Ravenna, Ravenna, mentre sto scrivendo alzo gli occhi e ti ho tutta ai miei piedi. Sono quarant’anni che ti guardo e ti ho vista crescere così disordinata e confusa! Alla mia sinistra la facciata dell’antico monastero classense, ora sede dell’omonima biblioteca, mi suggerisce una perfetta scansione spaziale; alla mia destra posso conversare tranquillamente con la cupola del Duomo, il Battistero degli Ortodossi. Allargo lo sguardo e vedo gli altri monumenti. Ma sono brandelli talmente sradicati dal loro contesto che sembrano messi lì per sbaglio.

Ho visto e continuo a vedere un meccanismo perverso che da un lato continua a ripulire, restaurare, celebrare i monumenti e dall’altro infierisce su di essi.

Attanagliano il patrimonio artistico di questa città edifici ignoranti, dalle sagome le più disparate e dagli allineamenti i più contorti; tutti fuori scala. Costruzioni che ignorano e aggrediscono la sacralità di quel dono - a questo punto immeritato - giunto fino a noi attraverso generazioni e generazioni di antenati.

Ravenna risulta così devastata da tante macchie. Dal centro storico protuberanze cancerose hanno conquistato, conquistano senza sosta, la periferia, il mare.

Sono condomini, sono ville, villette, palazzi in stile alpino, in stile mediterraneo, in stile impero, in stile assiro-babilonese, in stile bomboniera. Sono finzioni. Sono villette a schiera accatastate, come stie nel pollaio - dice Nadia - coperte di vergogna da palazzoni nuovi, ma già un po’ fatiscenti, in compenso addobbati con colori fosforescenti e terrazzi lunghi e stretti. Terrazzi dove non ci si può stare neanche seduti e che si affacciano direttamente sulla sempre presente strada ad alta velocità.

Sono centri commerciali, sono multisale cinematografiche con tutto annesso (sala giochi, motel, parcheggio, paninoteca, ecc…) stile desolata periferia americana. Sono cavalcavia, strade snaturate da negozi usa e getta.

Sono portici per ciclopi alti tre piani e larghi poco più di due metri così, quando piove, ci si bagna ugualmente e pensare che la funzione principale del portico è quella di proteggere dalle intemperie, ma anche dal sole. È il luogo benedetto che separa lo spazio aperto dall’ingresso a spazi chiusi. È o dovrebbe essere un’accoglienza, un invito a entrare, a riposarsi seduti o a guardare vetrine. È una pausa. Invece no, ora vanno di moda i portici ciclopici. Qui a Ravenna si replica un frammento insignificante e vuoto del porticato del Bernini a Roma. E dire che sarebbe stato molto più semplice comprendere la lezione spaziale dei portici di Bagnacavallo: sono qui a portata di mano. Ma se non si comprende il significato spaziale dei monumenti ravennati, a maggior ragione Bagnacavallo, dotata dell'impianto urbanistico dell'architetto Biagio Rossetti (1447-1516) che con "l'addizione erculea" fece di Ferrara la prima città moderna, rimane una sconosciuta.

E la cloaca industriale continua a svilupparsi a ridosso della millenaria pineta, del mare, delle abitazioni civili. Infine, la periferia cresce divorando, con la sua scellerata dannazione, la campagna.

Questo è quel che vedo e non mi piace per niente.

Un esempio. Nei giorni in cui il tempo è incerto rinuncio ad andare lungo l'argine del fiume e compio percorsi circolari nei pressi della mia abitazione. In via Berlinguer incontro regolarmente -loro sono lì immobili come cani mastini pronti ad aggredire - i due edifici che dovrebbero ospitare i nuovi uffici comunali e gli uffici Arpae. Non so quale fermento mentale fatto di curiosità mista a incredulità mi spinga in quel luogo. È da tempo che li guardo e ormai li conosco a memoria, eppure rimango sempre annichilita di fronte alla forma di aggressività intellettuale ed estetica che ha spinto uno o più architetti e tecnici a ideare due edifici di tale astrazione; completamente sradicati dall'ambiente e dalla cultura di questa città e, completamente sradicati, dalle esigenze delle persone che – forse - in quegli spazi dovranno lavorare. A guardarli attentamente ho la netta impressione che i progettisti non siano mai venuti a Ravenna e in nome di una loro speciale onnipotenza non abbiano il minimo rispetto per gli esseri umani.

Dico, "forse" perché questa area ha una storia che per essere gentili, si può definire sfortunata. Inizia nel 1987 con il progetto del Pala Piano, dal nome dell'architetto, la cui costruzione venne poi abbandonata per errori politici e tecnici. Questi due edifici sono stati progettati nel 2004, il cantiere ha avuto inizio nel 2014 e sarà completato - forse - alla fine del 2022. Nel loro percorso accidentato dove oltre i freni imposti dal Coronavirus fa capolino, all'impresa appaltatrice Passarelli di Napoli, un provvedimento antimafia che blocca per lungo tempo i lavori. I costi, nel frattempo, sono a tal punto aumentati da raggiungere quasi il doppio dei valori di mercato.

Ma ritorno alla visione di ciò che vedo.

Sono seduta in una panchina e li guardo. L'area, molto vasta, è vicinissima al mercato "grande" e delimita il passaggio ad una zona residenziale o prima periferia, anche questa, in stato confusionale, ma con spazi ancora verdi. Nell'attuale contesto i due edifici appaiono come mostri giganteschi e feroci ingabbiati da listelli di faggio che dal colore sabbia originario, sono passati ad un grigio tendente al nero. Hanno acquistato così un aspetto tetro e già fatiscente - un misto tra le sbarre delle carceri e le gabbie dove vengono rinchiusi animali feroci. Gli elementi architettonici che ne caratterizzano l'aspetto sono vetrate, segnate al loro esterno, da listelli di legno. Nel primo e nel secondo piano non vedo neanche un muro. Ecco. A parte l'iniziale carattere nordico - ora in quel colore grigio cupo hanno perduto qualsiasi carattere architettonico - mi chiedo come sia possibile lavorare lì dentro con una luce che colpisce gli spazi interni a intermittenza regolare, luce a stelle e strisce.

C'è in questi due edifici una strafottenza inaudita, una totale mancanza di rispetto e di affezione per la città e per le persone condannate a lavorare con una luce irregolare che dovrà essere eliminata con tendaggi spessi e chilometrici.

Sono l'esempio della riduzione della città ad un concetto astratto, privo di qualsiasi riferimento all'essere umano che vi abita e al territorio che li configura. Continuo a vedere, in chi ha progettato questi uffici un senso di onnipotenza e un potere irriverente che aumenta nell'astrazione dell'idea fine a se stessa, inaccettabile sul piano umano. Annientano, insieme agli altri bubboni sparsi nel nostro territorio, la mia concezione della città come opera d'arte, come luogo godibile in cui ci si sente protetti e in cui è piacevole stare.

Certo, annichilita e smarrita continuo a guardarli perché purtroppo questi interventi così aggressivi non risparmiano alcun luogo, ma operano indiscriminatamente dal centro storico alla periferia, al mare.

La città è vista come oggetto da manipolare e di conseguenza si trasforma il concetto di società, quindi di umanità, in una entità puramente astratta.

Per comprendere e conservare nel loro splendore i monumenti come autentico patrimonio dell’umanità, la mia città avrebbe dovuto confluire dal centro storico alla periferia senza colpo ferire, “come un fiume in un altro”. Prova a capire di quale dei due è l’acqua - del Montone o del Ronco - un’acqua nuova che prima non esisteva.

Confluenza.

Penso a una città che cresce e si sviluppa come espressione di una coscienza collettiva, consapevole di un bene culturale molto articolato e assai complesso, dato che rappresenta la qualità dei luoghi che quotidianamente viviamo.

Ma così non è stato. Così non è, anzi Ravenna, apparentemente distratta da altro, conquista, in disordine sparso, costa e terraferma, ignara di avere in sé un patrimonio dell’umanità da comprendere e conservare.