Per quale motivo molti di noi provano il bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di un gruppo, di una comunità? È forse una necessità, un’esigenza dettata dal non sentirsi soli o che altro?

A quanto pare da sempre l’essere umano si è riunito in gruppi che poi hanno dato vita ai villaggi, alle città fino ad arrivare al moderno concetto di nazione e, ancora oltre, a organizzazioni sovranazionali. Certo, ognuna di queste modalità di convivenza nasce con motivazioni diverse: inizialmente ci riunivamo in branchi per sopravvivere in un mondo dove rischiavamo di essere mangiati; poi in piccoli gruppi o villaggi per assicurarci cibo e protezione; in seguito, abbiamo formato le città… beh, sostanzialmente per lo stesso motivo.

E a ben pensarci, anche le nazioni si sono costituite fondamentalmente per proteggere i propri cittadini dagli invasori e fare in modo che si procurassero il necessario per vivere. A parte gli evidenti scopi speculativi di molte attività sovranazionali come le multinazionali, anche queste entità proteggono i loro-nostri mercati da quelli di potenziali invasori che potrebbero portarci via il lavoro e, conseguentemente, mettere a rischio il nostro confortevole stile di vita.

Se queste considerazioni sottendono un minimo di verità allora potremmo dire che le ragioni fondamentali del nostro bisogno di unità sono il sentirci protetti e assicurarci il sostentamento. Ma non voglio essere sempre così cinico. È anche vero che con il passare dei secoli l’umano ha sentito il bisogno di creare gruppi che avessero scopi e obiettivi altri dalla mera sopravvivenza, come associazioni culturali, sportive, religiose, spirituali, sindacali, politiche e di tantissime altre fogge. È vero, l’uomo non di solo pane si nutre ed è altrettanto vero che, nel momento in cui si è in tanti a perseguire un obiettivo comune, la forza e la convinzione nel farlo si moltiplicano esponenzialmente.

Inoltre, oggigiorno, si aggiunge il senso di estraneità che alcuni di noi provano nei confronti dell’attuale società. In molti non si sentono a loro agio in questo mondo dove profitto e competizione sono gli stimoli imperanti, dove ancora si pensa che la guerra sia l’unico modo (o forse il più conveniente) per risolvere problematiche che ci trasciniamo da secoli, dove stiamo rendendo questo pianeta per noi invivibile, dove grazie alle nostre attività produttive-estrattive stiamo sconvolgendo il clima ed estinguendo centinaia di forme di vita, dove la fiducia nelle istituzioni è ai minimi termini, data la loro incapacità di rapportarsi con i bisogni reali.

In poche parole, la realtà che ci circonda non è quella in cui avremmo voluto vivere e far crescere i nostri figli. Ma questo è un déjà-vu. Negli anni ’60 e ’70 sono sorte diverse comunità formate da persone che mal si adattavano a una società che, già allora, mostrava la corda. Comunità che aspiravano a un’autosufficienza soprattutto alimentare, dove il cibo veniva coltivato e prodotto in modo naturale (allora non si parlava ancora di biologico) e, addirittura, a un’autosufficienza totale, dove oltre al cibo si produceva tutto quanto servisse alla sopravvivenza, dai vestiti, alle abitazioni e dove l’informazione era autogestita. Comunità di tipo mistico-religioso, generalmente fondate da un “capo spirituale”, la maggior parte delle quali si basava su donazioni; comunità di tipo terapeutico, come le comunità di recupero e tante altre.

Oggi questo desiderio, questa voglia, questa necessità, sta vivendo una seconda giovinezza o forse terza o anche quarta. Sta di fatto che sempre più frequentemente vengo in contatto con persone che vogliono dar vita a comunità con diverse finalità, ma che partono tutte dallo stesso stimolo: non riconoscersi in questa società.

Non sono un esperto di quelli che vengono definiti “social” e quindi non posso sapere se anche i frequentatori di tali ambienti virtuali sono motivati dallo stesso stimolo di cui sopra, ma sta di fatto che basta scaricare un’applicazione per trovarsi membro di una “community” (in italiano non abbiamo una parola per “comunità”?). Anzi, a ben pensarci sono sicuro che chi passa la sua giornata su queste piattaforme si riconosce perfettamente in questa società, visto che questi strumenti sono il suo prodotto più avanzato e sofisticato.

Chi per un motivo, chi per un altro sembrerebbe che abbiamo tutti bisogno di sentirci parte di qualcosa di più grande di noi. Potremmo forse dire che questo desiderio prende forma non da una necessità, ma da una realtà inespressa, dimenticata come il fatto che tutto è uno, come ci dicono filosofie millenarie, ma anche la fisica quantistica? Può darsi e, a dire il vero, me lo auguro. Ma tutto è uno non vuol dire che dobbiamo vivere tutti in comunità. Similitudini come “siamo particelle che compongono un organismo molto più vasto, complesso e articolato”, o “siamo gocce che compongono un oceano”, o “siamo parti di un meccanismo molto più grande” a mio avviso generano confusione, perché la realtà, ammesso che ne esista una e univoca, potrebbe essere ancora più articolata. In questa possibile realtà gli esseri umani non sono esattamente paragonabili ai singoli elementi di un meccanismo.

Gli umani e, forse, non solo loro, non solo fanno parte di un vasto sistema, ma dispongono della capacità di scegliere e di decidere: il libero arbitrio. Al contrario le gocce, gli ingranaggi o le particelle sono quello che sono perché non possono fare altro. Questo significa che è vero che tutto è uno ed è probabilmente vero che il nostro scopo nella vita – o almeno uno degli scopi –è di evolverci, a mio modo di vedere soprattutto spiritualmente, ma ognuno di noi lo può fare scegliendo la sua strada, alla sua maniera.

Casualmente, proprio mentre scrivevo questo articolo, mi sono imbattuto in una frase di Sri Aurobindo che così recita:” […] l’individuo […] acquista la libertà di evolversi, senza dubbio, secondo la legge generale della Natura e quella del suo tipo, ma anche secondo la legge individuale del suo essere.”1

Certo, come dicevo prima, l’unione fa la forza e far parte di un gruppo ci stimola maggiormente a perseguire un obiettivo, ci rende tutto più facile. Ma ho paura che questa facilità ci impedisca di essere più seri e severi con noi stessi. Far parte di una comunità significa apportare conoscenza al gruppo stesso, condividere il proprio conosciuto, confrontarlo con gli altri e contribuire allo sviluppo della comunità stessa arricchendo, così, il suo sapere. Al contrario, entrare in un gruppo senza un proprio bagaglio culturale ed esperienziale non apporta alcun beneficio alla società, ma rende solo più facile il percorso opportunistico dell’individuo.

Questa è la modalità con cui funzionano la maggior parte delle organizzazioni di vario stampo, siano esse politiche, sociali, culturali, professionali o altro. E questo lo si vede nella qualità del contributo che tali comunità riversano nella società intera, con politici che non sono all’altezza del ruolo che rivestono, istituzioni che badano solo a ricavare un profitto proprio, economico e di potere e non erogano i servizi a cui sono, invece, preposte. Ordini professionali che mirano solo alla tutela propria, neanche dei propri iscritti e via di seguito. Oggi molti entrano in tali comunità con il solo scopo di fare carriera, in modo da occupare posti di potere e ottenere una remunerazione soddisfacente, ma non apportano nulla al bagaglio culturale del proprio gruppo né, tantomeno, ai bisogni della società tutta.

Senza arrivare agli estremi degli eremiti, penso che prima di far parte di gruppi e comunità dovremmo non solo aver ben chiaro in mente cosa vogliamo, qual è la nostra meta, ma anche averci già lavorato sopra, averci speso del tempo, per dirla alla Gurdjieff dobbiamo esserci tuffati nelle galosce del profeta.

Anch’io molti anni fa ho fatto parte per alcuni anni di una comunità spirituale e il suo fondatore e maestro insisteva sul fatto che nessuno gli ponesse domande solo per banale curiosità, ma per una reale esigenza di conoscenza e solo dopo aver esaminato, da solo, l’eventuale problema e non essere arrivato a conclusione alcuna. Ecco, allo stesso modo, credo che, per un individuo, sia auspicabile e, forse, necessario far parte di una comunità, ma solo dopo aver dato tutto sé stesso nella ricerca del sé più profondo, dopo aver scandagliato la serietà delle sue convinzioni, dopo aver “sentito” la verità di quello che cerca.

In questo modo potrebbe essere davvero d’aiuto per gli altri e per continuare la propria evoluzione assieme agli altri, perché questo significa far parte di una comunità, aiutarsi e aiutare gli altri in una evoluzione, che sia in campo spirituale, politico, religioso, sociale o altro.

Non farsi trainare.

Note

1 Sri Aurobindo, Il ciclo umano, Edizioni Arka Milano, 1985, pag. 69.