Sono passati millenni da quando l’uomo, forse inconsapevole di essere parte di un grande universo ricco di ogni risorsa utile alla sua sopravvivenza e alla sua esigenza di bellezza, ha imparato a coltivare la terra e a trarne prodotti non al solo fine di alimentarsi. La cultura pre-storica, a noi pervenuta attraverso le ricerche e gli studi più approfonditi sull’origine della vita e dell’umanità, ha ancora molto da insegnarci; nonostante apparentemente evoluti a livello tecnologico siamo in permanente crisi economica e ambientale a livello planetario.

Sorge spontaneo chiedersi anche nei consessi scientifici e accademici di tutte le università del mondo quali siano le ragioni che spingono l’umanità verso il conflitto economico, sociale e ormai culturale sulla visione delle cose. Senza doversi riferire a teorie radicali e pessimistiche sul destino del pianeta, è però opportuno porsi degli interrogativi sul perché viviamo in un sistema che procede su due grandi binari in continua opposizione e confronto. Da una parte assistiamo al progredire frenetico e veloce dell’innovazione tecnologica nell’uso dei materiali, dei processi di smaltimento e riciclaggio, dell’automazione, delle tecniche di riduzione di uso dell’acqua, della sintesi di nuove molecole a favore della nutrizione delle piante, per non citare lo studio della genetica molecolare e della biochimica, dall’altra siamo partecipi e a volte complici nel consumo di energie al di sopra delle reali esigenze, nell’utilizzo di sostanze purtroppo nocive alla salute, nel commercio di sementi che producono piante sterili, non riutilizzabili da parte di chi le coltiva, nella riduzione della variabilità genetica nelle nostre coltivazioni, sottoposte sempre più a minacce di infestazioni.

L’aumento dell’uso di packaging è in continua crescita con forti ripercussioni sul pianeta: recenti studi ne registrano un aumento anche in Italia, in tutto il settore dei costruttori di macchine automatiche per il confezionamento e l’imballaggio. Un giro d’affari realizzato per l’81,2% sui mercati internazionali, 5,048 miliardi di Euro, e per il 18,8% dalle vendite sul mercato nazionale, 1,172 miliardi di Euro, (dati UCIMA, 2015). Il dato allarmante è che al secondo posto dei paesi destinatari vediamo l’Asia, al terzo gradino i Paesi Extra-UE e a seguire Centro-Sud America, Africa e Oceania, proprio quei paesi dove il livello di smaltimento e riciclo sono ai livelli più bassi.

Questi solo alcuni esempi per evidenziare un doppio binario di intenti, di filosofie di produzione e gestione soprattutto nell’ambito agricolo, non solo a livello di coltivazione, ma soprattutto di trasformazione e commercializzazione per non citare la distribuzione su grande scala. L’occasione dell’EXPO, termine anglofono per indicare Esposizione Universale ha consentito di riflettere sulle grandi contraddizioni che investono oggi il nostro pianeta, che dovrebbe essere “nutrito” rispettando i suoi equilibri ormai in realtà solo potenziali. Se ci si sofferma sul messaggio che la stessa EXPO con la sua campagna mediatica ha diffuso a livello planetario, l’auspicio che se ne trae è ambizioso e grandioso. “E’ l’occasione – riporto fedelmente dal sito ufficiale - per riflettere e confrontarsi sui diversi tentativi di trovare soluzioni alle contraddizioni del nostro mondo: se da una parte c’è ancora chi soffre la fame (circa 870 milioni di persone denutrite nel biennio 2010-2012), dall’altra c’è chi muore per disturbi di salute legati a un’alimentazione scorretta e troppo cibo (circa 2,8 milioni di decessi per malattie legate a obesità o sovrappeso). Inoltre, ogni anno, circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo vengono sprecate. Per questo motivo servono scelte politiche consapevoli, stili di vita sostenibili e, anche attraverso l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia, sarà possibile trovare un equilibrio tra disponibilità e consumo delle risorse”.

Il visitatore è quindi invogliato, girovagando da un padiglione all’altro – pur con difficoltà per l’enorme afflusso – a trovare la messa in questione dei conflitti che in realtà sono poco evidenziati se non in termini di proclami. I singoli paesi espongono in molti casi architetture degne di interesse, sia per la tecnologia utilizzata che per il risultato compositivo; l’Angola e l’Azerbaijan ad esempio, con un apporto contenutistico limitato allo stato dell’arte in termini di produzioni, cultura, geografia, economia. In grandi contenitori di forte impatto visivo come Israele, ad esempio, si rimane estasiati dall’uso della tecnologia impiegata per la comunicazione, anziché dal reale interesse del messaggio.

Il tentativo di stupire il visitatore ha prevalso sull’aspetto sostanziale almeno nei casi che io stessa ho potuto constatare. Questo è il caso del Padiglione del Qatar, una spirale che riproduce proiettando al proprio centro immagini frammentate, con luci abbaglianti simil-stroboscopiche in grado di creare spaesamento senza alcun preciso obiettivo. Il Vietnam, affascinante vetrina, rimane tale con i suoi immensi funghi che riproducono costruzioni spontanee locali, ma poi all’interno si trovano alcuni mercatini locali con prodotti ormai globalizzati. Se Israele, forte della comunicazione fondata sulla consolidata supremazia tecnologica in campo irriguo, si perde nel proporre un'agricoltura verticale ancora tutta da sperimentare per le colture intensive come il riso e il mais colture, estremamente esigenti in termini di energie, il padiglione New Holland espone i suoi più innovativi mezzi agricoli che solo un agricoltura intensiva e ricca può sostenere, soprattutto collocandoli su un prato/tetto verde che richiede tagli frequenti, grandi apporti di acqua e una manutenzione quasi giornaliera.

“L’estetica vuole la sua parte” sembrano dire la maggior parte dei padiglioni che come quello Francese, Italiano, Cinese, Russo o Svizzero si snodano con grande effetto stilistico tra cardo e decumano, i due grandi assi dell’Expo: sono realizzati con coperture leggere, apprezzabili per forma ed effetto compositivo, ma completamente prive di verde. Altrove gli spazi verdi non mancano ma rappresentano una minima parte che non cattura l’occhio del visitatore flaneur attirato dalle costruzioni, e va a costituire una sorta di greenbelt efficace forse da una visione aerea della grande area espositiva, che rimane un retino colorato sulla carta più che uno spazio godibile. Dal terrazzo del Padiglione dell’Oman o da quello Russo o dal grande tetto New Holland si riesce a carpire qualche visione ampia che abbraccia un grande panorama.

Sempre sull’effetto scenico punta la grande struttura in legno e acciaio che costituisce l'Albero della Vita. Si erge al centro di Lake Arena, la grande immensa piazza dei visitatori con un'altezza di 37 metri o davanti a Palazzo Italia, all’estremità del cardo. 25.000 gli alberi messi a dimora e 35.000 gli arbusti che in un'area così vasta si può dire siano una piccola oasi a cui il visitatore anela soprattutto durante il tour nei periodi infuocati dell’estate.

Certo gli otto tip che incentivano a vivere in modo sostenibile la visita a Expo sono ecologically correct, potremmo dire in soldoni: "Fai la raccolta differenziata..., ... e dài una seconda possibilità alle bottiglie di plastica, collabora alla lotta contro lo spreco alimentare, Expo è smoke-free: si fuma solo nelle aree fumatori, se puoi, vieni in bicicletta (o con i mezzi pubblici), in coda dài la precedenza a disabili, carrozzine, anziani e donne in gravidanza, prima di iniziare la tua visita in Expo Milano 2015 dài un'occhiata all'Itinerario 'Cibo sostenibile = mondo equo'".

I termini che ricorrono in tutto il portale ben strutturato e aggiornato di Expo sono sicuramente un protocollo di intenti che sentiamo risuonare ormai da decenni, dal lontano accordo internazionale del 1992 sulla Sostenibilità (Rio de Janeiro, Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che portò alla stesura del protocollo di Kyōto): “prospettiva olistica”, “agricoltura sostenibile”, “sovranità alimentare”, “accesso al cibo buono, pulito e giusto per tutti”. Rimane però un quesito che ancora una volta si pone, qualora partecipiamo a Expo con uno spirito critico, non per questo negativo: i grandi partner aziendali presenti, come Kinder, Lindt, McDonald’s , Nestlè, Coca Cola, Enel, Algida, ENI, sono in linea con il loro sistema di processo produttivo e commerciale con i quattro pilastri valoriali stilati come presupposti ineludibili da Expo: Eredità Sociale, Inclusione, Innovazione e Responsabilità?

A questo proposito non si può ignorare il dossier che vede come firmatari studiosi, intellettuali e scienziati italiani proprio sulla questione “Carta di Milano”. Tra loro Alex Zanotelli, Gianni Tamino, Moni Ovadia, solo per citarne alcuni che affrontano con una critica oggettiva i principi fondanti della Carta, che a loro giudizio costituisce “una grande operazione mediatica, che si limita a dichiarazioni generiche senza andare alle cause e alle responsabilità della situazione attuale. Non una parola sui sussidi che la Commissione Europea regala alle multinazionali europee agroalimentari permettendo loro una concorrenza sleale verso i produttori locali; non una parola sugli accordi commerciali tra l’Europa e l’Africa (gli EPA) che distruggono l’agricoltura africana; né si parla del waterland grabbing; né degli OGM che espropriano dal controllo sui semi i contadini e che condizionano l’agricoltura e l’economia di grandi paesi come il Brasile e l’Argentina; né si accenna alle volontà di privatizzare tutta l’acqua potabile e di monetizzare l’intero patrimonio idrico mondiale, né si fanno i conti con i combustibili fossili e il fraking”(Terranuova, 19 Maggio 2015).

La complessità della natura forse richiederebbe un approccio diverso ogniqualvolta se ne faccia comunque un uso finalizzato al soddisfacimento del pianeta, inteso come popolazione mondiale. Nel secolo delle grandi Esposizioni universali di Parigi (1867) o di Londra (1851) probabilmente il termine utilizzato era “sfruttamento” delle risorse senza alcuno scandalo dell’opinione pubblica, oggi a 150 anni da allora in sostanza poco sembra essere cambiato, sebbene la terminologia utilizzata debba assicurare ben altri metodi e attenzioni nei confronti delle generazioni future.

Per non perdere questo “sentimento della natura” che potrebbe, se coltivato, incentivare scelte di “collaborazione” con la natura stessa - come afferma bene Vandana Shiva – e non di guerra contro di essa, forse al visitatore di Expo non rimane che tuffarsi tra le centinaia di opere e pezzi di antica fattura esposti a Palazzo Reale a Milano, dove è in corso la mostra Mito e Natura. Dalla Grecia a Pompei. La rappresentazione della natura nell’Arte antica classica, ellenistica e romana non era mai stata così opportunamente esposta in una raccolta che riporta il teatro delle azioni umane in relazione ai luoghi ai paesaggi e alla natura vegetale e animale. I curatori della mostra, Gemma Sena Chiesa e Angela Pontrandolfo, le Università di Milano, Salerno, di Parigi X Nanterre riescono nel loro intento di spiegare il ruolo che la Natura ha avuto nello sviluppo della società occidentale come quintessenza per la nascita del pensiero logico, del sentimento religioso, filosofico a partire dall’archetipo del Mito. L’osservazione delle 200 opere esposte, che coprono otto secoli di storia, a partire dal Cratere di Pithecusa dell’VIII secolo a.C., apre di nuovo la discussione sul controverso rapporto uomo-natura. Lo spazio raffigurato prima come physis, poi come natura, per il mondo latino testimonia modalità diverse di interpretazione da parte delle civiltà e dei popoli.

La sacralità con cui le specie vegetali, fondamento dell’areale mediterraneo, come palma, olivo, mirto ed edera sono rappresentate nei vasi attici provenienti da depositi votivi commissionati dalle aristocrazie, testimoniano fuori da ogni interpretazione la sacralità e il significato divino attribuiti alla natura. L’evocazione della protezione divina attraverso il rispetto di piante simboliche personificate nelle divinità – Dioniso, Artemide, Persefone - si perde nella storia antica ed evidenzia potentemente come sia mutato in maniera radicale il rapporto degli uomini con la terra. La mostra non semplifica con il nostalgico ripensamento all’antico come età dell’oro e di pacificazione tra uomo e natura e quindi con le piante e gli animali. Analizza invece con percorsi tematici a partire dallo Spazio della natura alla metafora e alla personificazione, al dono degli dei, al paesaggio e al giardino creati dall’uomo e alla loro rappresentazione, l’accidentato itinerario di co-evoluzione, di sviluppo interagente che ha trasformato l’uomo stesso influenzandone il corso della storia.

La personificazione in forme antropomorfe e di divinità degli elementi naturali (sole, luna, vento, aurora, fiumi e montagne, ecc.), inseriti con genealogie e miti, dimostra come la natura stessa partecipi alla creazione di un ordine cosmico che l'uomo doveva rispettare. Il mito stesso assume una dimensione spazio-temporale che spiega i misteri della creazione e degli eventi naturali, creando un legame indissolubile con l’uomo. La natura coltivata è dono degli dei, il grano, la vite e l’olivo rappresentano piante sacre, e come tali coltivate secondo un metodo rispettoso di tempi, stagioni e cicli lunari. Allo stesso modo rispettavano la loro trasformazione e l’uso dei prodotti che se ne traevano, pane, vino e olio. Questo insieme di valori - sostiene la curatrice Sena Chiesa – che domina tutta l’età classica "si sgretola all’arrivo della strepitosa forza innovatrice della cultura ellenistica scopritrice da una parte di una natura 'decorativa' e dall’altra della dimensione del paesaggio".

La questione centrale oggi purtroppo non è più mera speculazione filosofica, epistemologica e nemmeno estetica del come interpretare il rapporto uomo-natura, come fecero dal Settecento Schiller e Von Humbolt, elaborando una teoria in proposito sui tempi dell’antica Grecia; il distacco, l’incrinatura, l’allontanamento dell’uomo occidentale dal principio di appartenenza a un sistema unico dell’universo, che è regolato da relazioni ancora oggi per la maggior parte non note, costituiscono il più grande impedimento al raggiungimento degli obiettivi espressi dalla grande Esposizione “EXPO 2015”.

Al risuonare cadenzato dei tanti e buoni intendimenti fa da contraltare un perseverare in ordine alla produttività, alla crescita, al modello agricolo intensivo e non di sostentamento sulla base delle reali esigenze locali dell’economia reale, della sussistenza e dei bisogni primari dell’umanità.