Tanto si è parlato in termini trionfalistici di quel viaggio a Bali in “500”, che mi è sorto spontaneo il desiderio di riviverlo mettendo al centro la leggerezza dei vent’anni: Come hanno vissuto l’aspetto sentimentale e sessuale quei tre “baldi giovanotti” del Bar Italia di Modena (Paolo, Adriano e Giò) in giro per l’Oriente? Vorrei aggiungere a quel viaggio di sei mesi un altro tassello, quello trascorso tra amori e sesso, unicamente per divertirmi un po’ mentre scrivo. Tuttavia, da questi episodi datati 1969, emerge anche il periodo storico, “l’alba di un’epoca”, quando ancora non c’erano i turisti, ed il fattore culturale del sesso stesso era diverso ad “ogni latitudine”.

Già la prima serata del viaggio iniziato l’11 giugno, in Istria, siamo finiti in una balera all’aperto. Più avanti, sui lastroni di Lokrum, l’isola di fronte a Dubrovnik, facciamo i “cretinetti” con un gruppo di bagnanti russe e a Sofia, in Bulgaria, passiamo una giornata tra strade fangose alla ricerca di un vecchio amore di Adriano.

Ad Istanbul sostiamo parecchio tempo nel quartiere turistico di Sultanhamed, e viene il giorno in cui qualcuno ci indirizza al Karakoy Genel Evii Kibarcasi, ‘Quartier Generale Casa della Gentilezza’, l’unico bordello pubblico statale presente in città, in una stradina in salita, appena oltre il ponte di Galata. È famoso al pari di un luogo di culto, una visita da non perdere. In cima alla ripida viuzza, costellata da bancarelle con bevande e cibi per l’alto numero di passanti, sulla sinistra c’è il grande cancello spalancato dell’ingresso, un intero quartiere fatto di vicoli e casette basse, racchiuso tra alte mura. Stupefacente! Le ragazze stanno sulla soglia delle case, alle finestre o sedute in salette illuminate, mentre una marea silente di turchi sbircia, analizza, soppesa. Pare che da queste parti le mogli consentano al marito di recarsi con gli amici al bordello una volta al mese, purché avvisate. Le matrone sono in mutande o con ridicoli babydoll trasparenti, accanto ad una misera tabella dei prezzi. Alcune portano addirittura il tariffario appeso al collo. Ma la cosa più sbalorditiva, dal sapore medievale e probabilmente unica al mondo, è la prassi della “sveltina” (coitus rapidus), reclamizzata perché costa meno. Il punto di richiamo è un paletto alto mezzo metro circa, con accanto una donna in vestaglia. A richiesta, la donna mette un piede sul paletto e col tessuto copre l’amplesso, spesso fulmineo, che si consuma in piedi, leggermente appartati in un angolo della sala. Le più bassine, per evitare ai clienti di flettersi troppo, mettono l’altro piede sopra a un panchetto. Rapporti famelici esauriti al volo, da pausa pranzo.

Noi, invece, come veri playboy leghiamo con Anne, una coetanea davvero carina, che dopo mezz’ora di chiacchiere ci spinge a prendere una decisione. Bisogna darle soddisfazione. In sua presenza facciamo un infuocato ‘testa o croce’, per seguire un ordine democratico: io avrei dovuto “sacrificarmi” per primo, Adriano Malavasi per secondo e Paolo Fiorani per ultimo, ma discutendo tra noi prendiamo il largo e “non ricordo bene come andò a finire”. Quest’ordine riflette un po’ anche le nostre diversità, ben assortite e volte al medesimo obiettivo: “Viaggiare liberi da pregiudizi per meglio valutare ogni realtà proposta”. Io sono certamente il più estroverso, mentre Paolo è l’opposto, attento e riflessivo, amante dei tempi lunghi. In mezzo sta Adriano, il vero ideatore dell’impresa che, tra una marea di contendenti nell’entourage del Bar Grand’Italia, scelse noi quali compagni di viaggio. Viaggiare in tre su una piccola auto è forse più scomodo, ma è molto meglio che in due: si amplifica il confronto e la conversazione può contare su opinioni diverse. Così partoriamo l’idea goliardica di fissare il regolamento per una competizione sugli incontri amorosi del viaggio, chiamandola Love & Sex Travel List, che certamente è più piacevole della Sickness List, la lista delle malattie ideata in seguito. A Kabul invito per un caffè l’americana della camera accanto, ci diamo solo un bacio, ma nella Travel List vale anche quello e passo in testa!

Lungo il percorso, notiamo spesso le differenze di comportamento tra noi e gli altri, almeno le più evidenti. Senza stupirci troppo. Dopotutto, appropriarsi della normalità altrui è uno dei pregi del viaggio. In Iran e Afganistan è la prima volta che vediamo uomini passeggiare tenendosi per mano o anche abbracciati, proprio come si fa da noi con le ragazze. Gli stessi militari in uniforme, col fucile a tracolla, usano accarezzarsi le dita a vicenda, in segno d’amicizia. Le donne, invece, per strada non vengono toccate neppure dai propri mariti. Differenze comportamentali apparentemente ambigue, che possono indurre al malinteso: quello che per taluni è ovvio, per altri può essere una rivelazione. Normalissimo è pure quel corpulento poliziotto seduto davanti ad una banca di Lahore (Pakistan), che col suo kalashnikov appoggiato al muro, ammazza serenamente il tempo intrecciando la maglia coi ferri.

A New Delhi alloggiamo in una misera Guest house, coi tipici letti in corda sparsi nel cortile, sotto le stelle. Una notte mi sveglio per i gemiti ansimanti provenienti dal lettino di fronte, dove una coppia di sposi hindu sta facendo l’amore praticamente vestiti. Lei è avvolta da veli, ma mi colpisce la disinvoltura di entrambi, unici indiani in uno spazio in comune, condiviso con decine di viaggiatori occidentali. A Kathmandu, invece, viviamo la crisi di un gruppo di toscani ansiosi di tornare a casa dalle “loro donne”. Si trovano in un posto meraviglioso, tuttavia soffrono a causa di faccende di cuore lasciate in sospeso. Casualmente due anni dopo incontro lo stesso gruppo in Marocco, finalmente felici di viaggiare con le “loro donne”.

Dopo la platonica storia d’amore con due francesine conosciute al Salvation Army di Calcutta, che coinvolge me e Paolo, una sera usciamo per cambiare valuta al mercato nero. Un ragazzino sui dodici anni ci invita a seguirlo, cammina svelto e ogni tanto ci rassicura con un “yes, yes, change money, change money”. Metro dopo metro ci porta lontanissimo, tra strade umide e gremite di folla. Bussa ad una porta ... sembra una “casa di piacere”. Pensiamo che prostitute e mercato nero possano convivere nello stesso stabile, invece, il senso dell’offerta è un altro: accettano dollari in cambio di prestazioni sessuali. Le ragazze, perlopiù nepalesi e molto affabili, “ci implorano di restare” e noi accettiamo il cambio. I gestori ci fanno accomodare in una saletta, poi ci trasferiscono da una stanza all’altra e in un baleno ci troviamo all’esterno, nel retro della casa, fuori, al buio, senza avere consumato. Nessuno capisce come abbiano fatto. Un’abilità ammirevole. L’anno dopo mi trovai a passare per Calcutta, alloggiai ancora al mitico Salvation Army, quando un ragazzino m’invitò a seguirlo pronunciando “change money”. Qualcosa mi diceva che mi avrebbe portato in un bordello e di colpo fui vinto dalla curiosità. Questa volta non camminai tanto, ma la procedura fu la stessa e nonostante cercassi di stare attento ai vari passaggi, mi trovai ugualmente nel retro della casa come un pollo: “Saggio è colui che non provoca il destino”.

Tornando alla Calcutta di quel primo viaggio, la sera dopo ci troviamo a vivere un’esperienza di tutt’altro genere, cambiamenti che caratterizzeranno tutto il nostro viaggio: il console italiano, Marcello Giorgi, con la sua stupenda ragazza anglo-indiana, ci porta a cena in un club esclusivo frequentato da donne molto attraenti, troppo raffinate per noi.

Arriviamo in Tailandia il 3 di agosto. Nella Bangkok del ’69 ci sono molti americani in licenza premio dal Vietnam, qualche viaggiatore come noi, ma di turisti nemmeno l’ombra. Alcuni Thai ci dicono che prima di noi non hanno mai visto un italiano. Alloggiamo in un alberghetto popolare dietro la stazione centrale dei treni. È un hotel-postribolo, come ce ne sono tanti in questa zona. Qui troviamo pure Christian Luizza, uno spassoso parigino che sta cercando di raggiungere la sua ragazza vietnamita a Saigon. Pavimenti, pareti e soffitti sono tutti in legno e pieni di buchi; ogni angolazione offre amplessi in diretta. Il più ambito è un grosso foro al pavimento che dà proprio sul letto posto al piano di sotto, ma con Luizza ci bisticciamo anche il panorama della camera accanto. Una divertente quanto inevitabile giostra di “guardoni” in erba. Le ragazze ci bussano la porta a tutte le ore, le prendiamo a cavalluccio sul collo, ci giochiamo, ma alla fine preferiamo fare l’esperienza classica del ‘Bagno Turco’ tailandese. Nel perlustrare ogni locale notturno di Sukhumvit Road, in un carosello frenetico “dentro qui, fuori là”, finiamo nel turkish bath del Rich Hotel. Saletta elegante con musica di sottofondo, luci soffuse, aria condizionata, bar ed una grande vetrata, oltre la quale una trentina di fanciulle in camice bianco, pacificamente sedute su lunghi divani in pelle, guardano la televisione nella speranza di essere scelte. Ognuna ha un numero appuntato al petto. Le luci al neon sparate all’interno del mega box, illuminano con inclemenza ogni dettaglio estetico di quelle socievoli giovinette e al contempo danno un’idea di pulito, di igienico. Una scritta sul muro sottolinea il lato ricreativo del luogo: “Excellent place for your relaxation”. Tutto rispecchia i racconti di alcuni viaggiatori inglesi incontrati in Nepal. Dopo una fitta consultazione, ognuno di noi indica al boss il numero di proprio “gradimento”, che viene annunciato col microfono tramite altoparlante. Siamo gli unici a fare un sobbalzo per l’imbarazzo, ma così va il mondo e bisognava seguire le istruzioni per l’uso. Le ragazze ci vengono incontro sorridenti, contente di essere state scelte: le meno richieste vengono rimandate dai genitori, al pari di un licenziamento per scarsi attributi fisici. Qualcuno ci assegna i bagni ed io finisco con Milou, diciottenne del nord, in una saletta piena di specchi fissati attorno ad una normale vasca da bagno. La porta ha un finestrino nella parte alta, dove ogni tanto si affaccia un controllore per sincerarsi che tutto proceda normalmente. Milou fa scorrere l’acqua alla temperatura giusta seguendo la procedura che ha reso famosi questi bagni nel mondo: lavare e massaggiare, discretamente coperti da un asciugamano. In quel piccolo spazio, giochiamo, balliamo, ci divertiamo e… furtivamente mi dà un appuntamento per l’indomani in città, rischiando il posto.

L’8 agosto lasciamo Bangkok. Pattaya è un minuscolo villaggio di pescatori, con qualche bungalow e alcuni rustici ristorantini lungo la baia. La ragazza al bancone del bar preferito, una capanna di bambù a bordo spiaggia, ci offre sempre da bere con grande gentilezza. Una sera m’invita per un cinema all’aperto, camminando mano nella mano mi guarda languidamente negli occhi, ma c’è qualcosa che non quadra. Tutti mi osservano in modo quantomeno curioso. Forse un farang (straniero) con una thai desta stupore? Il sospetto mi viene alla fine del film, quando alcuni ladyboy (travestiti) la salutano in maniera particolarmente complice e in un lampo capisco quello che tutti sanno. A quel punto lo saluto cortesemente.

Sulla via per Singapore, in un Luna Park nel sud della Tailandia, sotto un tendone vediamo un’altra cosa bizzarra, inconcepibile per noi occidentali: una ragazzina nuda stesa su un tavolaccio e tanti maschietti, dai 6 ai 10 anni, in fila per guardare e toccarle in silenzio le parti intime, controllati da un supervisore. L’ingresso costa 5 lire, l’equivalente di un gelato. È evidente che con il sesso i tailandesi hanno un approccio diverso dal nostro. Qui, infatti, non esistono la vergogna e l’imbarazzo verso la sessualità.

Da Singapore, il 23 agosto prendiamo la nave per Giakarta. Con noi viaggia la nazionale femminile di calcio indonesiana, la sera si balla e diventiamo tutti amici. Il giorno seguente, un gruppo di queste invoca a viva voce: “Adriano, Adriano”, che sta in plancia, quattro metri più in alto. Preso dall’emozione, Adriano ha un momento di smarrimento e lancia alle fan il passaporto ed altri documenti che tiene tra le mani. Per fortuna non cadono in acqua. S’innamora della più bella, si chiama Endang ed è figlia del farmacista di Bandung. Il 29 siamo al capolinea di Bali, tra le onde giganti ed i tramonti da favola di Kuta Beach, che è una distesa di sabbia immacolata, priva di una qualsiasi struttura alberghiera. Adriano si avvia con anticipo verso Bandung, nell’isola di Giava, noi lo raggiungeremo in seguito. In quella stupenda città siamo ospiti del College Universitario ITB, abitiamo in confortevoli villette assieme agli studenti, che fanno tutto il possibile per farci sentire a nostro agio. Ogni mattina ci portano un cavallo davanti alla veranda e le ragazze ci raggiungono in bicicletta, per salutarci con un candido dah saai, l’equivalente di “ciao, come stai?”. Sarà un mese fantastico e se il visto non scadesse staremmo qui per sempre. Siamo corteggiati e richiesti da schiere di deliziose ragazze, collezioniamo letterine e biglietti d’amore. Adriano va regolarmente dalla sua Endang, mentre Paolo ed io abbiamo altre storie, per poi trovarci tutti assieme in questa festicciola o quel party. Al pomeriggio viene regolarmente un becia (triciclo) a prelevarmi per portarmi a casa di Indra, di Jenmy o di Leny, e la sera arriva l’autista per condurmi alla villa di Lei San, figlia di facoltosi cinesi, proprietari terrieri. Ormai sono di casa con tutta la famiglia, dove non salto una cena. A volte viene anche Paolo, che si è messo con Lefè, la sorella di Lei San. Se le sposassimo, il nostro lavoro sarebbe quello di controllare a cavallo piantagioni da tè e caffè. Immaginiamo di diventare di colpo proprietari terrieri.

Altra cosa curiosa, dovunque si vada capita spesso che uomini, donne e bambini chiedano gentilmente di poterci accarezzare i peli delle braccia; lo fanno senza malizia perché loro sono glabri. Ad Adriano, vittima di una calvizie precoce, passano addirittura la mano sulla peluria della testa e ringraziano. Agli indonesiani piace la nostra disinvoltura latina, che ben si amalgama con la loro elasticità mentale. Con alcuni di loro viviamo una bella amicizia. Una sera alcuni ragazzi cinesi di città mi portano alle acque termali poste sulle pendici del vulcano che domina Bandung col fermo proposito di farmi divertire. Sul posto ci sono tante casette, che all’interno hanno una scala in marmo che scende nell’unica stanza fatta a piscina. Si aprono dei normali e potenti rubinetti da cui esce l’acqua calda del vulcano fino all’altezza sufficiente a nuotare. Mi lasciano solo, ma non passano dieci minuti che la porta si apre ed entra Tutì, si spoglia con garbo e si mette a nuotare, mentre all’esterno i ragazzi si arrampicano fino alle finestre per curiosare e sghignazzare. Agli studenti del Campus, tutti di religione musulmana, non piace che frequentiamo i cinesi del centro, di religione cristiana, secondo loro troppo spregiudicati. Preferiscono che noi frequentiamo le ragazze musulmane del college e, del resto, la loro tenera poesia ci ha subito conquistati a prescindere.

Con la morte nel cuore, il 2 ottobre ci imbarchiamo sulla nave per Singapore, ma ci consoliamo presto con alcune passeggere di Taiwan. È la prima volta che noi tre stiamo assieme ad un gruppo di tre ragazze: Judy, Jenny e Kany, tutte ventenni. Siamo sempre abbracciati e per noi loro cantano melodiose canzoni cinesi, peccato, però, che all’arrivo ci dividano: tutti i bianchi vengono messi in quarantena in un’isola per essere vaccinati contro il vaiolo e le ragazze svaniscono nel nulla.

Una storia a Saigon con la bella Ngà, molto graziosa con il suo abitino bianco tipicamente vietnamita, ed un’altra con Vania nella capitale cambogiana di Phnom Penh, arricchirono le nostre conoscenze del tessuto sociale indocinese. A Phnom Penh il gestore dell’albergo organizza sfilate a raffica di ragazze nella nostra camera per indurci in tentazione.

Durante la visita ai monumenti di questa città, leghiamo con due eleganti cortigiane, che vivono all’interno del Royal Palais. Si chiamano Sinna e Amy. La madre di quest’ultima è istruttrice di danza del balletto reale. Loro erano in due e noi in tre. Facciamo ‘pari o dispari’ e perdo io, ma Paolo mi lascia il posto poiché non è “in giornata”. Alla sera ci portano in un lussuoso dancing sul Mekong, ci vedono preoccupati per i prezzi e offrono tutto loro. Dopo lo show di danze tradizionali, noi ci scateniamo a centro pista fino a notte fonda. Il giorno seguente Amy chiede a Sinna di lasciarle la casa libera, così Adriano vive cinque ore di intenso cameratismo, tra musica, uova bollite e frutta. Vivere l’intimità di una donna orientale nel suo ambiente, se c’è complicità e intesa è una esperienza impagabile. Intanto, ogni sera quel vigliacco del gestore ci manda una ragazza in camera per stuzzicarci, noi la accogliamo, scherziamo con lei per mezz'ora e poi la rimandiamo al mittente senza pagare. Finita la permanenza, saggiamente Paolo si oppone alla mia ostinata idea di proseguire lungo il Mekong fino a Vientiane nel Laos; in effetti, tutti quelli che ci hanno preceduto sono svaniti nel nulla. Anche il console italiano, Cav. Forsinetti, ci avverte dei rischi che potremmo incontrare e al contempo ci racconta pezzi della sua vita avventurosa. Suo figlio, conosciuto in seguito ed eccessivamente altezzoso, ha appena sposato la bellissima principessa Norodom Buppha Devi, figlia di Re Sihaunuk. È prima ballerina di Cambogia, illustrata nelle cartoline postali e noi ce la spediamo subito a casa.

Giunti a Bangkok via terra dalla Cambogia, attraverso un pericoloso valico di frontiera, alcuni giorni dopo prendiamo l’autobus per l’aeroporto, su cui sale “l’ultima della lista". È la dolce insegnante Phayao, che mi accompagna tenendomi teneramente la mano e mi bacia sulla terrazza del Terminal. L’ho conosciuta alle 9, ci lasciamo alle 12 e mi scriverà lettere d’amore per anni a venire. La classifica finale della Travel List rileva ancora una volta le nostre diverse inclinazioni: decine di avventure amorose a confermare che Paolo è rimasto il più contemplativo, Adriano aveva fatto una pausa con Endang, ed io resto il più esuberante.

L’11 dicembre entriamo a Modena, superiamo il cavalcavia di Ciro Menotti col buio, in centro incontriamo Eddy Bolzani che ci porta al Guf, il vecchio Bar dell’Università. Poi passiamo a ringraziare gli amici del Bar Italia per il sostegno morale durante tutta l’impresa, con un senso di partecipazione d’altri tempi, difficile da spiegare con l’indifferenza di oggi. Durante la nostra assenza, al Bar Italia si era avviato un processo generazionale irreversibile, legato ad una interpretazione eccessiva della libertà. Gli intellettuali della vecchia guardia stavano ormai in disparte. I loro punti di riferimento, fondati sulle idee che avevano galvanizzato il mondo, erano ormai superati dalle nuove leve che preferivano agire più che teorizzare.

Tra le storie di quel primo viaggio in Oriente, la dimensione di cui abbiamo avuto più nostalgia è quella vissuta a Bandung, dove avevamo promesso di farvi ritorno al più presto… Purtroppo non ci siamo più tornati, ma il ricordo di quel luogo magico vive sempre in noi.