Un convegno lungo tre giorni, Illuminare le periferie, organizzato a Firenze da COSPE-Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti con il sostegno della FCR Firenze nell’ambito del programma dell’Estate Fiorentina 2025, si è articolato in 3 parti: “Il presente e il futuro della cooperazione internazionale” (il 4 e 5 settembre), “Il mestiere di giornalista nel raccontare il mondo, soprattutto quando il mondo è in fiamme” (il 6 settembre) e, la stessa sera, “La musica, lingua universale che unisce e ci fa sperare in un futuro comune di pace”.

COSPE nasce nel 1983 come associazione di cooperazione internazionale, laica e senza fini di lucro. Opera in 24 paesi a fianco della società civile e delle comunità locali, impegnate per la giustizia sociale e la pace, sostenendo in particolare gruppi emarginati e discriminati nelle loro richieste di inclusione sociale, diritti umani e democrazia. Da oltre quarant'anni i collaboratori del COSPE, oltre trecento persone in tutto il pianeta, sono insieme alle comunità che lottano per un mondo più giusto, solidale e libero. Un piccolo gruppo di questi cooperanti si è ritrovato a Firenze per confrontarsi sulla necessità di un nuovo modo di operare e per mettere a punto una pianificazione strategica sempre più capace di intrecciare professionalità e passione civile.

In scenari politici e sociali che mutano sempre più velocemente: cambiamenti climatici, nuove economie, diritti umani, femminismo intersezionale, decolonizzazione, intergenerazionalità, giustizia e democrazia – dice la presidente di COSPE Anna Meli – attorno a questi temi intendiamo lavorare e costruire dei piani di lavoro concreti che, insieme alle associazioni locali dei 24 paesi in cui lavoriamo, permetteranno di arrivare al cambiamento.

Il 6 settembre il convegno si è rivolto all’informazione, trattando il tema “Gli esteri nei TG Italiani. Speciale su Gaza e riflessioni deontologiche per il giornalismo italiano”.

Report COSPE 2025

Sull’argomento sono stati presentati i risultati dell’ultimo report di COSPE su un arco temporale fra gennaio 2024 e giugno 2025. In esso sono state, in particolare, approfondite la qualità e l’equilibrio della rappresentazione del Sud Globale (Africa, America Latina, Medio Oriente e Asia). Ecco parti della panoramica ottenuta, frutto del lavoro di Giuseppe Milazzo, ricercatore dell’Osservatorio di Pavia, con la collaborazione di Paola Barretta, ricercatrice dell’Osservatorio di Pavia e Donata Columbro, giornalista, formatrice e scrittrice.

Nel 2024/25, le notizie internazionali hanno riguardato principalmente la Politica (29%), le Guerre e i Conflitti (26%), le soft news (21%), la Cronaca (20%), l’Immigrazione (2%) e il Terrorismo (2%). Le hard news (politica, guerre e conflitti, immigrazione, terrorismo) hanno rappresentato il 59% della copertura, contro il 41% delle soft news (cronaca, curiosità, sport, spettacolo).

L’andamento delle hard news internazionali nei telegiornali mostra una crescita tendenziale con alcune specificità: tra il 2015 e il 2017, prevalgono le notizie sul terrorismo in Europa; dal 2015 al 2019, l’attenzione si concentra sull’immigrazione; nel biennio 2020-2021 domina l’emergenza pandemica; nel 2022 aumentando le notizie di Politica e Guerre/Conflitti, legate all’invasione russa dell’Ucraina; nel 2023 la struttura tematica resta simile, con un nuovo focus sull’immigrazione; nel 2024 cresce di nuovo la voce Guerre/Conflitti, trainata dalla guerra a Gaza.

Nella copertura estera dei telegiornali di prima serata, gli Stati Uniti sono al primo posto, seguiti da Medio Oriente, Francia, Europa, Ucraina, Gran Bretagna, Città del Vaticano, Russia, Israele e Germania. Questi dieci paesi o regioni rappresentano il 75,5% dello spazio dedicato alle notizie estere, mentre tra di essi non compare alcun paese africano o del Centro-Sud America. I nove Paesi dell’Africa subsahariana considerati prioritari per la Cooperazione italiana (Burkina Faso, Senegal, Niger, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan e Mozambico) hanno ricevuto 46 notizie nei telegiornali nel 2024/25, con un calo netto rispetto alle 180 notizie del 2023 (-74%). Gran parte di questi Paesi resta poco visibile, con una copertura mediatica sporadica.

La guerra a Gaza, con le sue declinazioni regionali, è l’evento internazionale con la copertura più intensa degli ultimi anni. Dal 7 ottobre 2023, data dell’attentato di Hamas in Israele, fino ad aprile 2025, i sette telegiornali di prima serata di Rai, Mediaset e La7 hanno trasmesso 5.750 notizie sul conflitto, includendo anche le escalation in Libano, Yemen, Iran, oltre che in Israele, Gaza e Cisgiordania.

Nei cinque mesi analizzati, la striscia pomeridiana Tagadà su La7 ha dedicato 832 minuti alla guerra a Gaza, risultando il programma più focalizzato sul tema nel campione. Sempre su La7, altri programmi hanno dato ampio spazio al conflitto: L’aria che tira (344 minuti), Omnibus (323), Otto e mezzo (154), Piazza pulita (122) e altri. Rai offre il maggior numero di programmi informativi, mentre Mediaset concentra la sua offerta soprattutto su Rete 4. Per La Nove è stato analizzato solo il programma settimanale Che tempo che fa.

Nel primo semestre 2025 il termine “genocidio” è stato usato 137 volte nei telegiornali di prima serata, con picchi a gennaio (34 citazioni, legate alla Giornata della Memoria e al dibattito su Gaza), a maggio (29, durante la missione Pd-M5S a Rafah e la mozione parlamentare) e soprattutto a giugno (68, in coincidenza con le mobilitazioni contro la guerra). Il termine non è mai stato impiegato direttamente dai giornalisti, ma riportato nelle dichiarazioni di politici, associazioni e manifestanti.

Chi parla del mondo nei nostri Tg?

Un focus specifico è stato poi dedicato all’analisi della narrazione del conflitto israelo-palestinese, con particolare attenzione a Gaza, con l’aiuto degli ospiti (alcuni presenti, altri da remoto): Nello Scavo (Avvenire), Barbara Serra (Sky News), Giammarco Sicuro (Rai), Safwat Kahlout (Al Jazeera Gaza), Luciana Borsatti (analista e giornalista Huffington Post), Giuseppe Giulietti (Articolo 21).

Giammarco Sicuro fa capire che il buon lavoro degli inviati di guerra può essere annullato dalle decisioni di Redazione, in luoghi tranquilli dove non si immagina lo sprezzo per il pericolo con cui sono fatti i servizi, pur di raccontare quello che realmente succede sul campo.

Safwat Kahlout, uno dei pochi giornalisti palestinesi ancora vivi, lamenta che i fatti in Italia non vengano descritti nei dettagli. Dal pubblico gli fanno notare che il film palestinese No other land, che descrive come i coloni israeliani si impossessino “legalmente” delle terre dei palestinesi, distruggendo le loro case, non solo circola nei cinema, ma è stato premiato con un Oscar. E lì le immagini danno un’idea chiarissima dei soprusi perpetrati dall’esercito israeliano ben prima del 7 ottobre contro civili inermi.

Un'attivista del pubblico è intervenuta per suggerire che il giornalismo non dovrebbe agire con divisioni nette fra notizie interne ed estere. Suggerimento che richiede che i giornalisti descrivano le relazioni fra i diversi paesi.

Significati della ricerca

È chiaro che la ricerca COSPE, oltre a fornire le percentuali degli argomenti trattati e della loro frequenza, ha raccolto anche informazioni su come i fatti sono stati raccontati.

Per quello che riguarda la guerra Israelo-palestinese, e in particolare il territorio di Gaza, il report afferma:

  • il racconto televisivo del conflitto è affidato in larga parte a giornalisti e cronisti (51% del tempo), seguiti da esperti di geopolitica e analisti internazionali (20%) e da rappresentanti del mondo politico (13%);

  • chi sta in guerra non racconta la guerra. Mancano infatti i testimoni diretti: ci sono persino ospiti dal mondo dell’arte e della cultura, prima di trovare qualcuno delle Nazioni Unite o delle organizzazioni non governative;

  • il rischio è che il dibattito finisca per girare su se stesso: giornalisti che commentano altri giornalisti - che però non sono entrati nella striscia negli ultimi anni -, analisti italiani che interpretano un conflitto lontano attraverso le lenti del nostro dibattito interno, e voci istituzionali che spesso riflettono l’agenda geopolitica occidentale;

  • la guerra a Gaza è stata raccontata, ma non ascoltata, almeno così sembrano mostrare i dati. È entrata nei telegiornali, nei talk show e nei programmi di approfondimento, ma senza le voci di chi quella guerra la vive. Le telecamere si sono fermate ai confini. Questa rappresentazione parziale non è neutra. Nell’assenza di voci dirette si nasconde forse la distorsione più pericolosa di tutte: quella di credere di essere stati informati.

Come andrebbe descritta la guerra.

Il report del COSPE termina confrontando altre fonti di notizie.

Israele per mesi e mesi ha parlato della strage del 7 ottobre, citando solo le sue vittime. Ma il Ministero della salute palestinese puntualmente registrava le vittime palestinesi del conflitto, che da sempre sono chiamate ufficialmente “martiri” (dell’occupazione israeliana). Quei numeri forniscono anche un immediato senso di sproporzione e orrore rispetto al modo in cui Israele ha deciso di rispondere all’attacco di Hamas del 7 ottobre. Non si può ignorare il modo in cui è stata condotta questa guerra, che perfino il quotidiano israeliano Haaretz ha iniziato a chiamare pulizia etnica e che sempre un maggior numero di studiosi ed enti di ricerca non hanno esitato a definire un vero e proprio genocidio.

L’agenzia di stampa internazionale britannica Reuters, prima di mostrare veri e propri grafici, ci offre il contesto, a partire dal 1948 con la creazione dei due stati e poi nel 1967 con la guerra dei Sei giorni. Le visualizzazioni dei dati delle vittime sia palestinesi che israeliane cominciano dal 2005, e la fonte delle statistiche è l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

Secondo Mona Chalabi, data journalist che nel 2023 ha vinto il Pulitzer per il suo lavoro, il New York Times ha sempre parlato di morti israeliane più spesso rispetto alle morti palestinesi, C’è stata pure un’enorme differenza nel linguaggio usato. In un lavoro del 2024 per il Guardian, Chalabi ha rappresentato i 2,2 milioni di palestinesi di Gaza come se fossero “cento persone”. È un modo molto semplice, ma efficace di rappresentare l’impatto della guerra di Israele, aiutando lettori e lettrici a capirne le proporzioni. Nel pezzo ci sono animazioni e disegni, e una cura molto attenta alle ultime cifre - vecchie di un anno, sono del 2024 - fornite dalle Nazioni Unite. sulla malnutrizione e il contesto storico:

Per la maggior parte delle persone, questa non è la prima volta che vengono costrette ad abbandonare le loro case dalle forze israeliane: circa 66 dei personaggi che vedete qui erano già profughi prima di ottobre.

Il lavoro di Federica Fragapane, information designer italiana, sugli sfollati di Rafah, ha il potere di incarnare i dati. Il sovraffollamento a Rafah, dove migliaia di palestinesi sono stati costretti ad arrivare dopo gli ordini di evacuazione di Israele, lo viviamo con angoscia attraverso i suoi disegni. Le stesse sensazioni di angoscia che probabilmente lei ha sperimentato analizzando e poi visualizzando i dataset.

Solo da poco, anche grazie ai film di Palestinesi, come No other land, si fa strada l’idea che è bene informarsi sui libri che fanno un excursus storico del conflitto. Rendono molto chiaro, per chi non lo sapeva già, che non è iniziata questa guerra il 7 ottobre, ma addirittura poco dopo la seconda guerra mondiale. Attualmente c’è un’escalation di Israele, della quale si sente autorizzata per i fatti del 7 ottobre.

Per finire, una giornalista canadese, Naomi Klein, ha dato spiegazioni inedite nel saggio pubblicato nel 2007 Shock Economy: l’ascesa del capitalismo dei disastri (titolo originale The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism), di cui parla lo psichiatra Domenico Fargnoli in un suo scritto del 12 settembre 2025. Per la giornalista canadese - lui riassume - Israele incarna la trasformazione del “capitalismo dei disastri” in un sistema strutturale: l’insicurezza e la violenza diventano motore economico, e le tecnologie sviluppate per gestirle diventano beni d’esportazione globale.

Questo fa capire in buona parte la deferenza del mondo intero (meglio, dei capi di governo) per Israele, considerato l’unico produttore di tecnologie atte a difendere dal terrorismo interno, e non solo.