Una buona occasione per regalarsi il capolavoro Decameron e leggerne le frizzanti novelle è il tempo natalizio, solitamente adatto alla lettura. L’occasione è il 650esimo anniversario della morte di Giovanni Boccaccio, il certaldese (o forse fiorentino) più famoso.
Nato a giugno o luglio 1313, Boccaccio è certamente morto il 21 dicembre 1375. Se la sua vita è iniziata in modo poco felice e poco ortodosso, per i tempi, figlio illegittimo di un ricco mercante, è diventato il maggior prosatore del suo tempo, influente a livello europeo anche nei tempi seguenti. Viene ricordato con Dante Alighieri e Francesco Petrarca, con il quale condivise l’umanesimo.
Il padre Boccaccio di Chellino lo riconobbe e lo accettò in casa nel 1320. Giovanni poté così frequentare la scuoletta di Giovanni Mazzuoli da Strada, iniziando ad imparare il latino e a studiare la Commedia di Dante; la matrigna, nobildonna imparentata con la famiglia Portinari, influenzò la dedizione alle arti. Il padre, tuttavia, lo voleva mercante e così lo portò con sé a Napoli dove lavorava per la potente famiglia dei Bardi.
Nella città corte angioina, Giovanni scoprì l’amore per la letteratura e il padre si trovò suo malgrado a iscriverlo alla facoltà di Giurisprudenza di Napoli. Tuttavia, anche se allievo del giurista Cino da Pistoia, Boccaccio si appassionò alle lezioni di poesie dello stesso Cino, che era stato amico di Dante. In quel periodo Boccaccio scrisse Teseida, Filocolo, Filostrato e Caccia di Diana.
Arrivò poi a diventare un mito letterario grazie a Fiammetta, forse Maria d’Aquino, figlia illegittima di Roberto D’Angiò, che originò l’opera omonima in stile stilnovista. A quel punto della sua carriera letteraria, Giovanni dovette tornare a Firenze per il fallimento delle banche nelle quali il padre aveva investito, nel 1340. Firenze era troppo stretta per Giovanni, ormai, ma continuò a scrivere.
Tra il 1345 e il 1346 fu a Ravenna, alla corte da Polenta, dove tradusse in volgare un’opera di Tito Livio. Nel 1347 si trasferì a Forlì, alla corte di Francesco II Ordelaffi, ma anche lì, come a Ravenna, non ottenne incarichi retribuiti come sperava. Così tornò a Firenze nel 1349, anno della peste nera che contagiò quasi tutti gli abitanti della città, compreso suo padre e la sua matrigna che ne morirono. In quella funesta occasione per Firenze, Boccaccio concepì il suo capolavoro, la raccolta di novelle Decameron, concluso verso il 1351.
Boccaccio incontrò Francesco Petrarca nel 1350, in occasione del Giubileo. Petrarca, infatti, aveva lasciato Valchiusa dove si era nascosto per sfuggire alla peste, per andare a Roma, e decise di fermarsi a Firenze per tre giorni, per leggere le sue opere. Nacque così un profondo rapporto tra i due poeti che portò all’elaborazione dell’umanesimo anche in Boccaccio.
Questi si dedicò alla ricerca e alla cura delle opere classiche (di Apuleio, Ovidio, Marziale) racchiuse in biblioteche come quella di Montecassino. Intanto iniziò alcune ambascerie diplomatiche della signoria fiorentina, come quella a Ravenna per portare a suor Beatrice, la figlia di Dante, dieci fiorini d’oro a nome dei Capitani della compagnia Orsanmichele.
Nel 1351 un altro incarico fu quello di convincere Petrarca, intanto trasferitosi a Padova, ad accettare il ruolo di docente a Firenze, ma Petrarca non accettò la proposta e Boccaccio fu inviato ad Avignone da papa Innocenzo VI, quindi a Milano, nel 1359, da Bernabò Visconti; poi nel 1360 fu accusato di far parte del tentativo di sovvertire la Signoria fiorentina in occasione delle elezioni dei Priori e, malgrado ne fosse estraneo, non venne più impegnato nelle ambascerie.
Ospitò quindi il monaco calabrese Leonzio Pilato che, malgrado il pessimo carattere, tradusse i primi cinque libri dell’Iliade e l’Odissea, redigendo due codici delle opere che Boccaccio inviò a Petrarca. Dal 1363 il poeta iniziò a risiedere sempre più spesso a Certaldo, forse suo paese natale, e dove morì. Andò ancora a trovare Petrarca e in alcune ambascerie per Firenze, fino all’importante missione diplomatica presso il Papa ad Avignone dove difese i fiorentini contro le ingerenze dell’imperatore Carlo IV di Lussemburgo. Nel 1367 fu a Roma, dove il Papa finalmente era tornato.
Negli ultimi anni, Boccaccio scrisse un’edizione della Divina Commedia e un trattato in onore di Dante, cercando di portare a termine i suoi lavori. Morto l’amico Petrarca nel 1374, fatto che lo prostrò ulteriormente, Boccaccio morì a Certaldo il 21 dicembre dell’anno seguente. Venne sepolto nella chiesa dei santi Iacopo e Filippo sotto una lastra tombale che ricorda: “La mente si pone davanti a Dio, ornata dai meriti delle fatiche della vita mortale. Boccaccio gli fu genitore, Certaldo la patria, amore l’alma poesia”.
Se Elegia di Madonna Fiammetta è un romanzo in nove capitoli che racconta di una dama napoletana, il Decameron è una raccolta di cento novelle ideate da sette ragazze e tre ragazzi che durante la peste del 1348, nella finzione narrativa, decisero di lasciare Firenze e di trasferirsi in una villa sulle colline d’intorno per cercare di evitare il morbo.
Il gruppo doveva trovare un passatempo per i giorni oziosi, e così Fiammetta, Filomena, Emilia, Elissa, Lauretta, Neifile, Pampinea, Dioneo, Filostrato e Panfilo (nomi mediati dalle sue opere precedenti) ogni giorno eleggevano un re o una regina che stabiliva il tema delle novelle che dovevano inventare per quel giorno, una a testa. Le tematiche erano varie, fresche e brillanti, tanto che il libro ebbe notevole divulgazione tra gli uomini imbarcati in mare. Il risultato è un vero capolavoro di ingegno e sottigliezza narrativa.
Boccaccio diventa così un ponte tra Medioevo ed età moderna, nuovo ancora oggi.















