Andare oltre le debolezze e le imperfezioni dell’umano per dare vita a un’umanità emendata dai propri difetti è stata una pratica ricorrente della storia, interpretata in modo diverso a seconda delle ideologie vigenti e dei mezzi tecnici disponibili. È accaduto ogni volta che un piccolo gruppo si è dichiarato depositario della Verità e legittimato a imporla agli altri, con le buone o con le cattive, naturalmente per il loro bene. Perfino gli illuministi, che avevano esaltato la ragione come strumento di liberazione dalle ideologie assolutiste, non si resero conto che la dea ragione nascondeva un’anima assolutista allorché le certezze pseudo-scientifiche venivano invocate per costruire una forma umana conforme a una nuova collettività.
L’orientamento costante della costruzione del nuovo umano come cellula sana di un corpo sociale normalizzato ed efficiente è sempre stato la riduzione della complessità umana. Nel Novecento l’idea di un umano perfetto in quanto banalizzato si palesa in tutta la sua drammaticità allorché la scienza e la tecnologia mettono a disposizione delle élite dominanti i mezzi tecnici di straordinaria efficacia.
All’alba del Novecento l’artista Fernand Léger mostrò che nel mondo forgiato dalla carneficina della Prima Guerra Mondiale, dal fuoco degli altiforni, dal martellante ritmo delle macchine operatrici, dalle lamiere deformate da enormi presse, dalle cadenze delle catene di montaggio si stava plasmando una nuova forma d’umano, adeguata all’ordine produttivo e tecnologico emergente. L’umano perfetto della nuova era sarebbe stato un prodotto semplificato, un’entità materiale in grado di generare un numero limitato di comportamenti e ragionamenti compatibili con le gigantesche macchine della produzione e della riproduzione sociale, che le innovazioni tecniche, organizzative, sociali e politiche stavano mettendo a punto.
Nel dipinto Soldati che giocano a carte (1917) materia meccanica e materia biologica diventano indistinguibili. L’umano appare come un assemblaggio di cilindri e giunture metalliche, liberato dall’indeterminatezza della biologia. È un guscio di puri comportamenti, svuotato del proprio mondo interiore, privo di tare genetiche, liberato dai guasti del subconscio e dai sentimentalismi. È un burattino che contribuisce lietamente, docilmente e spontaneamente al benessere della comunità e della patria, e potrà finalmente vivere beota e felice come lo scemo del villaggio.
Nell’arco di pochi anni la storia si incaricherà di passare dalle idee ai fatti. E la costruzione del nuovo umano si trasforma in un incubo collettivo. Nella prima metà del ‘900 le dittature cercano di costruire il SuperSapiens con due azioni: la prima linea consiste nell’eliminare i pezzi difettosi e pericolosi di umanità, organizzando campagne sistematiche di sterminio; la seconda linea è rieducare forzatamente e capillarmente il popolo a partire dai più giovani, per spegnere in partenza ogni pensiero divergente, e quindi minaccioso per il nuovo ordine.
Il fallimento della creazione di un nuovo ordine collettivo per mezzo di un umano ricostruito con la selezione dei pezzi migliori o rieducato con un massivo bombardamento ideologico non spazza via la tentazione di superare i limiti dell’umano, ma prende una nuova direzione: si esplora la possibilità che creature tecnologiche possano sostituire il proprio creatore.
Nel 1921 Karel Čapek nel dramma R.U.R. Rossum’s Universal Robots adopera la parola ‘robot’ per indicare un lavoratore artificiale prodotto da una formula chimica. La R.U.R. è la fabbrica produttrice degli operai artificiali, i robot. Compito dei robot è diventare solerti operai per sollevare gli umani da lavori faticosi. Funzionano così bene da diffondersi rapidamente e sostituire gli umani in tutte le attività. A un certo punto prendono coscienza e si ribellano ai propri creatori, diventati ormai inutili tiranni, ed eliminano tutti gli umani, diventando così padroni del mondo.
Ecco un colloquio particolarmente significativo tra Harry Domin, Direttore della R.U.R., Glory, Presidente della R.U.R., Helena Glory, figlia del Presidente Glory:
Domin: Cosí il giovane Rossum si disse: un essere umano è qualcosa che sente la gioia, suona il violino, adora fare passeggiate e, alla fin fine, ha bisogno di tante cose che sono superflue. Helena: Oh!
Domin: Aspetti un momento: sono superflue quando ha bisogno di intessere o calcolare: un distributore di benzina non ha bisogno di ornamenti od abbellimenti, signorina Glory. E creare lavoratori artificiali è esattamente come creare distributori di benzina. La produzione dovrebbe essere il più semplice possibile ed il prodotto il migliore per la sua funzione. Che ne pensa? In pratica, quale crede che sia il miglior tipo di lavoratore?
Helena: Il migliore? Forse quello che lavora sodo…e…ed è onesto.Domin: No, è quello più economico: quello che ha il minor numero di bisogni. Il giovane Rossum inventò un lavoratore con il minor numero di necessità, ma per farlo ha dovuto semplificarlo. Ha eliminato tutto quello non strettamente legato al lavoro, e facendo questo ha virtualmente eliminato l’uomo e creato il robot. Mia cara signorina Glory, i robot non sono persone: a livello meccanico sono più perfetti di quanto possiamo esserlo noi, ed hanno capacità incredibilmente sviluppate: ma non hanno anima. Oh, signorina Glory, il prodotto di un ingegnere è tecnicamente più rifinito della creazione della natura.
Il dramma si chiude con l’estinzione degli umani e i robot che acquistano sentimenti umani. Alquist, l’ultimo uomo, unirà in matrimonio due robot che si amano e in tono profetico annuncerà: “Oh, natura, natura: la vita non morirà mai! Amici, Helena, la vita non morirà! Comincerà di nuovo con l’amore, (…).”
Negli anni Quaranta Asimov cambia le regole dell’immaginario. Con Čapek il pericolo viene dalla ribellione dei robot; con Asimov viene dalla loro logica. Il robot non è un essere dotato di sentimenti, ma una macchina che esegue calcoli sulla base di regole. In sostanza, il robot, benché ancora antropomorfo, si sta trasformando in un computer. L’attenzione si sposta sulla coerenza ed efficacia delle regole nel determinare il comportamento dell’essere artificiale. Gli scrittori di fantascienza, ed i lettori, scoprono con un certo sgomento che ogni sistema di regole è sempre vago e insufficiente perché possa determinare con certezza il comportamento. I robot diventano macchine imprevedibili.
Nel 1974 Asimov scrive un racconto dal titolo Perché tu ne prenda cura, in cui esplora il tema di un robot che apprende. L’esito è sconvolgente: prima il robot non riesce più a distinguere i propri comportamenti da quelli di un altro essere umano, poi comprende che i propri comportamenti sono più efficaci, infine elabora un piano per prendere il comando.
Con la nascita del web l’immaginario si sposta dalla fisicità del robot alla smaterializzazione della rete, e la fantascienza esplora i comportamenti di un agente sovraumano che abita nel ciberspazio. Il robot-rete ha un cervello distribuito in milioni di computer connessi tra loro. Si nutre ogni secondo di miliardi di dati e consiglia, decide, agisce con una precisione, tempestività, efficienza irraggiungibile per qualunque umano.
Con i Large Language Model non cambia la forza della macchina, ma il suo stile: non comanda, propone. Fa la comparsa un nuovo modo di prendere il comando: non più con la violenza come i robot di Čapek, ma con la disponibilità, la persuasione e la seduzione. Il robot-linguaggio ci dice: non ti preoccupare, ci penso io; confidami i tuoi desideri e ti suggerirò come soddisfarli al meglio; guiderò l’auto al tuo posto; comprerò ciò che ti serve prima ancora che tu lo chieda; fai come ti dico, io sono al tuo servizio. Io sono meglio del robot di Čapek di un secolo fa.
Quale sarà l’esito di questa intensa attività di seduzione?
Quando l’amico artificiale avrà imparato abbastanza di noi, non saremo in grado di avvertire le differenze tra noi e lui e, forse, come James Lovelock, in Novacene (2020), saremo costretti ad affermare: “Non dobbiamo rattristarci per questo. Abbiamo fatto la nostra parte.”















