Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
Fu un generale di vent'anni
Occhi turchini e giacca uguale
Fu un generale di vent'anni
Figlio d'un temporale
Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek.

(F. De André – Fiume Sand Creek)

In tempo di guerra, si sa, una delle prime vittime è la ricerca della Verità. Le parti in causa manipolano continuamente i fatti e gli avvenimenti, cercando di ricavarne consenso presso le masse che rappresentano. I caduti in battaglia sono numeri mai definiti, ma variabili, con la stessa logica di quando, ad un corteo, gli organizzatori dicono un “milione di presenti” e la questura dice “cinquantamila”.

Questo gioco coinvolge anche i sostenitori delle diverse fazioni, gli alleati fedeli, anche se non coinvolti direttamente nelle operazioni belliche. Capita così che, per non scontentare il paese amico impegnato in battaglia, anche il semplice utilizzo di alcune parole venga evitato, o sconsigliato perché considerato potenzialmente offensivo.

È il caso, attualissimo, di una parola terribile e angosciante, che evoca sofferenze e dolori indicibili, che hanno segnato intere popolazioni, accomunate dal fatto di serbare un ricordo saldissimo di quanto hanno dovuto subire, mentre l’altra parte, quella responsabile dei massacri, nega con rigore la verità. La parola Genocidio. Come recita il lemma della Treccani:

Sistematica distruzione di una popolazione, una stirpe, una razza o una comunità religiosa.

Definizione semplice nella sua brutalità. Il problema odierno è che ci si accapiglia per stabilire se e quando, questa parola debba o possa essere usata, come se qualcuno si sentisse autorizzato ad averne il monopolio. Sembra, infatti, che la parola genocidio debba essere legata esclusivamente al dramma degli ebrei nella Seconda guerra mondiale, l’Olocausto, la Shoah. Caso più unico che raro per la completa assunzione di responsabilità da parte della nuova Germania, rinata dal crollo del nazismo hitleriano, al netto dei rigurgiti negazionisti di piccole frange di nostalgici.

Bisogna, quindi, individuare alcuni aspetti caratteristici, comuni a tutti i casi acclarati di genocidio dell’era moderna. Il primo elemento è la pianificazione: chiara e scrupolosa, con tanto di documentazione precisa e puntuale, come nel caso del regime nazista, o più sfumata o subdola, nascosta in limitati centri di potere, come nel caso della Turchia contro gli Armeni. Tra il 1915 e il 1923, il governo ottomano attuò una politica di sterminio sistematico nei confronti della minoranza armena, considerata una minaccia interna in un periodo di guerra. Si stima che oltre un milione e mezzo di armeni furono massacrati o morirono di stenti durante le deportazioni forzate. Le testimonianze dell'epoca parlano di fosse comuni e massacri di interi villaggi.

Il secondo elemento è lo spostamento territoriale forzoso di un numero eccezionale di persone, spesso coincidente con il terzo elemento: l’eliminazione fisica delle persone. È il caso degli Armeni, costretti a infinite marce di trasferimento, alle quali in pochi sopravvivevano. Uomini, donne e bambini furono costretti a marce della morte attraverso deserti inospitali, senza cibo né acqua, sotto la sorveglianza brutale di soldati. Così come accadeva ai nativi americani nelle marce verso le “riserve”, terre promesse che spesso si dimostravano brulle e inospitali, condannando irreparabilmente al declino una civiltà con radici antiche nella simbiosi con i propri territori. Un esempio lampante è il Sentiero delle Lacrime (Trail of Tears).

Tra il 1830 e il 1850, decine di migliaia di Nativi Americani, in particolare le cosiddette Cinque Tribù Civilizzate, furono brutalmente rimosse dalle loro terre ancestrali negli Stati Uniti sud-orientali. Costretti a percorrere migliaia di chilometri a piedi verso territori aridi a ovest del fiume Mississippi, migliaia di loro, soprattutto anziani e bambini, morirono di fame, malattie ed esposizione. Fu un atto deliberato di pulizia etnica. Tutto ciò per liberare terre per la colonizzazione dei “bianchi”, altro carattere comune ai vari genocidi, quel Lebensraum (spazio vitale) utilizzato dai nazisti per giustificare l’espansione e l’eliminazione fisica dei “non assimilabili”.

La struggente canzone di De André, dalla quale è tratta la strofa in apertura, narra di uno dei tanti massacri di nativi americani, compiuti dall’esercito degli Stati Uniti, seguendo uno schema troppo preciso per non essere pianificato. Prima si attuava una forte stretta militare, volta a minare la resistenza dei vari popoli di nativi, le fiere nazioni che si opposero strenuamente, nonostante un gap tecnologico pesante negli armamenti, poi si proponeva la pace in cambio dello spostamento dei sopravvissuti altrove. In questo circolo infernale le prime vittime erano i bambini. Altro tratto comune.

Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek.

È una frase esattamente sovrapponibile a tutti i casi visti fin qui.

Bambini erano le vittime delle giacche blu americane. Uccisi o resi orfani, comunque privati, in modo brutale, dei giorni spensierati dell’infanzia. Bambini armeni sterminati con crudeltà dai turchi. Bambini protagonisti dell’orrore nazista, scacciati dalle proprie case, con la precisa meticolosità di una disinfestazione. Allontanati dalle famiglie o sterminati in fosse comuni con esse. Deportati e addirittura usati come cavie per terrificanti esperimenti. Numerati come le bestie di un allevamento. Con i pochi sopravvissuti condannati a portare un peso terribile per il resto della vita.

Le stesse, identiche, condizioni in cui si trovano i bambini di Gaza, in questa orrenda guerra, che sta superando ogni limite. La sciagurata azione di Hamas, nel fatidico 7 ottobre ’23, che ha causato migliaia di vittime israeliane e portato al rapimento di altre centinaia di persone inermi, ha provocato l’inevitabile reazione del governo ebraico. Purtroppo, la pur legittima azione militare si è trasformata da subito in un vendicativo bagno di sangue per la popolazione civile della Striscia, un esito tragico aggravato dalla tattica di Hamas di non farsi scrupolo di usare la propria popolazione come scudo. Ancora oggi, tra le rovine fumanti di intere città, Hamas preferisce dare luogo a grottesche esibizioni di potere bellico, anziché preoccuparsi di agevolare la fine del conflitto per il bene del popolo, che di fatto, è esso stesso ostaggio dei terroristi e delle conseguenze delle loro azioni.

A proposito del trattamento del proprio popolo, sorge un parallelismo con l’unico caso della storia moderna in cui ci sia stato un “auto-genocidio”, cioè un genocidio contro sé stessi, avvenuto in Cambogia. In seguito all'arrivo al potere dei Khmer Rossi di Pol Pot nel 1975, il regime attuò una radicale e brutale trasformazione della società, mirante a creare una utopia agraria e collettivista, attraverso l'eliminazione sistematica di intere categorie di persone considerate "nemiche": intellettuali, professionisti, minoranze etniche e religiose, o chiunque fosse sospettato di legami con l'estero. Si stima che tra il 1975 e il 1979, nell'arco di soli quattro anni, circa 2 milioni di cambogiani morirono per esecuzioni di massa, torture (come nel famigerato centro S-21), fame e malattie, rappresentando quasi un quarto della popolazione totale del paese. Un orrore perpetrato contro il proprio stesso popolo, con una violenza inaudita e una pianificazione metodica.

Dopo questa panoramica degli orrori del passato, appare evidente che quanto sta perpetrando il governo israeliano possa, a tutti gli effetti, rientrare nella casistica del genocidio, ricomprendendo tutti i caratteri analizzati. Ad aggravare il contesto si aggiungono, ormai quasi quotidianamente, dichiarazioni di esponenti dello stesso governo volte ad affermare la necessità di “liberare” i territori dalla scomoda presenza dei palestinesi, spostandoli non si sa bene dove, per il bene e la sicurezza di Israele, comprendendo anche i territori non sotto il controllo di Hamas, quelli della Cisgiordania, da sempre nelle mire dei coloni israeliani, che godono dell’appoggio del governo. È il caso del ministro della difesa che ha proposto la creazione di una “città umanitaria”, in cui raccogliere i gazawi in attesa della destinazione finale.

Dichiarazione da brividi, perché mi ha ricordato subito Theresienstad (Terezin) la città palcoscenico, dal funzionamento perfetto, con scuole, teatri, giardini, cibo a volontà e ogni altra comodità, nella quale il regime nazista aveva radunato migliaia di ebrei per dimostrare ai visitatori delle organizzazioni internazionali il tenore di vita riservato loro. In realtà una triste anticamera per Aushwitz. Evidentemente è davvero difficile imparare qualcosa dalla storia, anche quando si mostra particolarmente crudele.