Quando si parla di archeologia, ovvero della parola o pensiero che viene dal passato, quello che il passato ci racconta, ci testimonia, a volte nasce anche una domanda, perché oltre che di archeo-logia non si potrebbe parlare di archeo-gnosia, ovvero di conoscenza e comprensione dell’antichità, di quei tempi che lo scorrere di secoli e millenni se non di più, allontanano inesorabilmente da noi ma che affascinano la nostra mente, sempre alla ricerca del senso ultimo delle cose e della consapevolezza del nostro cammino nel mondo.

Ecco perché scoperte, rinvenimenti spesso occasionali, di reperti dell’antichità, di quell’arché, di quell’inizio nascosto delle nostre origini, suscitano interesse, passione, il bisogno di confrontarsi con l’altro da noi che in realtà e qualcosa che è in noi, è ciò che siamo stati e il significato del perché oggi siamo, senza tante inutili e dannose distinzioni artificiose e strumentali. Il tendenziale conformismo della conoscenza, fatto di poche ma rassicuranti “certezze”, di “verità” da tramandare immutabili, incrementato in modo esponenziale dal grande fratello Internet, è paradossalmente il più grande nemico della conoscenza, della gnosia, appunto, che il logos interpreta e comprende. “Tra cielo e terra esistono tante cose che la tua mente umana non riesce a concepire”, potremmo dire parafrasando la famosa espressione che Amleto dà all’amico Orazio alla ricerca del senso delle cose. E la sete di conoscenza che ha spinto l’umanità a progredire, a superare le proprie incapacità e debolezze, altro non è che l’aspirazione di andare verso il futuro conoscendo tutto il nostro passato, unico solido riferimento per guardare avanti con le sue contraddizioni, negazioni, difficoltà!

E questo perché la conoscenza, la comprensione del passato remoto lungi dal darci confortanti risposte, sovente ci propone nuove sfide. Una condizione che l’esplorazione delle immensità dello spazio aumenta ed intensifica non fosse altro perché guardare ai limiti - senza limiti - dell’universo ci porta non tanto verso il futuro o meglio ancora l’evoluzione del nostro presente, ma verso il passato: quel che riusciamo a vedere, a guardare con stupore per la sua immensa bellezza è un messaggio che ci viene dall’inizio, dalla creazione o dal big bang (peraltro non in contraddizione logica), ovvero da quell’arché dove tutto ha avuto inizio e che dopo le nostre piccole esistenze, continuerà ad esistere.

Una premessa doverosa per raccontare di due incredibili e spettacolari scoperte degli ultimi mesi, quelli del letargo apparente durante il lockdown per la pandemia. Due scoperte che ci arrivano da Pompei, Ercolano e Stabia e dall’area vesuviana in genere, luogo unico nella storia dell’antichità e che tante domande e tante risposte promette nella conoscenza di una delle catastrofi naturali più famose e a suo modo conosciute e raccontate da antichi e moderni. Eppure sempre sul punto di manifestare ancora e ancora qualcosa di nuovo ed incredibile che la natura nella sua furia distruttrice ha in qualche modo conservato permettendoci oggi di misurarci con queste parole, questo racconto che il passato continua a tramandarci.

La prima è certamente incredibile per il valore di conoscenza sul corpo umano e sulle sue evoluzioni nel corso del tempo. Si tratta dell’isolamento reso possibile dalla condizione del corpo, di neuroni nel cervello vetrificato di una vittima dell'eruzione del 79 d.C. Una ricerca ed uno studio italiano dell’Università Federico II di Napoli, del Cnr e del CEINGE-Biotecnologie Avanzate, delle Università Roma Tre e Statale di Milano - studio pubblicato sulla rivista statunitense Plos One – che ci racconta nuovi scenari dell’eruzione che nel 79 d.C. seppellì Ercolano, Pompei e l'intera area vesuviana fino a 20 km di distanza dal vulcano. La straordinaria scoperta è frutto del lavoro dell’antropologo forense Pier Paolo Petrone, in collaborazione con geologi, archeologi, biologi, medici legali, neurogenetisti e matematici, che hanno raggiunto risultati eccezionali nonostante le limitazioni imposte dal Covid-19. “Il rinvenimento di tessuto cerebrale in resti umani antichi è un evento insolito - ha sottolineato Petrone - ma ciò che è estremamente raro è la preservazione integrale di strutture neuronali di un sistema nervoso centrale di 2000 anni fa, nel nostro caso a una risoluzione senza precedenti”.

Il paradosso è che la violenza e la velocità della spaventosa eruzione che causò la devastazione dell’area vesuviana e la morte di migliaia di abitanti, seppellendo in poche ore la città di Ercolano, ha permesso la conservazione di resti biologici anche umani per quella che viene indicata come conversione del tessuto umano in vetro che dà anche chiare indicazioni di un rapido raffreddamento delle ceneri vulcaniche roventi che investirono Ercolano nelle prime fasi dell’eruzione". Una vetrificazione tanto rapida da “congelare” le strutture cellulari del sistema nervoso centrale di questa vittima. Le indagini sui resti delle vittime dell’eruzione non si fermano. La capacità di estrarre DNA antico dei resti delle vittime dell'eruzione, infatti, ha consentito di ricostruire rapporti di parentela tra i corpi trovati nelle costruzioni sepolte da ceneri, lapilli e lava ma anche informazioni preziose su malattie antiche e la loro possibile evoluzione in epoca moderna.

I resti intatti e riconoscibili del cervello di questo antico abitante di Ercolano fanno pensare, in relazione ad altri elementi emersi dopo il ritrovamento, che erano forse quelli del custode del Collegio degli Augustali, che forse dormiva quando l'onda di calore, una nube densa, discesa a velocità elevatissima dal vulcano, avvolse il suo corpo nel letto in cui dormiva in un edificio già vuoto. Quasi un’istantanea, un fotogramma della sorte che tocca improvvisa e imprevedibile ad ognuno di noi. Una foto che ci fa spaziare sulla sua vita, sulla sua fine, su quanto accadde intorno a lui. E soprattutto riuscire a completare una sorta di ricostruzione a ritroso, delle varie fasi dell’eruzione, valutando i tempi di esposizione alle alte temperature e del raffreddamento dei flussi, che hanno importanza non solo per l'archeologia e la bioantropologia, ma anche per il rischio vulcanico.

La seconda incredibile ed eccezionale scoperta è il rinvenimento di due corpi di antichi abitanti di Pompei, travolti dai materiali e dai fumi incandescenti dell'eruzione riemersi dalle ceneri e dall’oblio del passato grazie alla tecnica dei calchi in gesso. La scoperta a Civita Giuliana, 700 metri a Nord-Ovest di Pompei, nell'area della grande villa suburbana dove già nel 2017 furono rinvenuti i resti di tre cavalli bardati. Una nuova conferma della tecnica impiegata nell’Ottocento da Giuseppe Fiorelli, che prevede l'introduzione di una colata di gesso liquido nelle cavità lasciate dai corpi degli abitanti sommersi dal materiale vulcanico.

Secondo le prime ricostruzioni ed in base agli elementi tuttora in fase di studio, si potrebbe trattare con buona approssimazione dei resti di due uomini, con molta probabilità un ricco pompeiano e il suo schiavo, secondo i reperti ritrovati dell’abbigliamento e di altri reperti documentati. L'affinamento della tecnica calcografica avvenuta nel corso dei decenni ha permesso di veder restituita l'immagine di due probabili abitanti in fuga dalla propria abitazione investita dalle ceneri piroclastiche la cui vita è stata fermata in pochissimo tempo, preservandone gran parte dei corpi, come dimostrano dettagli sorprendenti, come i panneggi degli antichi abiti o addirittura le vene delle mani, reperti questi che la combustione e il tempo rendono preziosissimi. Secondo gli studiosi sarebbe questa la sorte toccata a molti abitanti nella prima fase eruttiva, quando la città venne ricoperta dai lapilli. Una coltre rovente unita a gas asfissianti che intrappolò le persone negli ambienti delle loro case, investite anche dai crolli provocati dal materiale vulcanico che si depositò a velocità incredibile e in quantità gigantesche fino a un'altezza di tre metri.

Di questo momento iniziale della catastrofe restano soprattutto corpi scheletrici mentre poco dopo, quando la città venne colpita dal flusso piroclastico che riempì gli spazi non ancora invasi dai materiali vulcanici, le persone morirono all'istante per shock termico. I corpi rimasero in sostanza, sottolineano gli scienziati, nella posizione in cui erano stati investiti dal flusso, e il materiale vulcanico e la cenere solidificandosi ne hanno conservato l'impronta anche dopo la decomposizione.

È la fotografia che duemila anni dopo ci arriva da Pompei e da quella villa alle porte della città, dove uno scavo in corso dal 2017 ha riportato alla luce i resti di una lussuosa abitazione che, con una grande terrazza panoramica, dominava il Golfo di Napoli e di Capri. In questo spazio un tempo fatto di agio e ricchezza, sotto quella terrazza a mare per così dire, nel criptoportico, che sono stati trovati i corpi dei due fuggiaschi. Probabilmente un uomo abbiente, forse il padrone della domus e un suo schiavo di età più giovane. Accomunati nella morte e nella disperata ricerca della vita.

Secondo la ricostruzione fornita dagli scopritori i dettagli che i calchi di gesso restituiscono sono 'impressionanti'. La prima vittima - sottolinea la ricostruzione - è, quasi certamente, un ragazzo tra i 18 e i 23 anni, alto 1,56 metri. Ha il capo reclinato, con i denti e le ossa del cranio ancora parzialmente visibili; indossa una tunica corta, di lunghezza non superiore al ginocchio, di cui è ben visibile l'impronta del panneggio sulla parte bassa del ventre, con ricche e spesse pieghe. Le tracce di tessuto suggeriscono che si tratti di una stoffa pesante, probabilmente fibre di lana. Il braccio sinistro è leggermente piegato con la mano, ben delineata, appoggiata sull'addome, mentre il destro poggia sul petto. Le gambe sono nude. Vicino al volto vi sono frammenti di intonaco bianco, trascinato dalla nube di cenere. La presenza di una serie di schiacciamenti vertebrali, inusuali per la giovane età del ragazzo, fa pensare che potesse svolgere lavori pesanti: ecco perché si pensa che fosse uno schiavo.

È durante la realizzazione di questo primo calco - il racconto del rinvenimento della direttrice degli scavi Luana Toniolo - che è avvenuta la scoperta delle ossa di un piede, che ha rivelato la presenza di una seconda vittima, in una posizione completamente diversa rispetto alla prima, ma attestata in altri calchi a Pompei. Il volto è riverso a terra, a un livello più basso del corpo, e il gesso ha delineato con precisione il mento, le labbra e il naso, mentre si conservano parzialmente a vista le ossa del cranio. Le braccia sono ripiegate con le mani sul petto, mentre le gambe sono divaricate e con le ginocchia piegate. L'abbigliamento è più articolato rispetto all'altro uomo.

Sotto il collo della vittima, vicino allo sterno dove la stoffa crea evidenti e pesanti pieghe, si conservano infatti impronte di tessuto ben visibili riconducibili a un mantello in lana che era fermato sulla spalla sinistra. In corrispondenza della parte superiore del braccio sinistro vi è anche l'impronta di un tessuto diverso, quello di una tunica, che sembrerebbe essere lunga fino alla zona pelvica. Anche vicino al volto di questa vittima vi sono frammenti di intonaco bianco, in questo caso probabilmente crollati dal piano superiore. La robustezza del corpo, soprattutto a livello del torace, suggerisce che anche in questo caso sia un uomo, più anziano però rispetto al primo, con un'età compresa tra i 30 e i 40 anni e alto circa 1,62 metri.

"Uno scavo molto importante quello di Civita Giuliana, la valutazione espressa dal direttore del Parco archeologico di Pompei, Massimo Osanna - perché condotto insieme alla Procura di Torre Annunziata per scongiurare gli scavi clandestini e che restituisce scoperte toccanti. Queste due vittime cercavano forse rifugio nel criptoportico, dove invece vengono travolte dalla corrente piroclastica alle 9 di mattina. Una morte per shock termico, come dimostrano anche gli arti, i piedi, le mani contratti. Una morte che per noi oggi è una fonte di conoscenza incredibile".

Quegli uomini, come tante altre vittime, donne, bambini, anziani, intere comunità grazie a queste scoperte tornano a “vivere” e soprattutto a raccontarci la loro esistenza sino al momento in cui la forza devastante della natura non li ha cristallizzati fermando il loro respiro e ponendo fine alla loro sofferenza e al loro stupore dinanzi alla fine. Proprio quella violenta ondata ce li restituisce in condizioni tali da poterne “ascoltare” il racconto. Quel racconto mirabile che Plinio il Giovane ha lasciato nelle sue pagine a Tacito, testimonianza preziosa di chi vide la catastrofe con i suoi occhi da lontano abbastanza per comprenderne la tragicità. Quelle persone ritrovate in fuga, sono invece il racconto che ci arriva di chi si trovò all’interno del “cratere” infuocato e venne travolto senza possibilità di fuga. Una testimonianza muta ma lacerante pensando alla sensazione di nulla poter fare di fronte alla morte che aveva le sembianze di un velo di cenere e di una nube nera squarciata da fulmini e saette violente ed incessanti, mentre la terra tremava sconquassata anch’essa come racconta Plinio il Giovane!