E daccapo
è giunta l’epoca di pensare,
o cuore!

Non è vero, come sosteneva Adorno, che dopo Auschwitz non è più possibile la poesia. Al contrario, il poeta albanese Visar Zhiti ha dimostrato che dall’orrore più buio della storia può nascere grande lirica.
Zhiti è vissuto in un paese che la dittatura stalinista di Enver Hoxha aveva forse reso il più cupo del mondo. Sotto quella tirannide, egli fu condannato perché scriveva poesie, perché i suoi versi erano “ostili al regime, tristi ed ermetici”, come recitava la censura ufficiale.

“Versi tristi ed ermetici”: il giudizio voleva essere riduttivo, e non poteva essere più lontano dal vero. Ricorda il poeta: “In cella di isolamento, per mantenere l’equilibrio mentale e spirituale e convivere con il terrore che non riuscivo a dominare, e non avendo la possibilità di leggere libri o scrivere ai famigliari, creai poesie, ma solo mentalmente. Le recitavo a bassa voce, cercando di attenuare la paura”.

Certo, la poesia di Zhiti racconta l’abiezione non figurata ma reale di un regime tirannico, il disperato istinto di sopravvivenza, il terrore, il sangue, il dolore. Nei suoi versi c’è la descrizione di qualcosa di simile all’inferno; e, nonostante tutto, essi irradiano vitalità e felicità, energia e speranza e amore per la vita. Umorismo, persino.

Ma la vera, grande lezione che si ricava da questa poesia che nasce nei gulag, è che con essa viene sconfessata l’idea della lirica come spazio individuale che trascende la realtà oggettiva. E anzi, Zhiti e gli altri poeti rinchiusi nei campi di concentramento avranno trovato alquanto stravagante l’idea di Hugo Friedrich, per cui il fine della lirica “non è il mondo, bensì unicamente la parola”, cioè una soggettività completamente irrelata.

Invece, l’irrompere nell’universo sostanzialmente irresponsabile della coscienza lirica contemporanea, di un’esperienza poetica che si nutre della carne viva della storia, mostra che la poesia non può essere solo un gioco intellettuale per élites.

Certamente, la poesia di Zhiti è grande poesia, e per il linguaggio intenso, per la varietà e profondità dei temi, per ricerca formale e la ricchezza delle figure, si colloca ai vertici della lirica contemporanea mondiale.

Ma questi versi ci dicono qualcosa di più: non c’è in essi una poetica esistenziale compresa solo di sé, non lo sfinito estetismo di un io lirico soavemente, per così dire, inconsapevole del mondo.

Zhiti, all'opposto, testimonia e rende pubblica la propria esperienza personale, rende universale il suo martirio e lo offre alla riflessione collettiva. Per questo la sua è altissima poesia civile, che come un aratro dissoda le nostre coscienze e, nutrendole di nuovo cibo, rimuove ogni diaframma ideologico che ostacola la comprensione di quello che è accaduto in un recente passato in una parte non remota d’Europa.

In carcere, Visar Zhiti temeva di non esistere senza poesia: per noi, senza il suo racconto, senza la potente trasfigurazione lirica della sua vicenda dolorosa ed eroica, quella tragedia forse neanche esisterebbe nelle dimensioni in cui egli ce la mostra. E così, il destino privato di un uomo che ha incrociato il dolore della storia, si fa cruda testimonianza, grande letteratura, altissima poesia.

Scheletro

Fate conoscenza con il mio scheletro:
sono io – senza i miei sogni.
Dopo offritemi ciò che volete,
sempre scheletro
resterò.

Un maglione

Se tu sapessi, amore,
quanto ti ama il mio cuore.
I tuoi lunghi capelli taglieresti,
e un maglione per me faresti

– Che te ne pare di questo stornello,
scritto da un detenuto? –
chiesi a un compagno di cella.

– Poveretto, avrà avuto freddo! – mi disse
e tacque.
Il tempo, maglione strappato,
lascia penetrare il vento nelle ossa della patria.

Continuamente si tradisce l’uomo

Continuamente si tradisce l’uomo,
e non dico del suo giorno
che improvvisamente diventa notte,
né della notte dei suoi capelli
che inalba e diventa tacito giorno di vecchiaia.

Si tradisce l’uomo
E non dico che anche la sua tomba muore e il nome
diventa erba marcita di oblio,
ma l’uomo è continuamente tradito dall’uomo.

E quando una metà mangia l’altra metà
non resta più l’intero,
mi disse c hi era invecchiato nelle prigioni.

Da: Visar Zhiti. Confessione senza altari, a cura di E. Miracco. Diana Edizioni, 2012.

Nota biografica: Visar Zhiti (Durazzo, 1952) è uno dei maggiori poeti del nostro tempo. In seguito alla pubblicazione della sua prima raccolta di poesie (La rapsodia della vita delle rose, 1978), fu condannato a dieci anni di lavori forzati dal regime del dittatore comunista albanese Enver Hoxha. Caduta la dittatura è tra i primi a contribuire alla nascita della democrazia albanese. La sua fama è testimoniata dalla presenza di sue poesie in antologie di molti paesi europei (Francia, Polonia, Romania, Germania) e dalle traduzioni delle sue opere in italiano, macedone, rumeno, greco, tedesco, francese, inglese.