L’infermiere Alvaro si preoccupa di trovarmi un angolo pulito dove appoggiare le mie cose e sistemare il mosquiteros per la notte, aggiungendo: “Se vuoi allontanarti per qualche giorno puoi lasciare i bagagli senza problemi”.
Al mattino tre canoe di indio della selva sono qui, di fronte a quella che chiamano “la casa del lago”. Hanno occhi vispi, corpi asciutti e i capelli lisci tagliati a scodella, coi genitali coperti da un fagottino di tela ritagliato su misura, sorretto da alcuni cordoncini, uno dei quali passa tra i glutei legato ad uno spago che gira attorno ai fianchi. Sono armati con un fucile scopetta, una doppietta da cacciatore ed una cerbottana a testa lunga oltre un metro e mezzo, dotata di frecce piccolissime. Nella canoa hanno diverse pelli di tigrillo, conciate malissimo, ma ugualmente preziose. Chiedono 400 Soles l’una e a Iquitos si possono vendere ai negozi per 3000 Soles. Accettano anche scambi con cartucce da fucile. Il povero tigrillo è un piccolo felino selvatico dell’Amazzonia molto richiesto da turisti e pellicciai, per la sua pelliccia maculata e marmorizzata color oro, con macchie e striature nere. Ecco spiegato l’interesse e gli affari dei commercianti che così numerosi si avventurano a risalire i fiumi nell’entroterra.
Alvaro mi bisbiglia: “Questi indio vengono da lontano, da zone dove spesso i commercianti non arrischiano ad avventurarsi, nei pressi delle sorgenti, così si fanno vivi loro”. Oltre al tigrillo, hanno pelli di serpente e di altri animali, ma ai tre funzionari del Ministerio de Pesqueria del lago Rimachi non interessa questo genere di merci, preferiscono contrattare sui cibi che gli indio tengono in canoa. Su di una foglia, usata come piatto, mi offrono un pugno di un pastone fatto con tuberi e radici, molto calorico, ma personalmente non mi riesce di apprezzarlo, anche se ogni tanto mi trovo costretto a buttare giù un boccone.
Siamo in agosto, la stagione secca, e la temperatura non è tremenda, oscilla dai 22 ai 32 gradi con un’umidità all’80%. Dopo le chiacchiere, gli indio si sono appostati pazienti in attesa che arrivi gente con cui barattare, consapevoli che tutti devono fermarsi per registrare il passaggio ai funzionari della Casa del Lago. È ancora Alvaro che, non contento dei dubbi espressi, si attiva nel rimediare una barchetta a remi per condurmi nella zona della città sommersa. L’acqua è bassa e alcune parti di una costruzione sommersa sono quasi affioranti. Ma allora è vero!? Alvaro precisa: “Metà realtà e metà leggenda, tuttavia, questo luogo è considerato sacro dalle popolazioni indigene della zona”. Il lago non è, come si può pensare, un allargamento del fiume, bensì una grande laguna sulla sponda ovest. Per via dei piraña lascio che Alvaro, “piuttosto corsaro” e più esperto di me, si butti per primo. Ciò nonostante, l’esempio di Alvaro non riesce a sciogliere del tutto i miei dubbi e preferisco calarmi in acqua lentamente, non senza la paranoia di farmi un graffietto e venire attaccato da questi voraci e malefici pesciolini. Giusto un bagnetto per poter dire di avere osato e poi di nuovo sulla barca.
Vedere i delfini che saltano e giocano in un luogo tanto lontano dall’oceano è sorprendente, anche se in breve diventano una presenza scontata e del tutto normale. Al ritorno, sostiamo in un isolotto perché ho visto delle grosse tartarughe e desidero guardarle da vicino: questo lago è una perla nella giungla e Alvaro un amico. Mi dice che “nelle vicinanze”, ad un giorno di lancia, si trovano alcuni villaggi di capanne dove lui si reca una volta al mese per il consueto giro di controllo sanitario e, nonostante manchino ancora dieci giorni alla data prestabilita, se mi fa piacere anticipa il giro a domani così potremo andarci assieme. Confessa pure che ad andarci solo in genere si annoia. Sono grato ad Alvaro per questa straordinaria opportunità che mi offre e accetto con grande gioia.
Al mattino presto mi sveglio tonico, ho fatto una lunga dormita e sono ben riposato. Carichiamo sulla lancia le scorte di carburante, medicinali, viveri, prendo il macete che non ho ancora usato e lentamente ci allontaniamo da Casa Rimachi infilando dei piccoli affluenti laterali. È da appena un mese che sono in giro tra giungla e foresta e mi sembra di esserci da anni. Grazie all’intima pace e alla serenità che mi trasmette questo superbo itinerario nel ventre di Madre Natura, sento salire dentro una musichetta che mi trasmette benessere, ed è questa per me la buona musica. Ciò che è dentro si allinea fondendosi con ciò che è fuori di me e non c’è più il corpo a fare da barriera. Per un attimo assaporo un brivido d’avventura senza limiti e inizio a cantare, prima sottovoce, poi sempre più forte fino a degenerare e, assieme ad Alvaro, cantiamo in spagnolo “Volareee oh, oh … en el azul pintado de azul” a squarciagola sul fiume solitario e spazioso, ognuno alla propria maniera. Un paio di uccelli colorati con lunghe code ci seguono per chilometri, ci superano e ci aspettano, comunicano. Se aggiungiamo l’effetto dell’eco di ritorno delle nostre voci che rimbalzano dal fitto della foresta non sembra proprio di essere soli.
Giungiamo al primo agglomerato di capanne che è tardo pomeriggio. Alvaro è conosciuto come “il dottore”, incaricato dal governo e poco apprezzato dal capo villaggio che preferisce dipendere dal guaritore spirituale della regione o chamàn, sinonimo di sciamano. All’arrivo, la prima cosa che il capo dice e ridice ad Alvaro: “Gli abitanti del mio villaggio stanno tutti bene, sono tutti sani”. Rimane il dubbio, sarà vero? Ormai è tardi e siamo stanchi, montiamo le amache pronti a passare la notte all’aperto. Il compito di Alvaro è di curare i malati, ma ha molte resistenze, per gli indigeni è un curatore che viene dall’esterno e tante cose gliele nascondono per ordine del loro capo che vede diminuito il proprio valore a causa di questo estraneo. Tuttavia, Alvaro precisa che in certi casi lo lasciano fare, ma sono quasi sempre casi disperati: “La preoccupazione del governo sono le epidemie, ed io vengo appunto per controllare che le malattie siano nella norma, anche se le zone controllate da noi infermieri sono molto limitate per le difficoltà ambientali e culturali che ostacolano il nostro lavoro. Nella cultura amazzonica, lo stregone del villaggio ha un ruolo fondamentale e spesso preferiscono lasciare morire il malato piuttosto che consegnarlo a noi”.
Al mattino, di buon’ora, saliamo in lancia per continuare il giro sanitario dei cinque villaggi, tutti relativamente vicini. Stranamente, dice Alvaro, in questi venti giorni non si è ammalato nessuno, e si sofferma su alcune realtà locali difficili da comprendere se non si è del posto: “Questa gente, nonostante gli armamenti, è tranquilla. Alcune tribù particolarmente litigiose non danno più segni di ribellione da decenni, al massimo sono capaci di risse da strada, ma non hanno nei loro attuali costumi quello della guerra. Al contrario, esistono ancora popolazioni indigene che, pur non vivendo più la guerra continua dei secoli passati, conservano nel loro sistema culturale un culto molto forte legato al coraggio, alla difesa della comunità e ai rituali di forza.
Un po' distanti nella selva, le tribù degli Aguaruna e dei Mayoruna mantengono vivo il culto del guerriero e del cannibalismo e con regolarità si esaltano in manifestazioni febbrili che sfociano in battaglie domestiche tra villaggi vicini. La loro aggressività è sentita anche in questi villaggi che abbiamo visitato”. Continua: “Se osservi quest’ultimo villaggio che stiamo visitando, il più distante e isolato, è diverso da quelli visti in precedenza. Le capanne sono poste una accanto all’altra da formare un cerchio con uno spiazzo centrale in comune, dove pongono i loro beni vitali, ovvero gli animali. Un punto sociale di incontro e di forza per salvaguardarsi da eventuali attacchi esterni”.
Terminato il giro perlustrativo di prassi senza problemi particolari da risolvere, al mattino ci avviamo per fare ritorno al lago Rimachi. Durante il viaggio, Alvaro mi confida di aspirare ad un’occupazione diversa e spera in un trasferimento in qualche città. Il lago è bello ma ormai gli sta stretto, ha trent’anni e vorrebbe una macchina, la televisione. Probabilmente anche una donna. All’arrivo, troviamo attraccati al molo della Casa dei commercianti che stanno tornando ad Iquitos pieni di merci, se volessi tornare con loro sarebbe facile, fanno una tirata unica di undici giorni. Potrebbe essere interessante conoscere alcuni dei traffici che combinano questi smaliziati sfruttatori della giungla, certamente imparerei una montagna di cose, ma il solo pensiero di rifare il percorso che ho appena fatto per arrivare fin quassù mi nausea. D’altro canto, da quel che sembra, possibilità di continuare a risalire il fiume non ne vedo tante. Ciò considerato, preferisco salutare i commercianti e restare al lago.
Al terzo giorno di attesa, un funzionario viene a chiamarmi per dirmi che c’è una piccola nave cisterna di petroleros nord americani che va nella mia direzione. Le soste in genere sono molto brevi, giusto il tempo della registrazione. Preparo le mie cose, saluto l’amico Alvaro, che lascio al suo mondo incantato, e in un baleno sono a bordo. Pensando ad Alvaro, le sue premure cominciavano a rendermi insofferente. Alvaro non può sapere cos’è la frenesia, gli attacchi di nevrosi del mondo civilizzato, al massimo ne ha sentito parlare, i suoi sono solo armoniosi dubbi esistenziali. In questa navicella “gringo”, in verità di statunitensi ce n’è solo uno, Bob, con barba bianca non più giovanissimo. Gli altri sono tutti peruviani. Vanno alla base di Andoa sul rio Pastaza che raggiungeremo tra sette giorni. Bob dice che ci stiamo inoltrando in quello che chiamano “l’inferno verde”. La parola verde mi sta bene, è inferno che fatico a focalizzare. La presenza di un bianco esperto che mi fa il quadro della situazione in modo abbastanza verosimile è per me rassicurante. Gli indigeni, a differenza, hanno un rapporto diverso con pericoli, rischi, fatiche e le loro indicazioni e valutazioni lasciano spesso nel dubbio.
La sera, a cena assieme sul ponte, ognuno cerca di spiegarmi a suo modo quello che sanno per aiutarmi a capire dove sto andando. Esaminano una loro mappa dettagliata della zona e mi indicano i punti importanti che devo riportare sulla mia: “Da Andoa al confine con l’Equador ci sono tre basi peruviane dove è normale concedere ospitalità, sono raggiungibili solo in canoa con gli indigeni. La prima base è la più grande. Da queste basi, chiedendo passaggi ai soliti indio è possibile continuare in Equador ma occorre il visto, poiché dopo il confine è zona militare e se uno ne è sprovvisto, prima di rispedirlo indietro gli fanno fare qualche giorno di galera”. Oltre questo punto non sanno più niente, bisogna vedere sul posto. Io, comunque, il visto sul passaporto ce l’ho e non credo che i militari peruviani si mettano a contestare un sigillo consolare.
Giunti ad Andoa, andiamo tutti a pranzare nel refettorio del campo. I petroleros americani sono molto attrezzati, hanno un infermiere che a differenza di Alvaro gira in elicottero e porta gli ammalati direttamente in ospedale a Iquitos. Inoltre, fa servizio giornaliero un idrovolante che porta posta e merci, non autorizzato per il trasporto passeggeri ma consentito per il trasporto ammalati. Chiedo a Bob cosa fanno in pratica questi petroleros in giro per la foresta: “Le compagnie petrolifere, nazionali e straniere, estraggono petrolio nella selva amazzonica, con operai e tecnici che lavorano nei campi petroliferi sparsi tra i fiumi e la foresta. Effettuano rilievi geologici e sismici per individuare giacimenti sotterranei di petrolio, costruiscono pozzi di estrazione, installano oleodotti per trasportare il greggio fino ai punti di raccolta o ai porti fluviali, aprono strade e costruiscono campi base con dormitori, cucine e officine in zone isolate”. Fermo Bob che con un pizzico di orgoglio vorrebbe continuare in un elenco infinito. Tanta roba.
Nella giungla, un grosso problema per tutti è la scarsità di cibo e Bob, paterno e consapevole, mi porta in mensa e fa riempire lo zaino di scatolette con sardine e manzo per aumentare le mie scorte. Al mattino Bob, che parla un po' la lingua locale ed è un capitano bianco rispettato, si accorda con alcuni indio che vanno a commerciare nella prima base peruviana e con un piccolo compenso ottengo il passaggio. “Vamos hermano”, mi dice l’indio appena finito di caricare le sue cose e allungandomi un remo. Le canoe sono due. Oltre a quella dove sono io c’è l’altra del socio in affari. I due amici vanno alla base per proporre pelli, cacciagione, uova e cibi da loro cucinati da scambiare con sigarette, riso, sale e zucchero. Mentre io metto l’acqua marrone in una bottiglia con le Pastiglie disinfettanti, loro la bevono direttamente e pare senza problemi. Questa è una delle tante cose che ci differenziano e mi fanno sentire che loro “giocano in casa”.
A sera arriviamo a questa specie di caserma nella giungla, i giovani militari si dimostrano subito poco cordiali anzi, un po' stronzetti. Forti delle loro uniformi a brandelli ci provano subito a pretendere, con futili motivi, una perquisizione per rovistare il mio bagaglio e vedere cosa arraffare. Preso atto della mia ferma opposizione provano allora, in modo sfacciato, a chiedere soldi. Di situazioni simili ne ho vissute tante e già da prima temevo, avevo messo in conto, di incontrare questo genere di militari ottusi. Di nascosto, i due indio mi fanno segno che qui sono tutti scemi. Per fortuna che Bob mi disse che in queste basi è normale concedere ospitalità. Non mi resta che dormire all’esterno.
All’alba ci svegliamo tutti dal frastuono fortissimo di esplosioni, sono quei cretinetti di militari che fanno la pesca con le mine: buttano le mine in mezzo al fiume e subito dopo passano a raccogliere i pesci morti. Verso le 8, con gli stessi indio che qui hanno fatto magri affari, continuo il viaggio verso la seconda base. Il fiume si fa più stretto e le acque più basse. Lungo la via scorgiamo alcuni tigrilli intenti a bere sulla riva destra. I due indio si affrettano a togliere la sicura e sparano quasi contemporaneamente, ma invano. Dopo circa mezz’ora ne vediamo altri e questa volta non fanno neppure in tempo ad imbracciare l’arma che si sono già dileguati. A parte i militari, in due giorni di navigazione non abbiamo visto un’anima. Col sole a picco sulle teste, ci fermiamo a terra per riposare e mangiare un boccone. Divido il pane e alcune scatolette col duetto che sembra gradire il gesto e il cibo. In cambio mi offrono una bevanda che chiamano aguaje, ricavata da un frutto di palma dal sapore di carota.
A metà pomeriggio siamo alla seconda base e al molo di attracco vediamo altre due canoe di commercianti indigeni che ci hanno anticipato. Stanno trattando con le loro mercanzie distese al suolo. Osservo con attenzione i volti dei militi che sembrano più intelligenti dei loro colleghi di ieri. Evito comunque di chiedere una branda anche per evitare l’imbarazzo dei privilegi di razza, preferisco sistemarmi all’aperto coi due amici indio, che ora sono quattro. Provo ad armeggiare con una lunga cerbottana e dopo un paio di tiri scopro che mi piace molto, ci provo gusto. Queste minuscole frecce se intinte nel veleno diventano micidiali, non lasciano scampo. Mi appresto a trascorrere un’altra notte nella selva oscura tra i ritmi frenetici dei grilli che sbacchettano su piani di legno come fossero xilofoni. Sono stanco ma non mi riesce di addormentarmi che fino a tardi.
Un altro giorno in canoa a risalire il fiume Pastaza coi soliti bravi compagni che sono ormai in giro a remare da due settimane. Comincio ad essere stanco di queste faticacce tropicali sotto il sole, tra l’altro, remare è una fatica non comune e i due compari mantengono un ritmo che spappola. Giunge il buio che stiamo ancora remando e attracchiamo a questa terza base che sono stravolto, fisicamente e mentalmente distrutto. La piccola caserma è l’ultimo avamposto peruviano prima del confine, i soldati non sono proprio il peggio, ma niente di speciale: indifferenti.
Questo è il capolinea dei miei amici, hanno barattato alcune merci col sergente e questa mattina ci salutiamo con qualche pacca d’augurio. Tornano un po' delusi per gli scarsi affari, l’unica consolazione è che scenderanno il fiume con la corrente a favore. Ora mi trovo in un punto statico, critico e difficile, dove pare non ci sia nessuno che passa di qui e che possa darmi un passaggio. Passo le giornate a riposare, quelli che arrivano poi fanno ritorno. Il sergente ama stare in disparte, a volte è amichevole ed altre pare che la mia presenza gli crei un fastidio. Questa sosta forzata, nell’attesa di qualcuno che mi porti oltre confine lungo il fiume Bobonaza fino a Montalvo, la sento particolarmente pesante. Al quarto giorno, dopo aver trascorso interminabili giornate assieme a questi militari inespressivi e un po' tonti, finalmente arrivano i miei attesi e bramati salvatori.
Sono Din e Dan, “belli come il sole e buoni come il pane”, intravedo un alone di luce attorno al capo, sembrano santi. Non so perché si facciano chiamare così però a me poco importa. Mi portano con loro, mi tolgono da questo “cesso” di posto e questo mi basta. Non mi stupisco nel vedere una madonnina di plastica ed il crocefisso inchiodati sulla loro barca. I due indio viaggiano su di una lunga canoa e mi sistemano al centro, non vogliono che remi, ma la cosa mi imbarazza perché io peso ed è giusto dividere le fatiche. Devo insistere per farmi passare un remo e vogare assieme. Sostiamo per la notte su una spiaggetta del rio Bobonaza, in territorio equadoregno. La sera del giorno dopo siamo finalmente alla base di Montalvo. Regalo buona parte dei miei viveri a Din e Dan in segno di ringraziamento.
Osservo i militari che trovo ancora più disfatti che in Perù. Mentre controllano il passaporto mostrano quel sorrisetto complice da furbini per chiedono soldi e per me, ora, è una fortuna che siano così corruttibili perché il visto che mi fecero due mesi fa quando entrai in Equador dalla Colombia è scaduto da un paio di giorni e non me ne ero accorto. Dopo la scena d’obbligo per valutare quanto potrei “sganciare”, passano a velate minacce per alzare la posta. Alla fine, propongo una cifra, loro fanno gli offesi e concordiamo per il doppio, ovvero venti dollari che possono sembrare pochi, ma per loro non lo sono e neppure per me, anche se pur di non tornare indietro avrei dato tutto quello che ho. Fanno il timbro d’ingresso nel paese sul passaporto e tutto è finito con poca spesa e tanta fortuna nel trovare dei militi che, tutto sommato, mi hanno enormemente agevolato. A parlare di soldi, credo non si siano neppure accorti che il visto era scaduto.
Mi avvio a piedi verso il paese di Montalvo, distante dalla dogana circa 500 metri. Mangio in un ristorantino in centro e alloggio in un piccolo hotel. Il fatto di trovarsi in un paese dove c’è un qualche negozio e un albergo può fare pensare di avere superato il peggio, ma non è così, anzi. È ciò che mi sta dicendo il titolare dell’hotel: “Da Montalvo, per uscire dalla foresta il viaggio è semplicemente massacrante, se si è fortunati se ne esce impiegando da uno a quattro mesi. La ragione della vitalità che vedi in questo paese isolato è legata al servizio aereo … un aereo militare e uno civile che collegano tre volte la settimana Montalvo alla stazione Shell, ex base petrolifera ed ora base militare con case, negozi, ecc. Con l’aereo militare il biglietto costa 100 Sucre, mentre quello civile ne chiede 150. Sostano sulla pista solo una decina di minuti e arrivano senza preavviso; pertanto, occorre stare sempre all’erta per non perderlo”.
Sono stanco, non ho dubbi, vado a comperare subito il ticket dell’aereo militare che è più scassato ma costa meno e poi, sono solo due ore. Indecorosamente scappo dall’inferno verde comodamente seduto in poltrona. Dall’oblò fisso l’immensa macchia verde tagliata dai fiumi piccoli in basso, che serpeggiano come vene. Certo che con l’uccello d’acciaio si fa presto, in due ore di volo si evitano là sotto mesi di disagi. Atterro al campo Shell e ancora non mi rendo conto che il viaggio ecologico è finito, la situazione è cambiata troppo celermente. Dall’aeroporto, in appena quindici minuti di autobus sono nella cittadina di Puyo, da qui prendo un altro passaggio in corriera al costo di 35 Sucre e dopo sette ore sono di nuovo tra i monti nella bellissima Quito. Ha termine così, dopo 52 giorni, il percorso Lima - Quito attraverso la giungla amazzonica.















