Il giardino di Yoshimasa nasce come un respiro interrotto e subito ricomposto, come un cuore che, pur ferito, trova nel battito della natura la sua ragione di sopravvivenza. È il lavoro più intimo e radicale di Carla Iacono, un’opera che non si limita a essere vista ma che pretende di essere vissuta, toccata, abitata, attraversata dai silenzi e dai gesti di chi vi entra. Non è un giardino come gli altri, ma un luogo che custodisce il lutto e lo trasfigura, che raccoglie la memoria e la restituisce sotto forma di luce, che unisce la vulnerabilità del corpo all’ostinata resistenza della vita. Nasce dal dolore più grande, la perdita di Guido Geerts, compagno di vita e di arte, e proprio per questo si offre come dono prezioso, come testimonianza che la fragilità può diventare forza, che le crepe possono brillare come oro, che la ferita può essere feconda.
È un hortus conclusus che si apre all’infinito, uno spazio chiuso eppure spalancato, che porta dentro di sé la dialettica tra vita e morte, speranza e disperazione, e che nel ciclo delle stagioni trova il suo respiro naturale. Quattro aiuole — di piante velenose e officinali, di fiori verdi e neri — si contrappongono come immagini speculari e discordanti, come voci che raccontano la stessa storia da prospettive diverse, come se la natura stessa avesse deciso di farsi allegoria. Nel mezzo, una fontana rotonda, un cuore pulsante che raccoglie l’acqua, elemento che scorre e guarisce, e accanto un melograno, simbolo di vita e fertilità, che segna l’ingresso come se imponesse un gesto di umiltà e di rispetto. L’idea che permea l’intero progetto è quella del kintsugi, la tecnica giapponese che trasforma le fratture in bellezza, le cicatrici in oro: il giardino non nasconde le sue ferite, le esibisce come segni di un processo di rinascita, come un corpo che ha imparato a trasformare il dolore in linfa. La cura delle piante diventa allora un rituale che ripara l’anima, che evoca energie profonde e antiche, che restituisce a chi lo coltiva la sensazione di non essere perso, di non essere solo.
Ma il giardino non è solo opera di Carla, è anche spazio di apertura e condivisione, teatro di incontri, crocevia di esperienze. Qui si innesta il gesto delicato e insieme radicale di Livia Savorelli, che ha saputo dare forma e voce agli “Innesti creativi”, un dispositivo poetico e umano che trasforma il giardino in un organismo vivo, in un tessuto che respira e si rigenera grazie alla contaminazione con altri artisti.
Armida Gandini, con i suoi “Libri d’inciampo”, con un esplicito riferimento alle “pietre d’inciampo” ricoperte d’ottone e inserite nel selciato delle città a memoria delle persone deportate nei campi di concentramento nazisti, intreccia memoria e natura: simulacri di libri, realizzati in terra con inciso il nome dell’autore e il titolo, sono disseminati tra le aiuole come pietre di ricordo, connettendo chi visita il giardino alle storie e ai viaggi che ogni libro custodisce. È un atto di contemplazione e rispetto, un invito a camminare tra la memoria altrui e quella personale, dove ogni passo diventa rito di rigenerazione. Mona Lisa Tina, con la performance “Non ti scordar di me”, porta nel giardino l’eco del lutto e dell’assenza, una danza sottile e commossa che ricorda l’arte come strumento di guarigione. In dialogo con Helene Fall, madre dell’artista, la performance trasforma il dolore in un rito collettivo, dove la perdita diventa presenza, dove il silenzio diventa ponte tra il cuore ferito e la luce del mondo.
Laura Lambroni con “Metamorfosi” fa dialogare terra e psiche: le spine di rosa, realizzate in argilla e adagiate sul terreno con miele, simboleggiano il dolore e la trasformazione, invitando ciascun visitatore a un atto psicomagico che libera e rigenera. Le “stanze” in argilla, ispirate alla psicologia archetipica di Hillman, offrono un percorso emotivo che intreccia inconscio e coscienza, memoria e rinascita, e ogni gesto compiuto nel giardino diventa parte di questo flusso di cura e rinnovamento. Narda Zapata, con “Grani d’argento”, introduce la dimensione del tempo e della continuità: le sue clientes boliviane in caolino, poste come guardiane delle aiuole, assorbono l’essenza del giardino e dialogano tra permanenza e caducità. La mesa andina, con clienti di zucchero, celebra il dono e l’attenzione alla terra, trasformando l’effimero in rituale, e rendendo il giardino un crocevia di culture, memorie e desideri.
Cinzia Battagliola, con “Impronte di me-moria”, raccoglie il ricordo del giardino d’infanzia e lo trasferisce nel Giardino di Yoshimasa: germogli trapiantati, Polaroid e radici visive creano un legame invisibile ma forte tra luoghi lontani, una memoria che fiorisce nel presente e che, come ogni innesto, trasmette cura e resilienza. Loris Ferri e Alessandro Giampaoli conducono il visitatore a dialogare con le piante stesse, custodi della memoria molecolare del mondo, testimoni di un tempo antico e resiliente. Le piante diventano interlocutrici, e i visitatori imparano ad ascoltarle, a percepire la saggezza naturale che si muove tra radici e rami, tra permanenza e trasformazione.
Vanni Cuoghi, con “Herbaria Misterica”, aggiunge un erbario di piante improbabili, un luogo sospeso tra disciplina e immaginazione, dove la cura e i piccoli gesti quotidiani diventano antidoti alla brutalità del mondo, e dove l’arte si fa strumento di conforto e rigenerazione. Cesare Galluzzo, con “Tomie di una deriva”, costruisce una Wunderkammer viva, un duello alchemico tra materia effimera e stampa permanente, tra corpo reale e rappresentazione virtuale, tra vita e morte, mostrando come il giardino sia teatro di trasformazioni continue, eco del tempo stesso. Infine, Asako Hishiki, con i suoi “Fubako”, crea scatole in cui deporre il cuore, piccoli scrigni capaci di contenere emozioni e sentimenti, ponti silenziosi tra le persone. Le scatole dialogano con le aiuole, con le coppie di elementi antitetici del giardino — veleno e medicina, luce e ombra, morte e rinascita — trasformando il percorso in un’esperienza di arrivo, affidamento e ritorno, dove perfino i visitatori effimeri — farfalle e uccelli — diventano partecipi del flusso vitale del luogo.
Gli innesti curati da Savorelli diventano così il cuore pulsante del progetto, la dimostrazione che l’arte non è mai un gesto isolato ma sempre un dialogo, che il giardino non è mai un recinto chiuso ma un luogo aperto al divenire. In essi si compie l’essenza stessa del giardino di Yoshimasa: non essere solo un’opera privata, intima, ma farsi comunità, accogliere le voci, intrecciare le esperienze, generare una trama collettiva di memorie, dolori e speranze. Ogni innesto è come una cicatrice d’oro, una linea che arricchisce il disegno complessivo, un gesto che rende l’opera ancora più unica e irripetibile. Il giardino non è più solo il racconto di un dolore personale, ma diventa narrazione universale: ognuno può ritrovarsi in quel gioco di contrasti, ognuno può sentire proprie le aiuole di luce e di ombra, ognuno può riconoscere nelle fioriture stagionali il ritmo della propria vita. È un giardino che accoglie e restituisce, che guarisce e ferisce, che consola e inquieta, un giardino che non cerca risposte ma che sa generare domande. È un’opera d’arte che non si esaurisce mai, che continua a crescere, a mutare, a sorprenderci, come la vita stessa.
Grazie agli innesti di Savorelli, il giardino di Yoshimasa si conferma come spazio liminale in cui arte e natura, vita e morte, intimità e collettività si intrecciano in un flusso continuo. Non c’è qui una gerarchia tra creatore e spettatore, tra artista e visitatore: tutti sono chiamati a entrare, a sentire, a lasciare un segno, a farsi parte di un processo che non conosce fine. È un giardino sull’abisso, come lo definisce Carla, ma è anche un giardino di salvezza, un luogo in cui le radici affondano nel dolore e i rami si allungano verso la speranza, un giardino che ci insegna a guardare le nostre cicatrici senza paura, a riconoscerle come segni preziosi della nostra esistenza.
In questa opera di Carla Iacono, resa ancora più viva e pulsante dalla sensibilità di Livia Savorelli e dai suoi innesti, c’è tutto: il lutto e la rinascita, la fragilità e la resistenza, la memoria e l’oblio, la solitudine e la comunità. È un’opera che si scrive e si riscrive ogni giorno, con le stagioni, con gli incontri, con i gesti di chi vi entra. È un giardino, sì, ma è anche una vita intera che continua a germogliare.