Con la tecnologia, le semplificazioni a livello dell’uso danno invariabilmente come risultato una maggiore complessità del meccanismo sottostante. Considerate la trasmissione automatica dell’automobile (…). Una minore complessità per il guidatore è accompagnata da una maggiore complessità nel meccanismo sottostante. La semplicità deve sempre essere misurata da un punto di vista. Quello che è semplice in superficie può essere incredibilmente complesso all’interno; quello che è semplice all’interno può dare come risultato una superficie incredibilmente complessa. Da quale punto di vista, allora, misuriamo la semplicità?

(Donald A. Norman, Vivere con la complessità)

La complessità come condizione irriducibile

Accogliere la complessità significa imparare a convivere con l’incertezza senza esserne paralizzati. Significa allenarsi a osservare i fenomeni non solo per ciò che sono, ma per ciò che potrebbero diventare. Significa, soprattutto, riconoscere che l’intelligenza non sta nel semplificare, ma nel comprendere ciò che emerge dalle interazioni, là dove l’ordine si intreccia con il disordine, e il senso si genera nella relazione.

La complessità non è una proprietà eccezionale del mondo: è la sua condizione di base. È sufficiente che vi siano più elementi in relazione tra loro, che si influenzano reciprocamente, perché sorga un sistema complesso; non servono grandi apparati né strutture sofisticate: basta che esista un intreccio di connessioni che generano interdipendenze, e la complessità è già all’opera.

Quando più persone si riuniscono attorno a un progetto comune, si genera un sistema in cui ogni partecipante influenza e viene influenzato dagli altri; le intenzioni si mescolano, le percezioni si intrecciano, le azioni si rifrangono lungo traiettorie imprevedibili. Un’organizzazione che prende forma, un’équipe multidisciplinare che collabora, una tecnologia che interagisce con le abitudini umane: in ognuno di questi casi la complessità si manifesta, non come ostacolo, ma come condizione viva e dinamica della realtà. Il risultato non è mai del tutto prevedibile. Anche una minima variazione nel comportamento di uno solo degli elementi in gioco può modificare l’intero assetto del sistema, attivando reazioni a catena, trasformazioni diffuse, effetti amplificati e non lineari.

In questo senso, la complessità è irriducibile. Non può essere rimossa, né elusa, né circoscritta senza alterare la natura del fenomeno. Eliminarla implicherebbe spezzare le connessioni che tengono insieme il mondo: ridurre ciò che è in relazione a una somma di parti isolate. È un’operazione che può apparire utile per orientarsi, ma che, se assunta come visione del reale, finisce per impoverire la comprensione e deformare l’azione. Il principio del divide et impera, che ha guidato per secoli l’amministrazione del potere, si fonda proprio su questo tentativo: separare per controllare, frammentare per dominare. Ma oggi questo approccio si scontra con una realtà che ha moltiplicato in modo esponenziale le sue interconnessioni. I sistemi economici, informativi, sanitari, tecnologici, sociali, ambientali sono diventati così interdipendenti che ogni tentativo di isolarne una parte produce inevitabilmente effetti sui diversi sistemi intrecciati tra loro. Qualsiasi tentativo di isolare gli elementi, ignorando le relazioni che li legano, non produce chiarezza ma distorsione.

Oggi siamo immersi in sistemi così densi di relazioni che diventa sempre più difficile – e spesso dannoso – pensare per compartimenti stagni. L’intreccio tra le dimensioni del nostro vivere è così fitto che le vecchie logiche di separazione mostrano tutta la loro inadeguatezza. Non si può più separare l’economia dalla cultura, la salute dall’ambiente, la tecnologia dall’etica, la ricerca scientifica dalle dinamiche sociali. Ogni tentativo di semplificazione forzata genera disallineamenti, effetti collaterali, danni sistemici.

Persino in ambiti fortemente regolati e altamente tecnologici, come la medicina, la complessità si impone come dimensione irrinunciabile. Un esame diagnostico può fornire dati estremamente precisi, ma quei dati non parlano da soli: vanno interpretati alla luce della storia di vita del paziente, delle sue emozioni, delle sue relazioni, delle sue abitudini e delle sue paure. Nessun algoritmo, per quanto avanzato, può sostituire la relazione umana che si instaura tra medico e paziente, fatta di ascolto, fiducia, intuizione, senso di responsabilità. La tecnologia può amplificare la nostra capacità di vedere, ma non può decidere per noi cosa sia importante guardare.

L’osservatore è sempre parte del sistema

Uno degli assunti fondamentali della scienza della complessità è che noi non siamo mai osservatori neutrali. Non stiamo fuori dal mondo che descriviamo, al contrario: siamo sistemi che osservano altri sistemi, e l’atto stesso dell’osservazione modifica sia l’osservatore che l’osservato. Siamo immersi nel contesto che cerchiamo di comprendere, partecipiamo a ciò che accade, influenziamo e siamo influenzati. Non c’è un punto di vista esterno da cui osservare “oggettivamente” un fenomeno complesso: ogni sguardo è situato, ogni comprensione è parziale, ogni interpretazione è frutto di un’interazione.

E questo non è un limite, ma una risorsa. Significa che osservare è un atto partecipativo e che nel momento in cui osserviamo un fenomeno, lo trasformiamo — e ci trasformiamo a nostra volta. È una danza tra soggetto e oggetto, tra dentro e fuori, tra conoscente e conosciuto. La neutralità assoluta, tanto agognata in certi modelli di pensiero, si rivela una finzione teorica: ciò che possiamo coltivare è piuttosto la consapevolezza del nostro posizionamento, e la capacità di riflettere sulle condizioni che rendono possibile la nostra comprensione.

Anche la semplicità è relativa a un osservatore. Non è una proprietà oggettiva delle cose, ma un effetto della nostra capacità di comprendere: è il risultato di una relazione tra ciò che si presenta e chi lo interpreta. Troviamo semplice ciò che riconosciamo, ciò che si adatta alle nostre categorie mentali, ciò che sappiamo come utilizzare. L’esperienza della semplicità genera conforto: ci fa sentire competenti, a nostro agio, in sintonia con ciò che accade. Ma quando ci troviamo di fronte a qualcosa che non comprendiamo immediatamente, che sfugge ai nostri schemi, la reazione può essere di disagio, frustrazione, o addirittura rifiuto. La complessità sfida i nostri limiti cognitivi, ci mette alla prova, e per questo può suscitare resistenze emotive, non solo intellettuali.

Semplicità e complessità nel design e nella tecnologia

Nel mondo del design e della progettazione tecnologica, questa tensione tra complessità e semplicità è stata formalizzata nella “legge di conservazione della complessità”, nota anche come “legge di Tesler”. Larry Tesler, uno dei pionieri dell’interazione uomo-macchina e vicepresidente di Apple, sosteneva che ogni sistema ha una sua complessità intrinseca, che non può essere eliminata, ma solo redistribuita. La domanda cruciale è: chi dovrà farsene carico? Il progettista o l’utente? Il tecnico o il fruitore? In altre parole: la complessità non sparisce, si sposta.

Per rendere semplice l’esperienza di chi utilizza uno strumento, occorre inglobare la complessità nella progettazione. Ogni interfaccia intuitiva è il risultato di uno sforzo di progettazione che ha reso invisibile la fatica cognitiva; è perciò il progettista a doversi far carico del lavoro nascosto, affinché l’interfaccia appaia intuitiva, fluida, accessibile. Se questo lavoro non viene fatto a monte, ricadrà inevitabilmente sull’utente, che dovrà sforzarsi di colmare i vuoti, decifrare le ambiguità, trovare strategie alternative. La semplicità, quindi, non è gratuita: ha un costo progettuale. E in ogni caso, ciò che è semplice da usare non è sempre semplice da capire.

Anche la semplicità percepita può essere ingannevole. Un dispositivo con pochi pulsanti può sembrare immediato, ma rivelarsi complesso da usare, perché quei pochi comandi richiedono logiche implicite, passaggi nascosti, conoscenze non evidenti. Di conseguenza, la semplicità può generare fraintendimenti, aspettative errate, frustrazione. Esiste dunque un duplice scarto: tra semplicità progettata e semplicità vissuta, tra interfaccia e interazione. E in mezzo a questo scarto si gioca la qualità dell’esperienza.

Per affrontare questa tensione, è necessario spostare continuamente il punto di vista: dalla macchina alla persona, dalla funzione all’esperienza, dalla logica dell’efficienza a quella della relazione. Non basta creare strumenti innovativi, ma serve anche conoscere chi li userà: le sue abitudini di pensiero, i suoi gesti quotidiani, il suo linguaggio implicito, le sue aspettative. Ogni tecnologia è anche un’interazione, e ogni interazione è una relazione tra mondi.

Per arrivare a ciò che ci appare semplice, dobbiamo immergerci nella complessità. Passo dopo passo, iterazione dopo iterazione, esplorazione dopo esplorazione. In altri termini, la complessità è ineliminabile e irriducibile, e bisogna attraversarla per poter cercare di arrivare alla semplicità. Non esistono scorciatoie o soluzioni facili se il problema da affrontare ha una natura complessa.

Per dirla con le parole del filosofo e matematico Alfred North Whitehead:

L'unica semplicità di cui ci si può fidare è quella che si trova sul lato più lontano della complessità.

Questa affermazione, tanto essenziale quanto radicale, ci ricorda che la semplicità autentica non è mai un punto di partenza, ma un possibile esito. Per poterla raggiungere — o anche solo intravedere — occorre attraversare il territorio della complessità, con tutte le sue contraddizioni, le sue ambiguità, le sue interdipendenze. Non si tratta, dunque, di rifiutare la complessità in nome della chiarezza, ma di accettarla come passaggio obbligato. Le scorciatoie, in presenza di un problema complesso, non conducono a soluzioni: al contrario, rischiano di generare nuove complessità, spesso più difficili da affrontare di quelle originarie.

In questo senso, la citazione di Whitehead rinforza l’idea che la complessità non vada superata, ma inclusa, riconosciuta come parte costitutiva dei fenomeni vitali. Semplificare significa interrompere il processo di comprensione quando è ancora in atto, sottrarre profondità all’analisi, perdere il legame tra le parti. Ma una semplicità che emerge dopo — sul lato più lontano della complessità, come dice Whitehead — può essere qualcosa di straordinario: una forma di chiarezza che non banalizza, una visione che tiene insieme, un’armonia che non cancella le tensioni ma le attraversa.

È questa la semplicità che vale: non quella che semplifica ciò che è complesso, ma quella che riesce a rendere abitabile la complessità senza ridurla. Una semplicità che sa di essere figlia del pensiero lungo, dell’ascolto profondo, del confronto paziente con ciò che ci sfida.