Un numero crescente di governi in Europa ha deliberato, o ha annunciato l’intenzione di discutere, una restrizione o il divieto dello hijāb e del niqāb negli spazi pubblici. La retorica adottata dalle narrazioni di questi governi non contiene novità particolari: si tratta di una combinazione di affermazioni sulla “sicurezza”, “diritti delle donne” e “valori nazionali”. Verrebbe da chiedersi quali valori nazionali, dal momento che, dal dopoguerra ad oggi, la consapevolezza della propria identità come popolo e come nazione non è mai stata tanto superficiale. Questo dipende da una pluralità di fattori concomitanti che è difficile ridurre senza correre il rischio di banalizzare problema.

Vale la pena di citare l’effetto corrosivo del discorso postmodernista tanto sulla cultura europea che sui concetti usati per descriverla. In questo ambiente già compromesso, la mancanza di conoscenza dell’altro e la mancanza di volontà di incontrarlo su un terreno di reale parità, cioè a partire da una forte conoscenza delle proprie caratteristiche come nazione e da un onesto e misurato apprezzamento di ciò che di buono ha da offrire, acuiscono ulteriormente il problema. Un altro elemento che complica il quadro è il persistere di letture arbitrarie e fortemente ideologiche dei fenomeni che caratterizzano l’Altro nella sua “diversità”. Il velo islamico è uno di questi.

Il linguaggio del discorso di coloro che riducono e banalizzano il fenomeno come “patriarcale” e “paternalista”, “colonialista” etc., tipico di una determinata parte politica, sono un’ espressione proprio di quell’atteggiamento e di quella posizione ideologica che finiscono per privare decine di milioni di donne in tutto il mondo della capacità di compiere scelte personali autonome. I temi della parte politica opposta sono, nel peggiore dei casi, una manifestazione di aperta ostilità contro qualcosa che sarebbe lesivo di quel tessuto sociale, di quella coesione e di quella tradizione di cui essi stessi, almeno in Italia, si dimostrano sovente rappresentanti meno che degni.

Le voci delle donne che effettivamente portano hijāb e niqāb sono spesso assenti da questo dibattito, con il risultato che le politiche, locali o nazionali che siano, si costruiscono su teorie esterne, non sull’esperienza vissuta delle dirette interessate, la quale non dovrebbe certamente essere presa come unico punto di riferimento, dal momento che l’Italia non è un paese di tradizione musulmana dal punto di vista storico o un paese a maggioranza musulmana dal punto di vista demografico, ma che varrebbe la pena considerare, se non altro perché le interessate di eventuali proposte di legge sarebbero proprio loro.

Qual è l’origine del velo islamico, e qual è, per usare un termine contemporaneo, la narrazione della “user experience” di coloro che lo adottano nella multiformità delle sue varianti? E soprattutto, qual è l’opinione di chi effettivamente lo adotta?

Che cos’è lo “hijāb”? Testo, terminologia e prassi

Prima di parlare di divieti, bisogna essere precisi su che cosa sia, in realtà, lo hijāb come descritto nel Corano e quale sia il suo posto nella giurisprudenza islamica.

Per la persona osservante, il Corano è la trasposizione fisica, sulla Terra, del Corano originale che risiede nei Cieli, trasmesso al Profeta dall’Arcangelo Gabriele per volere divino. Esso è, a tutti gli effetti, la parola di Dio, e in quanto tale la sua autorità supera quella di qualunque altra fonte terrestre o celeste.

Nel Corano, hijāb significa schermo, barriera, separazione: qualcosa che divide due realtà e impedisce la visione reciproca, ed è legato indissolubilmente al concetto di “modestia”. Indica, ad esempio, la barriera tra credenti e ipocriti nell’Aldilà, oppure il velo che impedisce alle persone di vedere Allah in questa vita. Il versetto più citato nei discorsi sulla modestia – «Quando chiedete qualcosa alle [mogli del Profeta], chiedetelo da dietro uno hijāb» (33:53) – si riferisce a una tenda/paravento fisico nella casa del Profeta, non a un indumento sulla testa di una donna. Da qui i giuristi hanno derivato norme particolari per l’interazione con le Madri dei Credenti, non automaticamente estendibili a tutte le donne.

Ciò che politici e media occidentali chiamano “hijab” è dunque, in senso stretto, la traduzione pratica dell’ideale coranico di separazione e modestia nel vestiario individuale. Il lessico giuridico islamico è molto più preciso e distingue vari capi e le loro funzioni:

  • khimār (pl. khumur): copricapo che scende sulle spalle e sul busto.

  • jilbāb: soprabito o mantello esterno, portato sopra gli abiti.

  • niqāb: velo che copre il volto lasciando scoperti gli occhi.

oltre a molte varianti locali.

Queste sono differenti “ipostasi” del concetto generale di satr (copertura) e di hijāb (schermo), applicato al corpo. Confondere tutto sotto un’unica etichetta – “hijab” – come avviene nel discorso occidentale, rende quasi impossibile un confronto giuridico e sociologico serio.

Il comando coranico fondamentale su cui si fonda l’obbligo della copertura si trova nella Sūrat al-Nūr, la Sura della Luce:

«E di’ alle credenti di abbassare il loro sguardo, di custodire la loro intimità sessuale e di non mostrare i loro ornamenti se non ciò che appare normalmente, e di gettare i loro khumur sul petto…» (24:31).

Vale però la pena di precisare che questo versetto è preceduto da una sezione in cui il medesimo ordine viene impartito prima agli uomini. Dunque, non si tratta di una imposizione arbitraria studiata per limitare esclusivamente la libertà e l’indipendenza femminile: è invece una dimostrazione di come un concetto di moralità sia condiviso dagli uomini e dalle donne, con una precedenza degli uomini che ne indica un maggior carico di responsabilità, e che viene attuato in maniera simile, ma con criteri differenti, sulla base del riconoscimento delle differenze tra uomini e donne.

Khumur è un termine chiave, che merita di essere analizzato sotto due aspetti principali.

Primo, il sostantivo khumur. I lessicografi classici ricordano che indicava già in arabo preislamico un copricapo femminile; pertanto, il Corano non inventa un indumento ma regola l’uso di qualcosa che le donne portavano già.

Secondo, il sintagma verbale: «gettare (yadribna) i loro khumur sui juyūb». I juyūb sono le aperture dell’abito all’altezza del petto. Rispetto alla prassi, secondo cui le donne lasciavano cadere il copricapo dietro la schiena, il comando coranico è di portare il khimār in avanti e verso il basso, in modo da coprire collo e petto.

Questa è la base sulla quale i giuristi hanno discusso, e discutono tutt’ora, fino a dove debba estendersi la copertura. Non essendovi una figura equivalente al Papa, né un’istituzione investita del diritto di stabilire definitivamente quale sia l’interpretazione corretta del passo, il tema rimane fortemente dibattuto. Se da un lato c’è pieno consenso sul fatto che capelli, collo e petto debbano essere coperti davanti agli uomini non-maḥram, cioè coloro con cui il matrimonio è teoricamente possibile, le opinioni divergono significativamente per quanto riguarda viso e mani:

  • per alcuni, «tranne ciò che appare normalmente» si riferisce proprio a viso e mani, che possono rimanere scoperti mentre tutto il resto viene coperto.

  • per altri, letto questo versetto insieme a vari resoconti dei Compagni, nei tempi di fitna (maggiore perversione morale) le donne dovrebbero coprire anche il viso, rendendo il niqāb almeno raccomandato, se non obbligatorio, in certe situazioni.

Un resoconto chiave è quello di ʿĀ’isha nell’episodio della collana smarrita. Durante un viaggio, la giovane moglie del Profeta perde una collana, la carovana si ferma a cercarla, e poi riparte lasciandola indietro. Quando un Compagno la ritrova da sola nel deserto e la riconosce, ʿĀ’isha racconta che, appena si rese conto di essere stata vista, coprì il suo volto con il jilbāb.

Gli studiosi che vedono nel niqāb almeno una forte raccomandazione utilizzano questo e altri testi simili per sostenere che la prassi delle mogli del Profeta e di molte prime musulmane includeva la copertura del viso, almeno in certe circostanze. Chi sostiene l’opinione opposta accetta l’autenticità dei resoconti ma li interpreta come esempi di devozione superiore, non come obbligo universale.

Quadro normativo islamico: che cosa dovrebbe essere il velo

All’interno della tradizione islamica, il velo non è un semplice costume culturale. Il Corano si rivolge innanzitutto agli uomini:

«Di’ ai credenti di abbassare il loro sguardo e di custodire la loro intimità sessuale…» (24:30); solo dopo comanda alle donne di:

«abbassare il loro sguardo, custodire la loro intimità sessuale, non mostrare i loro ornamenti se non ciò che appare normalmente e trarre i loro khumur sul petto…» (24:31).

Un altro versetto importante ordina al Profeta di dire alle sue mogli, alle sue figlie e alle donne dei credenti di trarre su di loro i propri mantelli (jalābīb), «così che siano riconosciute e non siano molestate» (33:59).

I giuristi classici hanno letto questi versetti insieme agli ḥadīth pertinenti come fondamento di un obbligo generale per le donne musulmane adulte di vestire in modo modesto e coprire i capelli in pubblico, pur divergendo sulla norma relativa al viso. Le quattro scuole di giurisprudenza sunnita concordano che la modestia nel vestire e lo hijāb in senso ampio sono parte della sharīʿa; differiscono se il niqāb sia obbligatorio o “solo” raccomandato.

In quest’ottica, il velo è atto di ʿibāda, obbedienza a Dio, e componente della pietà personale. Il comando riguarda le donne, ma è inserito in un’etica coranica più ampia, che limita anche lo sguardo, il movimento e il comportamento degli uomini. Quando Stati o commentatori secolarizzano il velo riducendolo a strumento di patriarcato o di lotta politica, non stanno descrivendo l’Islam al livello di precisione che il tema richiede. Si limitano invece a proiettare su di esso una reinterpretazione esterna che parte da categorie laiche per discutere polemicamente di categorie legate alla sfera religiosa di un’altra tradizione.

La ʿawra: pudore, vulnerabilità e corpo

Il comando coranico di «custodire le furūj» (24:30–31) è spesso tradotto con “custodire la castità”. Questa resa coglie l’idea generale di moralità sessuale, ma rischia di essere troppo astratta. Nel lessico islamico, infatti, la castità non è solo uno stato interiore, ma passa anche dalla gestione concreta del corpo, dello sguardo e dell’abbigliamento.

Qui entra in gioco il concetto giuridico di ʿawra. Linguisticamente, ʿawra indica qualcosa di difettoso, esposto, vulnerabile, che suscita vergogna se mostrato. I giuristi hanno ripreso questo termine per indicare le parti del corpo che devono essere coperte e che non è lecito esporre a chi non ha diritto di vederle. In altre parole, la ʿawra è la “zona di vulnerabilità” che va protetta, fisicamente e simbolicamente.

Sulla base del Corano e degli ḥadīth, il diritto classico ha dunque distinto:

  • per l’uomo, una ʿawra che va dall’ombelico al ginocchio (con leggere differenze tra le scuole sulle ginocchia).

  • per la donna, una definizione molto più ampia davanti agli uomini non-maḥram: secondo la maggioranza delle scuole, tutto il corpo è ʿawra tranne viso e mani (e, per alcuni, i piedi); per gli autori che considerano obbligatorio il niqāb, anche il viso rientra nella ʿawra da coprire.

Queste definizioni variano a seconda del contesto (in preghiera / fuori preghiera, in presenza di altre donne, di maḥram, di non-musulmane, ecc.), ma dal punto di vista generale si può dire che l’Islam ancori la moralità sessuale a una disciplina del corpo. “Custodire la propria castità” significa sia evitare atti illeciti che controllare ciò che del corpo è visibile, e in quali circostanze.

In questo quadro, hijāb e niqāb divengono strumenti concreti per custodire la ʿawra secondo parametri fissati dalla rivelazione. Vietare questi strumenti equivale, dal punto di vista di chi crede, a impedire alle donne di obbedire in pieno al comando di proteggere la propria vulnerabilità corporea e sessuale, il che è fondamentale per capire perché molte musulmane vivono il velo come protezione e non come prigione, in contrasto con quella parte del pensiero europeo che ha localizzato nel corpo, specie quello femminile, un vero e proprio campo di battaglia.

Perché il velo provoca tanta ostilità in Europa

Nel discorso pubblico dell’Europa occidentale, hijāb e niqāb vengono quasi sempre presentati in chiave negativa. Il velo è descritto come:

  • simbolo di sottomissione femminile.

  • segno di “estraneità”, incompatibile con l’identità nazionale.

  • nel caso del niqāb, anche come minaccia alla sicurezza.

Qui convergono due correnti. La prima è l’ostilità verso l’Islam come presenza pubblica, alimentata da terrorismo, ansie migratorie e sensazionalismo mediatico. La seconda è una certa visione post-’68 della “liberazione” femminile, che identifica la libertà con la visibilità pubblica del corpo, con l’auto-esposizione, e con il diritto di disporre di esso sia a piacere che per il piacere.

Lo hijāb è in aperta contraddizione con questo modello. Rifiutando la messa in mostra della sessualità femminile, esso mirerebbe a restituire alla donna il controllo sulla propria visibilità. Se l’ideale contemporaneo dice di riconosce alla donna la libertà di mostrare il proprio corpo alle proprie condizioni, la scelta del velo indica l’equivale e opposta volontà di essere visibili a propria discrezione e alle proprie condizioni.

Per il femminismo secolare e per numerosi politici, si tratta di una risposta inconcepibile. Non riuscendo a immaginare che una donna possa scegliere la modestia come disciplina religiosa, interpretano hijāb e niqāb quasi automaticamente come prova di costrizione, o peggio, come imposizione esterna, ricadendo nei topoi consueti del “patriarcato” e dell’ “oppressione”. Eppure, la stessa ostilità colpisce anche gli uomini che portano barba lunga, qamīs/caftani o altri indumenti riconoscibilmente islamici. Il bersaglio comune è la visibile appartenenza alla comunità musulmana, non il sesso. Donne velate e uomini “barbuti”, in quanto personificazione della tradizione religiosa, costituiscono l’antitesi della modernità secolare, e divengono per questo oggetto di antagonismo sia simbolico che fisico.

Adozione del velo in Europa attraverso le generazioni

Le dinamiche generazionali del velo in Europa vanno comprese in quadro più articolato. La semplificazione secondo la quale la prima generazione di migranti sarebbe quella più religiosa e la seconda generazione sarebbe quella secolarizzata non regge a un esame dei dati disponibili.

In Germania, gli studi come Muslimisches Leben in Deutschland mostrano che una quota più alta di donne di prima generazione porta lo hijāb in modo più costante rispetto alla seconda generazione, ma molte donne di seconda generazione continuano a velarsi, e l’indice complessivo di pratica religiosa resta elevato. In Olanda, ricerche sulle donne turche indicano un quadro simile: l’uso sistematico del velo è più diffuso tra le madri che tra le figlie, ma la riduzione è relativa, non un crollo.

Nel Regno Unito, la cui legislazione non prevede proibizioni, il quadro è diverso. Studi qualitativi descrivono molte giovani musulmane nate in Gran Bretagna che scelgono lo hijāb quando le loro madri non lo portano, talvolta in aperto contrasto con le preferenze familiari, e che motivano la scelta con argomenti esplicitamente religiosi e identitari. In questo contesto lo hijāb diventa segno di vicinanza alla religione e di un’identità britannico-musulmana sicura di sé.

Non esiste dunque un unico modello europeo. L’elemento comune è piuttosto che il velo non è semplicemente una sopravvivenza “tradizionale” destinata a dissolversi sotto l’urto della secolarizzazione. In alcuni contesti, è proprio la generazione nata e cresciuta in Europa che se ne riappropria consapevolmente.

Velo e molestie

Nel dibattito pubblico si sente spesso dire che hijāb e niqāb mettono a rischio le donne, perché provocherebbero ostilità o le “isolerebbero”. Questo ribalta in un certo senso la logica coranica: l’ingiustizia sta nel comportamento degli uomini e della società che non rispettano una donna il cui comportamento è orientato all’attuazione della modestia, non nella modestia in quanto tale o nelle forme in cui essa viene attuata.

I dati provenienti da Paesi a maggioranza musulmana mostrano che l’adozione dello hijāb non si traduce automaticamente in maggiore sicurezza. Un ampio studio promosso da UN Women in Egitto ha rilevato che quasi tutte le donne intervistate hanno subito qualche forma di molestia sessuale nel corso della vita, e che questo riguarda donne velate e non velate, di ogni classe sociale. In un contesto in cui la norma sociale tollera la molestia, nessun indumento basta da solo a garantire la sicurezza e l’autonomia delle donne.

In Pakistan, altri dati suggeriscono un effetto diverso: uno studio su donne musulmane urbane, divise in gruppi di abbigliamento che vanno dal niqāb con abaya agli abiti “moderni”, mostra che le donne con niqāb riportano i livelli più bassi di molestia, seguite da chi porta hijāb con abaya; i livelli più alti riguardano chi veste in stile occidentale. In quel contesto, il grado di copertura sembra ridurre concretamente l’esperienza di molestie.

In Europa il quadro è ancora diverso. Molte donne riferiscono che, dopo aver iniziato a portare lo hijāb, si riducono complimenti invadenti, sguardi insistenti e approcci sessualizzati, ma aumentano insulti e aggressioni verbali rivolti alla loro identità religiosa: “terrorista”, “ISIS”, “torna al tuo Paese”, ecc. Gli studi sulle donne col niqāb nel Regno Unito e in Francia documentano alti livelli di abusi verbali, sputi, spinte, oltre a un’attenzione di polizia più intensa e a restrizioni effettive nei movimenti dopo determinate campagne mediatiche e il venire in essere dei divieti su determinate tipologie di abbigliamento.

Ne derivano due conclusioni:

  • Il fatto che il velo protegga o meno da molestie dipende molto meno dall’indumento e molto di più dalle norme morali e giuridiche che regolano il comportamento degli uomini.

  • In Europa, laddove le molestie aumentano dopo l’adozione del velo, la causa non è la femminilità in quanto tale, ma l’ostilità verso un simbolo religioso visibile. Il problema è l’islamofobia, non l’hijāb.

L’“user experience” di hijāb e niqāb

I risultati di numerosi studi indicano che quando hijāb o niqāb sono adottati liberamente come pratica religiosa, le donne descrivono l’esperienza in termini molto positivi. Interviste in profondità con giovani donne di origine turca in Germania mostrano che per esse il velo fa parte di un progetto di “diventare una vera musulmana”. Le intervistate raccontano il sollievo di vedere finalmente l’esterno allineato con la fede interiore e descrivono un aumento della sicurezza di sé dopo l’adozione del foulard. Molte dicono che non riuscirebbero più a immaginarsi senza: l’hijāb è diventato parte della loro identità.

Le donne col niqāb nel Regno Unito parlano dell’atto di coprire il viso come dell’ingresso in una sorta di “bozzolo”, uno spazio di intensa intimità con Dio e con sé stesse. Il niqāb è vissuto come azione morale che plasma il sé: avvicina ad Allah, dona calma interiore e coerenza tra convinzioni profonde e forma esteriore.

Uno studio su larga scala in Iran e Arabia Saudita mostra un legame netto tra motivazioni e vissuto emotivo: dove il velo è portato per convinzione personale e identificazione con la fede, le donne riportano più emozioni positive e meno negative; dove è portato solo per paura della sanzione sociale o legale, il profilo emotivo peggiora. Lo stesso hijāb può essere vissuto come gioia o come peso, a seconda che sia realmente scelto o meno.

Libertà dallo sguardo ossessivo sul corpo

Molte donne descrivono hijāb e niqāb come strumenti di liberazione dall’ossessione contemporanea per l’aspetto fisico. Una persona britannica che era stata cantante racconta che, la prima volta che ha recitato in pubblico col niqāb, ha avuto la sensazione che fosse “solo questione di ciò che sto dicendo”, non più del suo aspetto.

Ricerche tra musulmane francesi mostrano che le donne che portano l’hijāb hanno, in media, minor insoddisfazione corporea, minore interiorizzazione del modello di magrezza e meno ansia per il proprio aspetto rispetto a chi non lo porta, pur riportando più episodi di discriminazione. Per loro, l’hijāb agisce come fattore protettivo rispetto all’immagine corporea e ai disturbi alimentari in una società satura di pubblicità sessualizzate e standard estetici rigidi.

Studi qualitativi in Pakistan e altrove dicono qualcosa di simile: con lo hijāb, le donne si sentono meno esposte a sguardi e commenti invadenti, più rispettate e più libere nei movimenti nello spazio pubblico, perché sanno di non essere giudicate prima di tutto per l’aspetto.

Dignità, appartenenza e rappresentanza

Per molte musulmane osservanti il velo è anche un marcatore di dignità e appartenenza. Hijāb e niqāb collegano le donne alla ummah, la comunità islamica globale, e a figure specifiche nelle loro storie: familiari, insegnanti, attiviste. Nel Regno Unito e in Canada, molte donne velate si percepiscono come “ambasciatrici” dell’Islam: consapevoli di essere lette come rappresentanti, cercano di rispondere con pazienza e gentilezza anche in presenza di pregiudizi.

I rapporti dell’Open Society Foundations su donne col niqāb in Francia e nel Regno Unito mostrano con chiarezza quanto lo stereotipo della donna velata ignorante e oppressa sia fuori fuoco: molte intervistate hanno alti livelli di istruzione, obiettivi professionali ambiziosi e un rapporto molto articolato con la cittadinanza e lo spazio pubblico.

Questo non cancella la realtà delle esperienze negative: stanchezza per le domande incessanti, paura dopo aggressioni, dolore quando la scelta del velo provoca conflitti familiari. Tuttavia, la letteratura indica che quando le donne osservanti di parlano del velo in quanto tale, come pratica di culto e come forma di rappresentazione di sé, quasi sempre ne danno una valutazione positiva.

I divieti sono davvero “per le donne”?

I governi europei giustificano spesso i divieti di hijāb e niqāb in nome dei diritti delle donne. Il presupposto è che il velo sia intrinsecamente oppressivo, per cui lo Stato “libera” le musulmane da quella che viene rappresentata come una pratica religiosa retrograda o come una imposizione patriarcale che snatura l’originale messaggio egualitario dell’Islam. Alla luce di quanto abbiamo visto, questa narrazione si regge su presupposti malfermi.

  • Quando l’hijāb è adottato liberamente, è associato – in numerosi studi – a un vissuto emotivo più positivo, a un rapporto più sereno con il proprio corpo e a un forte senso di dignità e appartenenza. Proibire questa pratica contro la volontà delle dirette interessate rischia di ledere, più che promuovere, la loro autonomia.

  • I divieti non affrontano il problema della condotta maschile, che è invece un tema centrale. In contesti come l’Egitto, dove la molestia riportata come endemica, il problema è chiaramente localizzato nel comportamento maschile non conforme al comandamento coranico, perfino più grave se si considera che nel diritto musulmano l’uomo e la donna hanno pari dignità ma diversa importanza, e non nel fatto che l’abbigliamento femminile sia inadeguato.

  • In Europa, gli insulti alle donne velate sono espressione di islamofobia e xenofobia; costringere le donne a togliere il velo significa semplicemente far pagare a loro il prezzo dell’ostilità di una ostilità che non è immotivata, ma che si regge più sulla mancanza di conoscenza che su una valutazione ragionata e concreta dell’Altro.

  • Le campagne pubbliche contro hijāb e niqāb tendono a legittimare l’aggressività privata: quando lo Stato dichiara il niqāb “incompatibile con i valori nazionali”, alcuni cittadini si sentono autorizzati a farsi giustizia da soli ai danni delle donne le cui scelte essi ritengono inaccettabili.

Fatico a trovare in questi divieti l’intenzione di tutelare le donne di fede musulmana. Mi sembrano piuttosto la manifestazione di un disagio verso qualunque contestazione visibile alle norme secolari dominanti e, soprattutto, una ammissione di quanto alla nostra cultura sia stato permesso di diventare fragile. Una società sicura dei propri valori sa tollerare una minoranza di donne che si coprono il capo o il volto per Dio. Una società insicura percepisce questa minoranza come una minaccia esistenziale.

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