La rielezione di Kaïs Saïed nel 2024 — con una maggioranza schiacciante ma controversa (circa il 90,7% su un’affluenza minima, appena il 28,8%)1 — non ha modificato la rotta intrapresa dal 2021: sospensione del Parlamento, governo per decreto, controllo crescente sui media e sul pluralismo politico. Il progressivo accentramento dei poteri ha indebolito i contrappesi istituzionali, quei meccanismi che in una democrazia servono a prevenire la deriva autoritaria. In un sistema sano:
il Parlamento legifera, ma il Presidente può porre il veto;
il Presidente nomina i giudici, ma il Senato li approva;
i tribunali possono dichiarare incostituzionali le leggi del Parlamento.
In Tunisia, questo equilibrio si è spezzato: un solo potere prevale sugli altri, riducendo lo spazio di responsabilità reciproca.
La società civile — ONG, giornalisti, attivisti — affronta sospensioni, intimidazioni e arresti. Molti politici dell’opposizione sono detenuti, alcuni in sciopero della fame, mentre si moltiplicano le denunce di “detenzione arbitraria”. La repressione del dissenso e il controllo dell’informazione generano paura, silenzio e paralisi sociale.2
Il rischio è evidente: la Tunisia scivola verso un modello sempre più autoritario, con istituzioni indebolite e spazi democratici compressi. Non è la Tunisia che ricordavo: quella che, pur senza una democrazia compiuta, garantiva maggiore libertà civile e religiosa, attirava investimenti e offriva condizioni di vita migliori. Si sperava in un passo avanti; il percorso si è invece bruscamente interrotto.
Aspetti sociali e demografici
La Tunisia affronta un rapido invecchiamento demografico, tra i più accentuati del Nord Africa: la popolazione anziana cresce mentre quella in età lavorativa diminuisce. Questo squilibrio grava su:
previdenza sociale,
sanità,
welfare,
sistema pensionistico, ormai sempre più insostenibile.
I giovani, risorsa vitale per il futuro, sono spesso esclusi: disoccupazione elevata, precarietà diffusa, fuga verso l’estero o rifugio nell’economia informale.
Le disuguaglianze regionali restano profonde: le aree interne e periferiche sono molto più vulnerabili rispetto alle zone costiere più sviluppate. Il risultato è un Paese frammentato, con territori che avanzano e altri che arretrano3.
Questo insieme di dinamiche crea un cocktail di fragilità: salari stagnanti, insicurezza economica, perdita di fiducia e rischio di tensioni sociali.
Problemi ambientali e tensioni sociali
Alla crisi sociale si aggiunge l’impatto ambientale. L’inquinamento — come nel caso della regione di Gabès, dove decine di persone sono finite in ospedale per inalazioni tossiche — alimenta proteste, rabbia e diffidenza verso le istituzioni.
A ciò si sommano:
siccità crescente,
crisi idrica cronica,
degrado degli ecosistemi,
difficoltà dell’agricoltura.
Il cambiamento climatico è ormai una minaccia diretta alla stabilità economica e alla qualità della vita4.
Uno scenario a medio termine sempre più complesso
Dalla combinazione di questi fattori emergono rischi concreti:
crollo del sistema di welfare, aggravato dall’invecchiamento e dalla crisi economica;
migrazione crescente di giovani e professionisti, con perdita di capitale umano;
instabilità politica dovuta alla mancanza di libertà e di contrappesi istituzionali;
vulnerabilità economica agli shock esterni (turismo, clima, mercati globali);
frammentazione sociale legata a disuguaglianze generazionali e territoriali.
La Tunisia è entrata in una fase in cui basta poco per far precipitare tensioni latenti in proteste improvvise o crisi inattese.
Una nazione sospesa tra debole speranza e forte declino
Oggi la Tunisia è in bilico. Da un lato si intravedono segnali — ancora timidi — di ripresa economica; dall’altro pesano crisi strutturali, declino demografico, repressione politica e fragilità istituzionale.
Il futuro dipenderà da variabili estremamente delicate:
riforme economiche autentiche,
riapertura degli spazi civici e politici,
investimenti sostenibili,
una nuova generazione che scelga di non partire, ma di restare e costruire.
Il problema è evidente: se il potere resta concentrato, se la società civile rimane soffocata e se le opportunità continuano a essere privilegio per pochi, la ripresa sarà fragile e facilmente reversibile. La Tunisia non è ancora condannata, ma non è nemmeno al sicuro.
Serve consapevolezza, coraggio, visione collettiva.
La detenzione di Abir Moussi: può diventare la scintilla di una rivolta?
Abir Moussi — avvocata, leader del Partito Desturiano Libero (PDL) e figura di spicco dell’opposizione laica e anti-islamista — è oggi uno dei simboli più evidenti della deriva autoritaria tunisina post-2011.
Parlamentare fino alla sospensione del governo nel 2021, Moussi è stata una ferma oppositrice dell’islam politico e della Costituzione del 2014, sostenendo il ritorno a un sistema presidenziale forte. Sempre molto presente nel dibattito pubblico, è in carcere dal 3 ottobre 2023, arrestata davanti al palazzo presidenziale mentre tentava di depositare un ricorso contro alcuni decreti del presidente Saïed. Vari procedimenti giudiziari l’hanno poi colpita, compresi quelli legati alle sue critiche all’autorità elettorale: per Amnesty, HRW, ONU e altre organizzazioni, la sua detenzione è arbitraria e politicamente motivata.
La sua popolarità resta elevata: a gennaio 2025 centinaia di persone sono scese in piazza a Tunisi per chiederne la liberazione. Non è l’unica figura repressa dall’attuale regime, ma non è neppure marginale: rappresenta un segmento importante dell’opinione pubblica urbana e politicamente attiva.
Potrebbe la sua detenzione scatenare una rivolta?
Le probabilità di una rivolta aumenterebbero qualora Moussi divenisse un simbolo nazionale della libertà negata. Le condizioni ci sono: molti percepiscono il suo caso come un esempio lampante dell’uso politico della giustizia. Basterebbe un evento “forte” — una nuova condanna severa, uno sciopero della fame, la pubblicazione di un video sul suo trattamento in carcere — per trasformarla in un catalizzatore delle frustrazioni politiche e sociali.
Un’ondata di protesta più ampia potrebbe nascere se il suo nome mobilitasse attori diversi: sindacati, società civile, studenti, giornalisti perseguitati tramite il Decreto 545 , famiglie di detenuti politici. In questo scenario, Moussi diventerebbe un simbolo trasversale della repressione e non soltanto la leader di un partito.
La crisi economica aggiunge ulteriore combustibile: rincari, disoccupazione crescente, blocco salariale, scioperi come quello recente nel settore privato a Sfax. In un tale contesto, la sua figura potrebbe offrire il “volto politico” a una rabbia profondamente economica.
Anche senza una rivolta improvvisa, la sua detenzione continua a minare la credibilità interna ed esterna del regime: rapporti ONU, HRW, Amnesty, CPJ e pressioni dell’UE e di organismi multilaterali aumentano, mentre sul fronte interno crescono malcontento e sfiducia. La vicenda Moussi è ormai un indicatore globale della progressiva erosione dello Stato di diritto tunisino.
Abir Moussi è una politica e avvocata tunisina, leader del Partito destouriano libero (PDL) e figura chiave dell’opposizione: nota per la sua ferma opposizione all’influenza dell’islam politico nella vita pubblica e per la difesa di un modello di Stato laico e civile.
Il silenzio degli imprenditori: prudenza o rassegnazione?
Un’altra domanda cruciale riguarda il ruolo della classe imprenditoriale tunisina. In ogni Paese che scivola verso l’autoritarismo, la reazione del mondo produttivo — imprenditori, commercianti, professionisti, associazioni di categoria — è uno dei fattori decisivi per capire se esiste un margine concreto per un ritorno alla democrazia.
In Tunisia, però, gli imprenditori tacciono. Le ragioni sono comprensibili: prendere posizione potrebbe significare esporsi a controlli fiscali mirati, blocchi amministrativi, problemi con licenze e import/export, o persino rischi personali. Da qui deriva il diffuso atteggiamento del “meglio non esporsi”.
Tuttavia, sotto questo silenzio prudente, nelle conversazioni private prevalgono preoccupazione, sfiducia e incertezza. Molti ritengono che “parlare non serve” o che “parlare è pericoloso”, e questo contribuisce a consolidare l’attuale sistema.
Un fatto, però, rimane: la società tunisina non può aspettarsi interventi salvifici dall’Europa, dall’Unione Africana o dagli investitori esteri se non offre segnali interni chiari di cambiamento. Per questo motivo, ci si augura che il silenzio del mondo produttivo sia solo temporaneo.
Tunisia: è il silenzio che precede il risveglio?
Oggi in Tunisia il silenzio pesa più delle parole. Nei caffè dove un tempo il dibattito politico era vivace, nelle strade e perfino negli uffici, domina un clima sospeso. Le persone parlano poco e con cautela, ma sotto questa apparente quiete circola un’inquietudine crescente.
Gli imprenditori — protagonisti della modernizzazione economica e sostenitori della crescita di una classe media istruita — oggi ripetono frasi di prudenza: «Il governo sta ripulendo il Paese dai ladri», «Chi è onesto non ha nulla da temere». Ma basta un momento lontano da sguardi indiscreti per capire che quella sicurezza è fragile. La paura, e ancor più la preoccupazione, sono reali.
La Tunisia vive una compressione sistematica dei diritti: libertà di parola e pluralismo politico sono sotto attacco, e decine di oppositori — non solo Abir Moussi — restano in carcere. Ma la storia recente del Paese insegna che la privazione della libertà non può diventare permanente, non in una nazione che ha già assaporato il valore della democrazia e della mobilitazione civile.
È già accaduto: nella storia tunisina, la spinta per il cambiamento è spesso partita proprio da quella fascia sociale che oggi sembra più timorosa. E accadrà di nuovo. Perché la Tunisia possiede un patrimonio che nessun decreto può cancellare: una generazione che ha conosciuto la libertà e non può dimenticarla.
Quando il costo del silenzio diventerà insostenibile — e quel momento si avvicina — emergerà un nuovo fronte di responsabilità: politico, sociale, culturale, imprenditoriale. Una pressione non necessariamente esplosiva come nel 2011, ma sufficiente a riallineare il Paese ai suoi valori più profondi: apertura, partecipazione, dignità della persona.
Tunisia: il boom turistico è un’illusione pericolosa
Il record di oltre 10 milioni di turisti nel 2024 sembra raccontare una Tunisia in piena rinascita. Ma dietro le spiagge affollate e i resort del Mediterraneo si nasconde una realtà ben diversa: democrazia sospesa, economia fragile e tensioni sociali latenti.
Il turismo cresce grazie a prezzi competitivi e a una stabilità solo apparente. Una stabilità di facciata, frutto di repressione politica e non di consenso, mentre il malcontento ribolle sotto la superficie.
Le entrate turistiche — circa 2,3 miliardi di dollari nel 2024 — non bastano a risolvere la crisi economica né a creare occupazione stabile. La Tunisia dipende da mercati vulnerabili come Algeria e Libia e, senza riforme strutturali, il settore rischia di trasformarsi in una bolla congiunturale.
Il turismo rappresenta circa il 9% del PIL, ma non compensa il declino industriale e agricolo. Se la tensione sociale esplodesse, il “miracolo turistico” potrebbe svanire in un attimo.
Agli stranieri che vivono bene in Tunisia: un invito alla consapevolezza
Molti stranieri hanno scelto la Tunisia come nuova casa. Per alcuni è un rifugio economico: una pensione occidentale qui garantisce una vita serena, servizi accessibili, un clima mite, un’accoglienza generosa.
Per altri è un luogo che offre tranquillità e un senso di sicurezza personale, spesso percepito come superiore a quello del proprio Paese d’origine. Tutto questo è vero. È reale. E nessuno vuole negarlo. Ma esiste un’altra verità, che chi vive in Tunisia da privilegiato rischia di non vedere — o di vedere solo da lontano.
Se è vero che gli stranieri non sono minacciati nei loro diritti, è altrettanto vero che molti cittadini tunisini non vivono la stessa condizione: oppositori politici incarcerati, giornalisti intimiditi, avvocati sotto pressione, imprenditori che tacciono per paura, giovani disillusi che cercano altrove ciò che sentono negato nel proprio Paese.
Quando uno straniero dice: «Qui va tutto bene, è un Paese tranquillo», rischia — senza volerlo — di rafforzare la narrazione ufficiale che legittima e normalizza la repressione, contribuendo così a consolidare un regime autoritario.
E questo atteggiamento, oggi accettato e persino ben visto, domani potrebbe ritorcersi contro di loro. Perché quando un Paese resta a lungo sottoposto a repressione, crisi economica e ingiustizie, la frustrazione accumulata non resta sepolta. Le stesse condizioni che oggi permettono agli stranieri di vivere in tranquillità potrebbero trasformarsi in tensioni sociali, proteste o instabilità che coinvolgono tutti — anche chi fino a ieri era protetto dal privilegio della pensione straniera.
Non si tratta di sentirsi in colpa.
Non si tratta di rinunciare alla serenità conquistata.
Si tratta di essere consapevoli. Di capire che la pace personale non può basarsi sulla scomparsa dei diritti degli altri.
E, quando possibile, dare voce — con discrezione e rispetto — a ciò che molti tunisini non possono più dire apertamente.
La Tunisia non ha bisogno che gli stranieri la condannino. Ha bisogno che la comprendano. Che vedano la bellezza che li ha attratti in quel meraviglioso Paese, ma anche le difficoltà che la sua gente sta vivendo.
Solo così la comunità internazionale, vicina e lontana, potrà percepire la realtà di un Paese che merita di rialzarsi. E solo così la tranquillità personale degli stranieri potrà restare sicura anche domani.
Anche l’animo del potere può ritrovare la pace
In Tunisia, oggi, la concentrazione del potere nelle mani del presidente non è più una teoria politica, ma una realtà visibile in ogni legge, in ogni arresto, in ogni limitazione della libertà di espressione. Oppositori incarcerati, giornalisti intimiditi, imprenditori ridotti al silenzio per paura: la situazione potrebbe sembrare priva di via d’uscita.
Eppure, la storia insegna che anche nei momenti più oscuri esiste sempre uno spazio — piccolo, fragile, nascosto — dove possono riaffiorare la ragione, la coscienza e, perché no, la volontà di pace. Noi, che ci impegniamo per la pace, sappiamo che questa possibilità non è ingenua né astratta. È concreta, anche quando appare impossibile. Deve essere coltivata e ricordata come principio guida del nostro lavoro: anche nell’animo di chi oggi sembra irremovibile, anche in chi esercita il potere in maniera assoluta e autoritaria, può esistere un frammento di umanità capace di riemergere.
Il presidente tunisino, con la sua centralizzazione del potere e la repressione del dissenso, rappresenta un caso estremo di come il potere possa oscurare la ragione e comprimere la libertà. Ma proprio per questo dobbiamo mantenere ferma la convinzione che nessun essere umano è completamente privo di capacità di cambiamento, nemmeno chi guida uno Stato con pugno di ferro.
La storia è piena di esempi in cui leader inizialmente autoritari, travolti da ambizioni personali e logiche di dominio, hanno saputo ritrovare un briciolo di equilibrio, di rispetto dei diritti, di apertura al dialogo. Non si tratta di cedere all’ottimismo ingenuo, ma di saper vedere la luce anche nei luoghi più oscuri, di coltivare la speranza che la pace possa insinuarsi là dove oggi prevalgono paura, controllo e arbitrio.
Questa speranza è essenziale: senza di essa la società civile rischia di rassegnarsi e le ingiustizie diventano “normalità”. Con la speranza, invece, anche nei cuori più chiusi si apre la possibilità di un cambiamento, lento e doloroso, ma possibile.
In altre parole: anche l’animo di un dittatore non è completamente privo di possibilità di redenzione. Gli operatori di pace devono consolidare il ruolo di osservatori consapevoli, prodigarsi per mantenere viva questa possibilità e ricordare che la pace non è un privilegio, ma una capacità intrinseca dell’essere umano, anche quando è nascosta sotto la paura, l’ambizione o la violenza politica.
La Tunisia non ha perso la speranza. Non la perderanno coloro che continuano a credere nella dignità, nella giustizia, nel dialogo. E non la perderanno nemmeno coloro che detengono oggi il potere, perché la storia insegna che anche il cuore più chiuso può, alla fine, ascoltare la voce della ragione e della pace.
Considerazioni finali
Tunisia: la speranza in un tempo di silenzio e potere assoluto
La Tunisia vive oggi un tempo di silenzio che pesa più delle parole: arresti arbitrari, giornalisti intimiditi, oppositori incarcerati, imprenditori ridotti al silenzio. L’autoritarismo non è più un’ombra, ma una realtà visibile in ogni legge e in ogni limitazione della libertà.
Eppure, la speranza non è ingenua né astratta. È la consapevolezza che ogni essere umano conserva una scintilla di ragione e di coscienza, capace di riemergere anche nell’oscurità. Perfino chi concentra il potere e reprime il dissenso non è del tutto privo di possibilità di cambiamento.
Chi governa deve sapere che il mantenimento di questo equilibrio artificiale ha un prezzo alto. La storia lo dimostra: leader autoritari hanno saputo ritrovare equilibrio, rispetto dei diritti e apertura al dialogo.
Il nostro compito, come operatori di pace, persone consapevoli e osservatori attenti, è mantenere viva questa possibilità. Non possiamo accettare che la repressione diventi “normalità”.
La pace non è un privilegio, ma una capacità intrinseca dell’essere umano, che può emergere anche nei luoghi più inattesi: nell’animo di un oppresso, nella coscienza di chi tace per paura, persino nel cuore di un leader implacabile.
La Tunisia ci ricorda che nessun potere può spegnere definitivamente la dignità e la ricerca di giustizia di un popolo. Ma il silenzio prolungato è pericoloso: ogni giorno di libertà compressa aumenta il rischio di una rottura improvvisa. La lezione è semplice e universale: non si può comprimere la dignità e la libertà senza conseguenze, e la storia insegna che i grandi mutamenti non si annunciano: esplodono, travolgendo chi pensava di controllare tutto.
La speranza, dunque, va coltivata con coraggio e lucidità. È il filo invisibile che collega l’oggi incerto al domani possibile. E in Tunisia, quel filo non si è mai spezzato.
Note
1 Uno sguardo sulle presidenziali tunisime del 2024.
2 Tunisian court suspends prominent human rights groups as crackdown progresses.
3 Situazione socio-culturale e economica in Tunisia a inizio 2025: Socio-cultural and economic situation in Tunisia.
4 Tunisia’s Climate Crisis, Economic Downturn, and Growing Dependency on Algeria.
5 Il Decreto 54 è oggi il pilastro giuridico della repressione in Tunisia:
un testo che, dietro la lotta alla disinformazione, permette di mettere a tacere critiche, oppositori e giornalisti, con un effetto paralizzante sul dibattito pubblico, sulla stampa e sulle libertà fondamentali.















