Alcuni giorni fa mi sono recato al Cimitero di Viguzzolo (in provincia di Alessandria) per recitare una preghiera sulla tomba del mio grande amico e maestro Mario Berri: giurista, nonché Primo Presidente della Corte di Cassazione (dal 1981 al 1982). Tra i molti suoi scritti (alcuni felicemente raccolti nel volume: Fede nella giustizia, Giuffrè 1984) voglio soltanto ricordare un bellissimo “decalogo” sulla missione del magistrato che, purtroppo, non molti giudici conoscono (e applicano). Ancora di recente, mentre sostavo nel corridoio di un palazzo di Giustizia, con una decina di porte di altrettanti uffici giudiziari, mi chiedevo se non sarebbe stato più utile trovare appeso alle pareti questo saggio decalogo di Berri, piuttosto che ritagli di giornale con combattivi proclami sindacali. A questo proposito, mi permetto una parentesi sulla contrarietà, in linea di principio, del pieno diritto di sciopero dei giudici da parte di Berri (non tanto per limitarne la legittima facoltà, ma in nome della suprema urgenza del dovere di un magistrato).
Ecco le sue parole: “Tra la giustificata attesa di libertà personale dei detenuti (oltre ai grossi guai che possono verificarsi anche per il rinvio dei processi civili) e la soluzione dei gravi problemi dell’amministrazione della giustizia, io da 43 anni ho optato per la libertà di chi ha diritto di averla, rinunziando se era necessario a preferire la soluzione dei problemi strutturali dell’ordine giudiziario… Ancora oggi sono pronto a tenere udienza in piazza, se le aule giudiziarie crollano per incuria, purché degli uomini, in dolorante attesa di giustizia, rispettabili come tali, trovino dei giudici, che a prezzo di qualsiasi sacrificio, siano pensosi del loro destino (e una proposta di tal genere – udienza in piazza Cavour – avevo fatto per la Cassazione nel 1970, dopo l’improvvisa dichiarazione di inagibilità del Palazzo di Giustizia” (così in Fede nella giustizia, op. cit., pag. 55-56).
Tornando al “decalogo” – redatto nel 1982 in termini cristiani alla luce del Vangelo, ma che può valere anche per i giudici non credenti con poche modifiche indicate - ecco le parole del nostro Berri (in nome di una “deontologia del magistrato secondo gli ammaestramenti tratti dalla sua esperienza e dagli insegnamenti di maestri come Carnelutti e Calamandrei”).
Il timore di Dio (ovvero, Il pensiero dell’assoluto) è l’inizio della giustizia umana.
Coloro che attendono il tuo giudizio sono tuoi fratelli sofferenti.
Sii sollecito a definire ogni processo: l’attesa del giudizio è già una pena.
Sei fallibile: ascolta con attenzione, leggi con scrupolo tutte le carte processuali e dedica il massimo tempo alla parola sacra del difensore.
Sii intellettualmente umile, sereno, prudente, indifferente alla calunnia.
Non giudicare mai la responsabilità di fronte a Dio (ovvero, di fronte all’assoluto) di chi ti compare davanti.
La giustizia da te resa deve essere premessa della carità.
Chiedi quotidianamente la luce di Dio (ovvero, ascolta sempre la voce della coscienza).
Sia il tuo giudizio pervaso dalla sofferenza di dover accertare la verità valendoti di mezzi umani, perciò limitati.
Chiedi perdono a Dio degli errori in cui anche involontariamente sei incorso e domandagli di ricondurre a vera giustizia le tue decisioni (ovvero, abbi pronta la percezione degli errori in cui sei incorso e non impedire che le tue decisioni siano sempre ricondotte a vera giustizia da altri giudici o dagli eventi umani).
Che bello questo testo! Così semplice, profondo, aperto, saggio e pratico (ricordando che il diritto – dovendo tendere alla giustizia – è una scienza pratica, operativa, sociale, ma anche altamente etica e spirituale). Ne raccomanderei la lettura – e, soprattutto, la meditazione – non soltanto ai giudici ed agli operatori del diritto, ma a chiunque sia consapevole del fatto che tutti dobbiamo spesso “giudicare” – nel nostro ambito - cose e persone (io ho voluto citarlo espressamente nel mio volume Compendio di diritto pubblico, Sepel 2012, pag. 174, proprio per la ricchezza della sua sapienza umana e del suo rigore professionale).
Ripensando alla mia recente esperienza giudiziaria citata all’inizio, ho visto disattesi dal giudice in questione (seppur garbato e rispettoso), almeno il punto 2 (per il ritardo del giudice, nonostante avesse già terminato l’ impegno precedente); ed il punto 4, in quanto ci siamo perfettamente resi conto che non avesse nemmeno letto gli atti processuali (compreso una nostra memoria piuttosto articolata e ben motivata), limitandosi alla presa d’atto di un accordo tra le parti (mai guardate in faccia) avvenuto alcuni minuti prima (fortunosamente) nel grigio corridoio di attesa.
Mi colpisce sempre, poi, il versetto del profeta Daniele posto nella cappella cimiteriale di Berri: “coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre” (12,3). Non va dimenticato che la “giustizia” è una delle quattro virtù cardinali (che sono le virtù morali principali per una vita dedicata al bene, elencate anche nel Libro della Sapienza 8,7). D’altra parte la giustizia rende concreto e coerente lo stesso riferimento alle tre virtù teologali (Fede, Speranza, Carità). Infatti, “Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; non posso sopportare noviluni, sabati, assemblee sacre, delitto e solennità… Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso… Eccelso è il Signore poiché dimora lassù; egli riempie Sion di diritto e di giustizia” (Isaia 1,13 – 33,5). Di certo la giustizia umana è fallace e mai completamente risolutiva; tuttavia massimo deve essere l’impegno in tal senso.
Foto esclusiva in possesso dell'autore, che ritrae il magistrato Mario Berri (primo a destra), con moglie e alcuni amici
Interessante questa ricerca compiuta sulle sentenze nel Regno Unito: a 81 giudici è stato presentato un caso ipotetico con un’aggiunta significativa; a molti di loro venne presentato un caso da essi già giudicato in passato, cambiandone soltanto il nome e il sesso. Quasi nessuno emise la medesima sentenza! Oppure, secondo altra indagine, “la probabilità di ottenere la libertà su cauzione era maggiore subito dopo una pausa e minore prima che il giudice facesse uno spuntino” (Giovanni Cucci, Per un umanesimo digitale, in “La Civiltà Cattolica” n. 4069/2000). Da questo punto di vista potrebbe essere utile il ricorso alla informatica giuridica, per riuscire (grazie a programmi di Intelligenza artificiale) a costruire una sorta di banca dati per avere un’idea più chiara di come si è agito in passato in circostanze simili, arrivando così ad una sorta di “digesto elettronico”.
“Invero tutto è questione di limiti, dati dalla correttezza umana, dal rispetto della libertà, cioè dalla deontologia, che dovrebbe permeare ogni azione dell’uomo e che oggi sembra non aver più diritto di cittadinanza in svariati settori. E sì che i giureconsulti romani, nostri maestri, ammonivano sapientemente che non tutto ciò che è lecito – cioè non punito dalla legge – è onesto. Un popolo è tanto più democratico, quanto più sa autolimitarsi” (Fede nella giustizia, op. cit., pag. 30). Infatti, “Tutto mi è lecito! Ma non tutto giova” (1 Corinzi 6,12); a cui aggiungerei questa riflessione dello scrittore Pier Angelo Soldini: “puoi prendere quello che vuoi, ma ricordati che devi pagare” (Il cavallo di Caligola). Sicuramente è una questione di impegno e di tensione morale, ma anche di schietta vocazione al compito che dobbiamo svolgere.
A proposito di vocazione, resta per me memorabile la confessione che Berri mi fece molti anni fa: “io ero già magistrato nella pancia di mia mamma!”.