entrambi vogliono conformarsi nel segno della fusione, dove a fondersi non è più il loro sé stesso autentico perso chissà dove, ma il loro desiderio di abolire ogni distanza, che temono più pericolosa della perdita di sé.

Sacrificio di sé per amore dell'altro, ultimo cascame dell'amore cristiano che i mistici celebrano nell’imitatio Christi, con la sola differenza che, tra gli amanti che si immedesimano nella rinuncia di sé, nessuno dei due è.

Come è possibile che si verifichi una così compiuta immedesimazione nell'altro riuscendo, nell’atto di ricezione, a condividere lo sguardo, il tatto, l’olfatto con l’individuo ammirato?

Il sistema di rispecchiamento analizzato, anche in questo caso, ci consente di entrare in uno stato di condivisione e sintonia emotiva ma se in quanto osservatori, dal mirroring teatrale è possibile trarre aspetti positivi e di riflessione personale; in quello che è il secondo caso, il gioco espone a molteplici rischi.

“Teatro come metafora del mondo” assume pienamente senso in questa prospettiva.

Affermava F. Nietzsche in “Umano troppo umano”: “Dunque si infrange lo specchio, ci si immagina in un'altra persona che si ammira, e si gode poi la nuova immagine del proprio io, anche se la si chiama col nome dell'altra persona”.

Ma al di là del mimetismo, altri punti di contatto emergono nel bizzarro, ma non troppo distante, binomio.

In amore come al teatro emerge la potenza della narrazione, la capacità di intessere sul corpo altrui storie, perforando la realtà a favore dell’idealizzazione.

Invaghirsi del volto di un individuo a partire dai soggettivi occhiali della realtà, significa cucire una maschera sull’altro a partire dalla nostra misura.

Un camuffamento che in entrambi i setting, si mostra vulnerabile al correre del tempo, svelando, prima o dopo, i dati di realtà a sfavore degli involucri.

Un altro trasversale tema è quello riguardante l’impossibilità di ripetizione.

L’ amore ed il teatro si alimentano di eventi unici contenenti in loro stessi il potere dell’irreplicabilità: la capacità di esistere nel medesimo istante in cui avvengono.

Il teatro si presta come figurazione del mondo e ci fornisce un’immagine efficace ai fini della significazione.

Gli innumerevoli punti di contatto non implicano un’assenza di divergenze, dentro ai sistemi di riferimento.

La ferocia potenza, attraverso cui la fruizione artistica investe il nostro sentire è, infatti, differente rispetto al modo in cui lo fa la vita che quotidianamente esperiamo.

La “Simulazione liberata”, è la brillante concettualizzazione formulata da Gallese e Guerra capace di chiarire la possibilità che fornisce uno spettacolo teatrale, vedente i fruitori non coprotagonisti della vicenda in atto, ma peccabili osservatori che accolgono l’esperire di azioni altrui. Di conseguenza all’ingresso nello spazio di fruizione si sottende una confortevole quanto salvifica distanza di sicurezza, concedente all’individuo la liberazione dalla necessità di difesa che contraddistinguerebbe un’esperienza quotidiana.

Il “Desiderio mimetico” crea in tal contesto, un ampio spazio di riflessione e di gioco che successivamente alla fruizione spettacolare, perfora il sipario e si espone sotto il cielo.

Dunque la potenza dell’amore si equipara a quella del teatro, ed entrambi capaci di dar vita ad un viaggio trasformativo segnato da avvinghiamento, sconfinamento e intima discesa, trovano il proprio fulcro nel imprescindibilità dell’altro ed in una perdizione personale, conducente, il più delle volte alla risalita dagli abissi del sé.