Sono passati mesi dall'inizio dell'ennesima strage a Gaza. Ogni tanto torna una notizia, un aggiornamento, un'immagine troppo cruenta per essere ignorata, poi si scivola altrove. La guerra in Ucraina, con la sua lunga durata, è ormai diventata rumore di fondo e in Sudan continuano a morire migliaia di civili, e nessuno ne parla più. Sembra quasi che il dolore, se non ha una narrazione sufficientemente coinvolgente, non esista. Ci rifletto da quasi tutta la vita, è qualcosa di più profondo: un meccanismo di selezione morale, emotiva e politica su cosa ci colpisce, su chi merita solidarietà, su quale tipo di guerra viene considerata legittima.

La cronaca si confonde con l'intrattenimento, e anche la guerra è diventata contenuto: scrollabile, monetizzabile, digeribile. Il dolore ci raggiunge in forma di notifica, di post, di commento. Ci tocca per un attimo, poi si dissolve, ma i corpi restano. Le rovine restano. I bambini sotto le macerie restano.

La Palestina è l'esempio più feroce di questa disattenzione selettiva. Un popolo che vive da decenni sotto occupazione, costretto a giustificare ogni parola, ogni gesto, ogni richiesta di autodeterminazione. Quando si parla di Gaza, la discussione si sposta subito sul piano dell'opinione: giustifichi o condanni? Come se la vita umana dovesse passare al vaglio del dibattito. Come se la condizione di vittima dovesse essere autorizzata da chi la osserva.

La questione palestinese non è solo un conflitto, è una ferita aperta nella coscienza dell'Occidente, che ha costruito la propria idea di civiltà anche su questo tipo di rimozione. Perché indignarsi pubblicamente per Gaza, oggi, sembra ancora un gesto radicale? Perché molti intellettuali, artisti, politici preferiscono tacere o usare formule ambigue, per paura di essere mal interpretati?

Lo spazio pubblico è stato colonizzato da una semantica di potere, i bombardamenti israeliani vengono raccontati come risposte militari, gli attacchi palestinesi come terrorismo. Le parole non sono neutre. Scegliere come raccontare un evento significa anche scegliere da che parte stare, anche quando si finge imparzialità. E poi c'è la spettacolarizzazione. Le immagini di guerra che scorrono sui social sono insieme prova e spettacolo. C'è chi le condivide per testimoniare, chi per sensibilizzare, chi per scrollarsi di dosso il senso di impotenza. Ma la linea tra consapevolezza e consumo è sottile, il dolore altrui rischia di diventare una componente del nostro feed emotivo. Lo guardiamo, lo sentiamo, e poi passiamo oltre.

Judith Butler, in uno dei suoi saggi più lucidi, parla del concetto di vite degne di lutto. Non tutte le vite, nel discorso pubblico, vengono percepite come ugualmente degne di essere piante. Alcune morti sono tragedie, altre statistiche. Alcune vittime sono civili innocenti, altre vengono deumanizzate con formule vaghe e spersonalizzanti.

Questo meccanismo non è solo linguistico. Ha effetti politici, diplomatici, militari. Stabilisce chi può essere difeso, chi può resistere, chi ha diritto alla memoria. In questo schema, l'Occidente si muove con una coerenza ipocrita: tollera alcune occupazioni, denuncia altre; chiude gli occhi su certi crimini, amplifica altri. Ma soprattutto, dimentica in fretta. La guerra in Ucraina ha avuto un impatto emotivo potentissimo all'inizio: bandiere, appelli, raccolte fondi, mobilitazione. Poi, lentamente, è diventata una notizia tra le altre. Un rumore di fondo geopolitico, evidentemente anche l'empatia ha i suoi cicli. Quando non si vedono sviluppi immediati, quando lo scenario si complica, l'opinione pubblica si ritira e i governi con essa.

La verità è che l'indignazione è faticosa. Costa energie, implica scelta, mette in discussione certezze e per questo preferiamo frammentare, rimuovere, passare oltre. Ma questa rimozione è essa stessa un atto politico. Decidere di non guardare è un privilegio, chi vive sotto le bombe non ha il lusso dell'oblio.

Assistiamo a una crisi della memoria collettiva; un tempo le guerre lasciavano tracce profonde nelle generazioni, nei racconti, nei libri. Oggi, la velocità della comunicazione brucia tutto prima che possa sedimentare, ma senza memoria non c'è comprensione. E senza comprensione, non c'è nessuna possibilità di trasformazione.

Forse la questione non è solo politica o mediatica. È anche culturale. Siamo diventati incapaci di sostare nel dolore, nella complessità, nella domanda. Vogliamo risposte rapide, opinioni nette, frame rassicuranti. Ma la guerra non è semplificabile. Non è uno scontro tra buoni e cattivi. È un luogo dove si misura la disumanizzazione e chi non ha il coraggio di chiamarla per nome, finisce per diventarne complice. Non scrivo da un luogo di neutralità. Credo che la Palestina sia una delle questioni politiche e umane più urgenti del nostro tempo. E credo che chi tace, oggi, stia scegliendo. Non è obbligatorio sapere tutto, ma è necessario non fingere di non sapere nulla. Non è obbligatorio esporsi sempre, ma lo è chiedersi perché non lo facciamo.

Mi aiuto con le parole di Noam Chomsky, filosofo eccezionale che afferma che la propaganda più efficace non è quella che impone una verità, ma quella che rende alcune verità invisibili. In questo senso, il silenzio su Gaza è una forma di propaganda passiva. Ci abitua all'indifferenza e normalizza l'oppressione. Anestetizza il senso di giustizia. Non so quale sia la soluzione. Ma so che non può esserci pace senza verità, né verità senza memoria. E che ogni volta che passiamo oltre, rinunciamo a una parte della nostra umanità. Le guerre infinite non sono solo quelle che non finiscono, sono quelle che smettiamo di vedere.

Restare informati non significa solo leggere notizie, significa scegliere di non voltare lo sguardo. Di non credere che la distanza ci renda innocenti, di non permettere che il dolore diventi sfondo. Non possiamo cambiare tutto, ma possiamo decidere cosa tenere presente. E oggi, ricordare è una forma di resistenza.